domenica 22 dicembre 2013

I prigionieri del palazzo




Ora sembra quasi in Italia che chi si era installato nel “palazzo” - e cioè la classe politica, in grado di risolvere solo i problemi (immaginati, irreali?) che essa aveva ideato per sé stessa e anche contribuito a procurare - rischi di restarvi chiuso dentro. Che insomma per i suoi occupanti il palazzo o se vogliamo il castello (palatium, castellum: latini che trasudano entrambi sensi medievali, tanto quanto il nostro sistema dei tributi) possa tramutarsi in una prigione. Da possesso dunque a trappola, o labirinto. 
Ancora il palazzo, dunque. Oggi però la situazione appare un po’ più complessa, rispetto a quando l'immagine fu coniata da Pasolini, anche perché i numeri dicono che parte del popolo arrabbiato è entrata in certi edifici del potere, in modo legittimo, formale; ma senza volersi fare coinvolgere dalla filosofia abitativa ivi invalsa, rifiutando cioè sino alla ostinatezza pura ogni compromesso con i suoi dimoranti tradizionali. E questo mentre fuori ora si accendono qua e là i primi fuochi d’insurrezione, si fa pressante e a tratti cieca la intolleranza nei confronti di una sorta di riedizione in tono minore dell’ancien régime: un regime politico parassitario, avvolto nella corruzione, nel lusso e nello spreco.
Naturalmente bisogna mettere nel conto la eventualità che il palazzo possa essere abbandonato dai suoi occupanti tradizionali, frammista all’altra, che è forse più una speranza di molti: che esso possa essere messo a ferro e a fuoco in occasione di un qualche tumulto. Scenari grosso modo non nuovi, caratteristici del tempo che viviamo ma non solo; laddove l’economia sia intenta a produrre la sua merce più congeniale, ovvero nuova povertà, nuovi debitori e nuove censure - e lo faccia spudoratamente con la forza.
Sappiamo degli aspetti socio-economici della Rivoluzione francese, grazie soprattutto alla indagine del compianto professor Soboul; sappiamo, per averle viste in teletrasmissione, delle rivolte recenti nel Nord-Africa; della insofferenza nei confronti di regimi autoritari. Sappiamo degli scricchiolii dei vari sistemi economici, o del loro tentativo di rimodularsi; sappiamo della storia della lotta fra le classi sociali e parimenti che l’impoverimento di una nazione non è l’impoverimento di una intera nazione. 

domenica 24 novembre 2013

Sempre in tema di Costituzione materiale




Dal punto di vista giuridico, l’attualismo di ciò che ottiene e/o guadagna effettività, e si consolida o si è consolidato, è anche un che di congeniale alla psicologia e il diritto lì si trova in difficoltà.
Sempre in tema di Costituzione materiale, ad esempio, dopo le lezioni di Schmitt, Kelsen e Mortati, la domanda può essere la seguente: la classe politica, il suo rapporto effettivo col paese reale, fa parte di detta Costituzione? Oppure: ne fanno forse parte i termini reali del rapporto di lavoro dipendente e la condizione di quello cosiddetto «libero», con i tradizionali esiti di giurisprudenza? Se il problema è che cosa sì e che cosa non, allora la questione si mostra subito debole dommaticamente quanto facilmente strumentalizzabile, laddove una riforma del testo costituzionale potrebbe snaturare di questo e il senso e le finalità.
E - anche - il dubbio in tutto ciò è che della Costituzione materiale si siano coltivate visioni apertamente ideologiche per quanto è nei termini originari della questione; oppure se ne sia elaborata una visione costituzionalistica, comprensibilmente rigida e preconcetta, laddove l’ideologismo - lo si potrebbe dire anche puramente giuridico se non fosse necessariamente anche repubblicano o antiautoritario - è rimasto inconfessato.

domenica 17 novembre 2013

Per una teoria delle "più economie"




Può esservi crescita economica in un paese pur aumentandovi la disoccupazione (ovvero: più soldi vanno al paese legale-istituzionale e/o alle banche, meno ne vanno al paese reale, meglio ai cosiddetti consumatori): ecco la lucida affermazione di un ministro del governo, cui bisognerebbe riconoscere un valore scientifico positivo. Perché in fondo la questione è la seguente: di quale economia si parla, parlando di economia? Comunque sia, essa così già non è più una; e se appare retorico opporre semplicisticamente il paese reale a quello legale o istituzionale e del pari lo è parlare di crisi economica generalizzando, è anche bene che quella contrapposizione, pur simbolica o idealistica se vogliamo, non sia mai messa da parte o rimossa. 
Che cos'è in fondo l'economia se non solo essa è riconoscibile in atti o gesti semplici quali l'antica traditio, l'azionamento di un aratro per la coltivazione di un campo, il cambio della dimora o la nascita di un figlio; e drammatici, quali un furto, una lite, l'appropriazione violenta di un territorio, un omicidio, un sequestro, un episodio di cannibalismo; ma in fondo ogni atto, per dire una qualsiasi azione, può essere letto come economico? 
Questa sensazione del molteplice e del reciprocamente irriducibile indica che nella interpretazione di azioni o situazioni economiche non tanto varrà la reductio ad unum dogmatica quanto la irriducibilità dell'una all'altra e il conflitto, sia pure latente, che sempre deve poter essere individuato. 
La teoria che è qui suggerita, delle più economie, se può esservi letta una regola - una fra le tante che si possono scoprire con la onestà scientifica e l’intelligenza di un crescente realismo storico -, dimostra o suggerisce fra l'altro che tanto le istituzioni cosiddette «democratiche» possono divenire indifendibili se occupate da persone corrotte e immorali, quanto è astratto e parziale parlare di economia come se essa fosse una e una sola e quella e solo quella. 

domenica 3 novembre 2013

De Fontenelle



Un cœur oublié, ovvero quale occasione migliore di un film, sulla vita del signor de Fontenelle - romanzata, certo, per ruotare attorno al fatto che costui alla età di oltre ottant’anni si fosse invaghito di una bella fanciulla, di maniere dolcissime e d’ingegno non comune - per comprendere almeno due cose della storia: che la libertà è quello zefiro che soffia su qualcosa come una Enciclopedia - dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers ovvero il bisogno di riunire il sapere promuovendolo come in un exploit -, confortandola e proteggendola e che la libertà nel pensiero così data, che solo trova modo di svilupparsi nei salotti, laddove lo spirito e la parola non abbiano il tempo di occuparsi dei bisogni materiali, apre il varco alla libertà politica; che è però altra cosa da quella, ha altra natura. Voglio dire: il nesso merita di essere ritenuto piuttosto sorprendente che ovvio. 
Intendo ripensare un po' in questo anche il legame fra illuminismo e rivoluzione francese e di come la libertà di un Voltaire, di un Diderot o di un d’Alembert, pur non coincidendo con quella ma a quanto risulta ad essa avendo dato l’avvio (non basta la Riforma per spiegare le rivoluzioni borghesi), siano stati il pretesto per altra libertà, pragmatica, che sarebbero state piuttosto istanze di giustizia ed eguaglianza economico-sociale e umana, tolta alle confessioni religiose, unitamente al potere sulle scienze, la forza della promessa.

martedì 29 ottobre 2013

L'antiStato




L’equivalenza alla fine c’è ed è la seguente: l’antiStato è come lo Stato o quanto meno esso mira a indossarne gli abiti, assumerne il look; fa di tutto per somigliare a quello e anzi per compenetrarvisi ed esserlo, certo a modo suo. O forse anche, osserverebbe un maligno, se l'antiStato è indistinguibile dallo Stato allora la differenza alla fine conta poco. Mi fa pensare a queste cose, non proprio di passaggio, un libro interessante (Legalità costituzionale e razionalità legislativa, Napoli 2009), che metterei fra quelli che sanno penetrare e percorrere la realtà, ragionando sui particolari, autonomamente dalla teoria letteraria che governa i testi a stampa.

domenica 20 ottobre 2013

Uno "sporco gioco", ovvero certi attacchi al pensiero cattolico




Se accusare di marxismo e meglio di comunismo tutto ciò che sfavorisca il proprio arbitrio e ostacoli i propri interessi è vituperabile, volgere quell’accusa contro la parte migliore del pensiero cattolico laddove questo parli della persona e del sociale (e anche dell'amore) è uno sporco gioco. Significa lavorare per deturpare e il volto stesso del cattolicesimo come cultura e della cultura nazionale, per ferire l'uomo, giustificando con il pretesto della fede “personale nonostante il mondo modi di vita lasciati a sé stessi, rapporti di forza selvaggi, oscurità morale e intellettiva.
Come nascondersi oggi il nesso fra distribuzione della ricchezza e nobiltà della mente, o fra vita civile di un popolo e sana elaborazione di pensiero? Ci vuole un po’ più di capacità a stabilire legami, senza erigere castella a difesa dell’ignoranza e dell’oscurantismo. Dunque è evidente come sia delittuoso sacrificare il patrimonio culturale, scientifico e di pensiero di un paese a rozzi interessi materiali e/o a uno sgangherato principio di piacere. 

domenica 13 ottobre 2013

Fra misticismo e capitalismo (a proposito di un fiume sotterraneo)




Siamo abituati a immaginare l’uomo da una parte e la scienza e tecnica dall’altra, come se la verità si fermasse alla contrapposizione, prima ancora che ad essa sia dato il tempo di disporsi su una scacchiera. 
Mentre è anche che - e lo spunto mi viene da certa filosofia mistica d’ispirazione cattolica, per la quale la cosa è da condannare teoricamente/moralmente - scienza e tecnica pur nella contrapposizione sono l’unica chance che l’uomo ha o sente di avere a disposizione per "insidiare" la potenza divina. Ma qui l’uomo non deve osare, secondo quella filosofia, e dunque l'antitesi più che ancestrale fra ciò che è come è in natura (fùsei) e ciò che è tecnico risulterà sempre decisiva. 

domenica 6 ottobre 2013

Eutanasia, questione ENORME




Il medico e filosofo inglese Francis Bacon - siamo agli inizi del seicento - riteneva altamente desiderabile che i medici imparassero «l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità»; insomma il medico nella sua qualità avrebbe dovuto aiutare non solo a sanare ma anche a morire, in caso di insanabilità.
Francis Bacon
Già, è la cosiddetta «dolce morte»; ma il trucco umanitario per sé non spiega sino in fondo la questione - comprensibilmente essa è stata definita un tabù (Alagna, in Riv. it. medicina legale, 3/2012) - e forse l’invito baconiano va meglio apprezzato, secondo il nesso medicina-filosofia.
La eutanasia è una questione importante, credo quanto lo è l'esistenza stessa, o quanto lo sono le condizioni materiali di vita, soprattutto se precarie. Ed è una di quelle grandi questioni che sono state trascurate dal pensiero; laddove per contrasto con l’intelletto medio e ordinario è ancora una volta un medico-filosofo ad avere qualcosa da insegnarci.

domenica 29 settembre 2013

I diritti del tiranno (giochi e volti della politica)




Chiunque ha diritto ad avere i suoi diritti. Dunque alla fine anche il criminale ha diritto a essere rappresentato in parlamento: ecco un’affermazione resa dall’avvocato di un celebre primo ministro, che certo è da approfondire, perché si viene a dire così che il criminale può essere eletto democraticamente. 
Abbiamo allora diritti o non piuttosto eccessi di libertà sino alla irrisione della legge, spacciati per democrazia, secondo la descrizione fornita da Platone (Rep., VIII. 106)? Già: è che si tratta di chiunque, giacché questo è radicato nell'animo. 
Ritratto di creonte tiranno greco
Creonte, re di Tebe
E il discorso a questo punto si fa apertissimo: si va dal tiranno (egli non si dichiara tale ma lo è; non si sa fino a che punto egli lo possa essere effettivamente, ecc.), che impone i suoi dicta e i suoi iura con ogni mezzo (e dunque anche con retorica e soavità, non solo in modo autoritario e criminale), al popolo, ai cittadini - e non - che dal canto loro vivono con mitezza o quasi nel quotidiano, all’immigrato, lo straniero poverissimo, che reclama i suoi diritti, sapendo di essere l'altro da sé mai amato e di avere poco da perdere: questo è il copione; nel quale si legge molta biologia, poca ragionevolezza, ancora minore razionalità. E aggiungerei: il tiranno è colui che sempre vorrà esserlo e il suo potere, per essere stato costruito come reazione alle minacce dei nemici, sempre sarà minacciato; sempre egli quindi dovrà ricorrere a ogni mezzo; e ancora: naturalmente il tiranno di Alfieri non è lo stesso di Tocqueville, il quale parlava della tirannide della maggioranza. 

sabato 28 settembre 2013

Una costituzione moderna eppure "posmoderna"? (La spiegabile insofferenza dei costituzionalisti seri)




Il professor Paolo Grossi, storico del diritto, attualmente membro della Corte costituzionale, in una lezione dottorale del giugno 2013, inquadrava la nostra Carta fondamentale del 1948 nella cosiddetta età “postmoderna” (o “pos-moderna”, come egli preferisce dire). Laddove l’idea critica che scorre sotto il postulato è l’astratto individualismo delle costituzioni borghesi. Ma si tratta di una esatta cornice o non piuttosto di un contesto? 
Ciò per cui l'insigne giurista viene a parlare di postmoderno è la fine della modernità quale individualismo delle carte dei diritti, quelle americane e francesi del settecento per intenderci, e il fatto, in ciò, che mai, come durante l’epoca di cui da tempo si celebra la fine, «si è avuta una separazione tanto netta e una distanza tanto estesa tra Stato e società. La società era concepita come il regno della irrilevanza giuridica nella sua ripugnante magmaticità fattuale, una sorta di basamento amorfo sepolto ben al di sotto dell’apparato statuale e ad esso estraneo nella sua imprescindibile materialità; una materialità socio-economica che, agli occhi del giurista moderno, non aveva qualità differenti da una struttura geografico-fisica o geologica» (La costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, in Riv. trim. dir. pubblico, n. 3/2013, p. 609).

domenica 15 settembre 2013

Le "bonnes mœurs" (ovvero se la morale popolare sia elevabile a criterio della giuridicità)



Le bonnes mœurs «sont les habitudes, les usages conformes à la moralité, à la religion et à la culture d'un pays ou d'un peuple. Elles constituent un ensemble de normes, le plus souvent coutumières, en partie formulées dans les traités de civilité et dans les règles de droit civil et pénal. Elles varient selon les peuples et les époques, et constituent l'un des objets d'étude de l'ethnologie et de la sociologie comparative historique».
Definizione complessa, non v’è dubbio, questa che mi è dato trarre da Wikipedia; e così dev’essere, perché ogni ordinamento giuridico avrà le sue lacune fino a quando vi sarà qualcosa nella morale che il diritto non riuscirà mai a prendere, così come accade all'evento che esso sia irriducibile a fattispecie
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.

mercoledì 11 settembre 2013

Conservatorismo e liberalismo




L’irlandese Edmund Burke, nella sua invettiva ragionata contro la rivoluzione francese (Reflections on the Revolution in France), lasciò intendere (dicendo di ispirarsi al modello anglosassone) che si sarebbero potute avere libertà e democrazia senza l’azione di quei soggetti, popolari e borghesi (era l’orribil giacobinismo) per i quali soli pur esse avevano invece un senso; ovvero senza oligarchie e violenza; e che forse quella rivoluzione non sarebbe stata poi così necessaria.
Edmund Burke
Sminuire il valore e il senso di questi o quei determinati fatti nella loro qualità specifica e unicità (quei precisi fatti come ciò senza cui non sarebbe stato nemmeno immaginabile che le cose potessero cambiare nel modo come ciò sarebbe avvenuto) è un atteggiamento che attraversa il pensiero conservatore. Ed è un principio prossimo all'altro, sempre d’indole conservatrice, per cui noi possiamo pensare la storia come reversibile e non necessaria. Ovvero scindere la libertà dalla storia, od opporla alla democrazia. O come l’altro ancora, per cui la violenza è comunque qualcosa che va ripudiato.

sabato 7 settembre 2013

L’èra “dell’occhio” (nascita del mondo tipografico)





L’uomo “dell’occhio”.- “Il cubicolo di lettura del monaco medievale - recita un titoletto della Galassia Gutenberg - era di fatto una cabina di audizione”[1].
Poi, invece, con la nascita dell’uomo tipografico si sarebbe avuto il “passaggio di una società da moduli audio-tattili a valori visivi”[2]; ovvero, più in generale: il carattere tipografico “assicurò la supremazia della propensione visuale e infine suggellò la fine dell’uomo tribale”[3].
Parlando dell’origine dell’età gutenberghiana, la mediologia insiste su due aspetti: la forte crescita delle esperienze visuali - la “intensa vita visiva stimolata e favorita dalla scrittura”[4] - e la fine dell’uomo tribale. Come, parlando del medioevo, essa focalizza l’attenzione sull’udito, e altrove sul dominio delle esperienze audio-tattili, così, parlando dell’uomo tipografico, essa teorizza l’avvento di un’èra visiva.
Chi è allora l’uomo di Gutenberg, secondo chi ne ha teorizzato l’esistenza specifica perché ne ha intuito il declino, o il compimento? È l’uomo che viene sottratto al mondo delle suggestioni dell’orecchio - della parola subito pubblica, tribale, sociale; della magia della parola e dei suoni; del verbum e della recitazione dal vivo - ed è tradotto in quello della vista (più freddo, neutrale, silenzioso...), nel quale la parola si fa mentale, privata, quanto riproducibile visivamente, all’infinito.
Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, nella lezione luhaniana, l’occhio si è potenziato, si è separato nel suo esercizio dagli altri organi di senso, assumendo una supremazia, semplificando la complessità dei sensi, dissolvendo “l’intreccio tra le diverse proprietà di tutti i sensi” [5]; proiettandosi e moltiplicandosi nei caratteri di stampa e venendo a incidere così sul corso storico delle cose.

venerdì 6 settembre 2013

Lo Stato del conflitto perpetuo tra i poteri dello Stato (cenni sull'anticostituzionalismo politico)




Il conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato - ad esempio fra esecutivo e giudiziario, fra legislativo e giudiziario, fra lo Stato e certe sue riconosciute, volute articolazioni territoriali che però ambiscano a una certa quale autonomia legislativa - forse è un modo elegante, colto, per esprimere qualcosa che appartiene alla natura dell’uomo: è una realtà ineludibile, che fa parte non solo dell’ordine giuridico - e per meglio dire giuridico-costituzionale - evoluto ma anche dell’ordine sociale naturale delle cose. Che in qualche modo le tiene legate, in un modo anche - bisogna riconoscerlo - non tranquillizzante.
È la storia che lo dice, e più precisamente la storia costituzionale, la quale lo è realiter dei rapporti di forza fra poteri, o stati, o territori, o classi: il re unitamente al suo Consiglio contro il Senato, i parlamenti o le assemblee legislative rivoluzionarie contro i re, per dire però anche, in un modo più oggettivo e guardando alla economia e al sociale, i borghesi contro i nobili, o contro il clero; il clero povero contro quello ricco; il proletariato contro la borghesia. Ed è in generale nel contesto di tali conflitti, per quanto provato da quel compendio storico che è la storia della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica ma non solo, che le costituzioni s’impongono, quali patti (e comunque condizioni scritte, dettate) intervenuti tra quelle forze o poteri (se vi sono stati patti, allora sempre potranno esservi conflitti). O quali strumenti adoperati da alcuni contro gli altri.

Diritto … “esistenziale”?




Che in questi ultimi anni ci si sia discostati vieppiù, in tema di responsabilità civile, dallo schema strettamente patrimonialistico (il danno inteso solo come danno “patrimoniale”; il guadagno come “parametro del danno alla persona”: Gentile, 1962) e parimenti dal nesso fra danno non patrimoniale e lesione penale - ex art. 2059 c.c. -, è provato dal fatto che s’incontrano oggi, nello spazio argomentativo e linguistico del giurista, espressioni quali “abitudini di vita”, “vita di relazione” (distinta addirittura da taluno dalla dimensione strettamente esistenziale), “libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana”, “progetto di vita”, “colloquialità con le persone e con le cose”; laddove ricorrono le parole vita e persona.
Negli ultimi tempi il diritto - e segnatamente i contenuti della giurisprudenza - si è accostato alla psicologia e alle scienze medica e chimica (si pensi al mobbing, alle fattispecie di inquinamento, alla salubrità ma non solo dell’ambiente di lavoro e, appunto, in generale a problematiche del danno sempre più inerenti alla persona); ma fra gli aspetti innovativi della cosa è e non è questo ciò che qui voglio qui evidenziare. Nelle nuove tipologie di danno non patrimoniale, che mettono a dura prova la tenuta del sistema aquiliano classico, vanno ricompresi valori inerenti alle disposizioni costituzionali - nel nostro caso l’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità […]”) e anche l’art. 32 comma 1 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]”, attenti al principio personalistico) - alla norma civilistica, alla regola morale che sottintende, in parte la occupa e/o corregge quella giuridica, al comune modo di sentire, ed è in questo contesto che si è considerato in positivo il contributo giuridico delle suddette scienze. Ma a mio giudizio in questi aspetti, pur sempre necessariamente compresenti in sede di giudizio, ora non può più dirsi risolta l’essenza della questione.

mercoledì 4 settembre 2013

Gente "del Sud"



L’anarchico Passannante, origine lucana, povero, che di mestiere a quel tempo faceva il cuoco, attentò appena ventinovenne - correva l’anno 1878 - alla incolumità del nuovo re d’Italia, Umberto I; a Napoli, aggredendo la carrozza su cui viaggiava il sovrano, con un coltello che forse era buono più per sbucciare le mele che per infliggere ferite mortali; ferendo in compenso il ministro Cairoli, venuto in soccorso del suo re.

martedì 3 settembre 2013

Della personalità "criminale"




Leggevo, tempo fa, un breve contributo - a cura dei Quaderni della rassegna dell’ordine degli avvocati di Napoli - sulla personalità criminale.
Il mio approccio alla lettura e alla questione era determinato da una forte curiosità e meglio da una curiosità “di sempre”: capire una volta per tutte se detta “personalità” è l’eccezione che conferma la regola o non piuttosto un che di naturale; se essa fa parte dell’errore o se essa è umana come lo sono il parlare, l’avere due orecchie e un naso, il nutrirsi, ecc. Perché la personalità in tal senso non è certo compiuta, rotonda, evidente; essa vieppiù è qualcosa che sorprende, ché si annida nell’essere umano determinandolo in certi momenti o condizioni, che poi, non senza rendere onore al positivismo, si possano dire specifici. E questo per non chiedermi, ma essendo comunque la cosa per così dire velata, che cosa pensa il criminale di sé stesso, prima ancora che della sua condotta. Egli sente di agire per il bene o per il male?
La mia curiosità peraltro è andata in parte delusa, in assenza di risposte esatte o definitive alla questione; ma ne è venuta comunque una esperienza di lettura stimolante, per certi spunti di riflessione che ne sono emersi.

venerdì 23 agosto 2013

Louis e Guillotin: aspetti della giustizia penale




Agli inizi - non so quanto ... simpaticamente - il popolo l’aveva battezzata Louisette, o Petite-Louise, dal nome di Antoine Louis, segretario perpetuo dell’Accademia francese di Medicina; il quale - come chiunque fosse valso ad immortalare uno strumento di morte - mostrò subito di “non gradire”. Essa sarebbe anche stata battezzata glaive de la liberté, hasche populaire; ma il suo nome definitivo, per volere della stampa dell’epoca, sarebbe stato Guillotine, un po’ per vendetta nei confronti di Joseph-Ignace Guillotin, deputato dell’Assemblea nazionale e uomo - si dice - dal brutto carattere; un po’ a causa della rima con machine, che avrebbe consentito la composizione di epigrammi e canti popolari. 
Ma - mi domando - era solo questione di rima? Qualora si possa in qualche modo supporre, o addirittura dimostrare, che la storia politica e giuridica si è potuta mescolare - non senza una qualche singolarità nonché retorica - con la storia delle macchine?; la cui ideazione possa sempre aiutare a comprendere lo spirito di un’epoca?

giovedì 22 agosto 2013

Il diritto e il male (corruzione, economia e altro)




Razionalizzare il male? Sapendo che sino predicare la concordia e l'amore può valere a nasconderlo? 
E anche: razionalizzare la letteratura sul male, o del male? Per ciò: che le immagini possono essere di comodo e che cinema e letteratura usano trasfigurare la sostanza? Certo, anche questo proposito ha la sua arduità. 
Il tema, per il fatto stesso di scriverne o di parlarne, torna sempre ad essere per me quello dell'eterno rapporto fra diritto e morale, potendosi ritenere il diritto oggettivo, o positivo - quando esso non sia discutibilmente lo strumento ideale per ottenere l'obbedienza al precetto religioso -, una traduzione di contenuti morali in altra forma, che consiste in regole oggettive, delle quali è chiesta ex auctoritate la generale osservanza. 
Vi era tempo fa e vi è tuttora un confronto, che m’incuriosiva - e m'incuriosisce - tra gli asserti di due filosofi importanti quali san Tommaso e sant’Agostino. L’uno sosteneva - nel de veritate - che qualunque atto avvenga, esso avviene nella «presunzione […] che ciò che compiamo sia sempre quacumque ratione un bene» e cioè: «Il male, in quanto male non può essere lo scopo di un’azione umana, qualunque essa sia. Nel momento che la deliberiamo, la consideriamo, in quella particolare circostanza, un bene». L’altro scriveva grosso modo - nel de civitate Dei - che solo ogni opera di Dio è buona, che solo Dio è la vera fonte del bene. 

sabato 17 agosto 2013

Il teorema del giudice che può sbagliare ... sempre (S.B. - ma non solo lui - e il potere giudiziario)




Che un giudice in quanto giudice sia sempre reprensibile, al cospetto di una ipotetica giustizia divina, o che egli come uomo abbia le sue debolezze, sono elementi del senso comune che dicono della plausibilità così in modo estremo delle ordalie, come in genere del sentimento religioso, o della morale personale. E se dicono anche della ineludibilità del male, non per questo è vero che qualsiasi soluzione è migliore della ingiustizia. 
Per quanto attiene al munus giudiziale, siamo nel campo della norma, che va applicata; per il resto siamo nel campo della psicologia; che è fragile, è coltivazione della insicurezza e della cecità e si presta a usi strumentali, sia nella vita quotidiana, sia nei delitti, sia nella politica intesa come arte della conquista e conservazione del potere. E certo effetto sembra moltiplicarsi in epoca mediatica, ché i media si prestano alle facili influenze sull’opinione e alle falsificazioni. 
Che peraltro la psicologia sia oggetto della osservazione scientifica, ciò significa che lo è qualsiasi motivazione interiore, di qualsiasi condotta soggettiva, sino quella criminale; e se le azioni più singolari sono psicologia, allora la ragione, la conoscenza e l’onesto volere - ciò che serve per sconfiggere il male - stanno da un’altra parte. 
Per nostra esperienza da qualche tempo sembra emergere da certa psicologia popolare e non, nelle sue valenze politiche e propagandistiche, una sorta di teorema: che se un giudice può anche sbagliare, allora egli può sbagliare sempre; che ciò che potrebbe anche avvenire è come se potesse (ma dovesse quasi) avvenire sempre. Laddove l’inganno retorico e la confusione risultano subito evidenti. 

lunedì 12 agosto 2013

Eutanasia politica, eutanasia “negoziale”




Il nazional-socialismo, come ostentava il suo paganesimo, così ammetteva, facendone un principio - ma questo non era parte delle ostentazioni -, che i vecchi, gl’invalidi, i malati in fase terminale e i criminali, che fossero ritenuti “di peso” alla società, potessero essere caricati su furgoni, trasportati in luoghi ignoti e lì uccisi e cremati - salvo poi darne notizia, ma come di una improvvisa inattesa morte, ai congiunti, mettendo a loro disposizione le ceneri del defunto.
Così, prima dei campi di sterminio, e spiegandone in parte il senso, fra il 1940 ed il 1941 furono eliminate in Germania più di settantamila persone e si dice che Hitler, di fronte alle crescenti proteste dei cittadini tedeschi, presso i quali le notizie erano trapelate, avrebbe ordinato di sospendere quella pratica atroce; ma avrebbe ordinato di farlo - appunto - solo apparentemente.

domenica 4 agosto 2013

Il suicidio e la ... prigione (da alcuni miei colloqui con Armando Rigobello)




Gli dèi sono immortali, nel senso - anche - che essi tutto possono fuorché volere la propria morte. 
Ciò è quanto si trae, a illustrazione della cultura pagana, dalla naturalis historia di Plinio il Vecchio - opera sua o quanto meno da lui iniziata. E qui si profila subito il corollario, paradossale forse: dunque se gli dèi sono immortali, allora essi non sono 'liberi', non lo sono pienamente. Ovvero, per parodiare Sartre, gli dèi non sarebbero condannati a essere liberi. Ed è un contributo ulteriore, questo, a un’antica questione filosofica (si pensi al Cicerone del de natura deorum; ma già prima alla tesi degli intermundia, di Epicuro): come e dove vivono gli dèi, quale il loro pensiero o animo, per dire: quale la loro natura od origine? E perché mai - qui la domanda risulta opportuna - essi 'invidierebbero' i mortali?... 
Sartre diceva esattamente: «l'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa». Due passi appena nella logica dunque e si resta sorpresi dal fatto che creazione e libertà possano divergere nettamente, o quasi, contrapponendosi… Il che fa calare però più di qualche ombra di dubbio sul significato definitivo della seconda parola... Che cosa significa infatti essere «condannato a essere libero»? 
La volontà in generale comunque, sino nella sua celebrata onnipotenza o se si preferisce nella sua verità indiscutibile, appare così un che di successivo, che sta quasi a identificare nella divinità un limite naturale, o costitutivo: quello di essere quello che è. 
Inoltre: non potendo gli dèi rinunciare ad essere, essi non dovrebbero parimenti, potendolo fare (?), "sciogliere" la vita umana. Resta però il fatto che essi non hanno quella potenza o che cosa del volere o decidere che sembra invece insita nella natura dell’uomo, se questi si suicida, come fece esemplarmente Anneo Seneca, nel segno della cultura del suo tempo e di una "libertà" estrema. 
Lucio Anneo Seneca
In che senso allora, a voler muovere il passo successivo, si può ritenere che gli dèi possano solo non volere la morte dell’uomo, segnatamente se procurata? Essi infatti - e ciò è nella evidenza - se non possono volerla non possono impedirla. Così è per le culture pagane, così sembra non potere non essere per qualsiasi ordinamento giuridico ancor prima che per ogni ordine morale. Mentre su questo punto la cultura cristiana si mostra intransigente e chiara e considera il suicidio sempre negativamente o, per dirla con Blumenberg, come un’onta

domenica 28 luglio 2013

L’intelligenza di Proculeio: come salvare la politica dalla politica?




Che cosa ci tramanda fra le altre cose il mito, rielaborato filosoficamente? Che ad esempio, per rifarci alle origini della storia politica romana, «Romolo, colpito dal fulmine o massacrato dai senatori, scompare di fra i Romani. Il popolo e i soldati mormorano. Le gerarchie dello Stato si sollevano le une contro le altre e Roma nascente, divisa all'interno e circondata di nemici all'esterno, è sull'orlo del precipizio quando s'avanza un certo Proculeio e con gravità dice: “Romani, il principe che voi piangete non è affatto morto: è asceso al cielo, dove siede alla destra di Giove [...]"». Ovvero: «Romulus frappé de la foudre ou massacré par les Sénateurs; disparoit d'entre les Romains. Le Peuple & le Soldat en murmurent. Les Ordres de l'Etat a se soulévent les uns contre les autres, & Rome naissante, divisée au dedans & environnée d'ennemis au dehors, étoit au bord du précipice. Lorsqu'un certain Proculeius s'avance gravement & dit: "Romains, ce Prince que vous regrettez n'est point mort; il est monté aux Cieux, où il est assis à la droite de Jupiter"» (D. Diderot, Pensées, XLIX). 
In altre parole: l’illuminismo ciò che insegna o quanto meno tramanda a sua volta è che «esistono delle congiunture favorevoli all'impostura» e «se si esamina qual era allora la situazione di Roma si converrà che Proculeio era una persona assai intelligente e che aveva saputo afferrare l'occasione. Egli introdusse negli animi un pregiudizio che non fu inutile alla futura grandezza della sua Patria» (ivi). E in questo esso tramanda che la devozione è il primo prodotto di uno Stato.

domenica 21 luglio 2013

Per una reinterpretazione in senso democratico della costituzione “materiale”




Spesso i suoi fautori pensano la costituzione materiale in contrapposizione alla costituzione formale. Spesso emerge dalle loro posizioni realistiche l’antilluminismo dei romantici dell’ottocento, certo corroso e ridicolizzato dal tempo storico e sempre alla ricerca di teorizzazioni d’occasione.
Ma è bene chiarire subito un concetto: non si dà oggi e non da oggi moderno Stato senza costituzione, e alludo alla costituzione formale, ovvero a un testo composto di disposizioni scritte, inserito in modo gerarchicamente autorevole nel cosiddetto “diritto positivo”. E se questo è ammissibile, e taluno cita imprudentemente Aristotele e la sua politeìa, allora la costituzione materiale può essere pensata in più modi: in uno regressivo, ante rivoluzione francese e in uno progressivo, come accade da ultimo in un limpido intervento del prof. Bettinelli sulla questione della democrazia diretta, segnatamente dell’istituto referendario. Il quale autore parlando di “arricchimento istituzionale”, constata negli sviluppi della nostra storia popolar-costituzionale una “riesumazione” e di lì un ricorso crescente a questo istituto, segnatamente nella sua tipologia abrogativa, su temi importanti per i nostri costume e morale nazionale. E ciò sarebbe avvenuto ed è avvenuto dagli anni settanta in poi, dopo che - va sottolineato - quell’istituto era uscito ridimensionato dai lavori della Costituente (e anche oggi accade che le istituzioni tentino di porre un freno all'istituto). E all’aspetto formale aggiungerei necessariamente quello sostanziale, relativo cioè al contenuto o tenore normativo, che deve valere a spiegare anche quello formale, in base a un principio d’inseparabilità.

I "due" parlamenti




La questione che attanaglia da tempo, in una crisi che direi lunga, il ruolo e senso delle nostre camere parlamentari sembra essere il fatto che non si comprenda, nella tempesta in cui si trova il vascello della “repubblica nazionale”, che il problema non è sic et simpliciter nell’architettura delle camere e nei diversi criteri di formazione o rappresentatività di esse, o quello della utilità o meno del Senato o Camera Alta, o ancora quello della crisi della rappresentanza, che (è il suo quid novi) ha investito l’asse partitico, il che è assai allarmante; ma dirò subito che forse c’è e non c’è.
Tutti temi che per chi sappia un po’ di storia costituzionale (già, perché questa materia esiste e non da oggi…) risultano tutt’altro che nuovi, per essere quelli tipici delle strutture istituzionali, in parte quegli stessi dei lavori - tutt’altro che pacifici, contrariamente alle immagini rassicuranti - della nostra Costituente; ma la questione di fondo è nel fatto che possiamo pensare all’esistenza o avere davanti agli occhi l’immagine di due parlamenti, la cui configurazione nonché funzione oscillano simbolicamente fra un prima e un dopo rivoluzione francese.

venerdì 19 luglio 2013

Il caso Microsoft del 2001 (a proposito anche della fiaba del "libero mercato")




Al di là delle condotte giudicabili come anticoncorrenziali poste in essere dalla famosa casa di Redmond nella commercializzazione di un suo browser e al di qua dell’indole stessa della giurisprudenza, chiamata sempre a specchiarsi in fatti, persone e cose, il caso U.S. v. Microsoft - la più imponente vicenda antitrust del nostro tempo, celebrata nel pieno spirito del Common Law - è valso a riunire due profili problematici in uno: la tendenza naturalmente monopolistica insita nel mercato classico - quello per così dire delle merci “esteriori” - e la tendenza “naturalmente” monopolistica insita nel mercato del software e dello hardware - ma soprattutto nel primo -, contraddistinto da merci cosiddette “pensanti”. 
Il “caso Microsoft” in questo è valso a rafforzare, forse a suggellare, il dubium filosofico, morale e politico sulla pretesa identificazione di libertà e libertà nei commerci: non è che i teorici del libero mercato siano poco credibili in epoca di debolezza della domanda (ad es. Krugman); ma è che essi lo sono o dovrebbero esserlo quasi sempre.
Ovvero ora, alla luce di quella vicenda giudiziaria (cui altre ne seguiranno, di analoga sostanza), si può asserire una volta per tutte che la tendenza monopolistica è tutt’altro che contraria a natura, non costituisce una deviazione, e che ciò è comprovato dal commercio dei cosiddetti information goods, e, ancora, che tutto questo accade oggi, nel mercato che s’immedesima con la comunicazione e la rete, in un modo tale per cui il nuovo non può non colludere col vecchio, pur senza confondervisi, anzi: volendosi differenziare da quello.

mercoledì 10 luglio 2013

Giuridicità ac/seu necessità




Non credo sia la libertà la categoria filosofica par excellence. Credo invece che si tratti di una parola (una fra le tante) che non sta in piedi da sola e ha bisogno di nutrirsi del suo contrario, che è la necessità e in qualche modo di dover essere da essa distinta, non con facilità.
E aggiungerei che il gioco deve condurlo quest’ultima; la quale a sua volta, se si osservano le cose con un po’ di attenzione, ha un singolare potere liberatorio di concetti e idee. Ovvero: può spiegare più cose di quanto non faccia la libertà; se non altro a causa del suo richiamo alla realtà.
Personalmente, è da tempo che vado misurando le cose di pensiero sul terreno giuridico,  nel cui campo, se taluno (Perlingieri) ha posto la nitida nozione di (o del) giuridicamente rilevante - e lo ha fatto là dove Mortati aveva incontrato difficoltà argomentative -, Santi Romano, il primo Santi Romano, poneva la necessità quale nocciolo esplicativo del rapporto attorno al quale tutto ruota: quello tra diritto e fatto.
Ovvero: com’è possibile che - dov’è il trucco per cui - in un ordinamento la giuridicità sia già nel fatto (Mortati sembrava quasi terrorizzato dal contrario) e meglio in quel fatto che poi si tramuterà in diritto? Ovvero: è possibile che esistano un fatto non giuridico e un fatto giuridico e a quest’ultimo sia dato poi elevarsi al di sopra dell’altro? Ma essendo ovvero valendo potenzialmente l’uno quanto l’altro?
La spiegazione del Romano credo sia semplice; ma nemmeno tanto consolatoria forse - aggiungerei - se si considera la natura del problema. E considerando quello che i giuristi chiedono forzandone le potenzialità di pensiero speculativo al pensiero giuridico, che è il loro pensiero.
Per il primo Romano il diritto è nella necessità o è necessità, e il nesso logico scatta interpretativamente allorquando se ne ha la consolidazione. Il diritto è il fatto ma stabilizzatosi giuridicamente e cioè resosi giuridicamente necessario. Il diritto si forma laddove i fatti dimostrano che era necessario che esso si formasse.
Ancora: la necessità precede la volontà dello Stato (teoria cosiddetta volontaristica, cara per così dire agli spiritualisti) nonché il pensiero razionale.

lunedì 8 luglio 2013

La divisione "del potere"




Salvare la libertà dei cittadini: questa la motivazione formale ma forse la più profonda di Montesquieu, che dà la misura dello spirito con cui egli pensò la divisione dei poteri - e volutamente io parlo qui di “divisione” (e divisione "del potere", operazione che si rapporta ad una unità o concentrazione), invece che di “separazione”; ovvero: «Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà».
Montesquieu
Ma è vero, come aveva sostenuto Halifax nel seicento, che le idee contano per ciò: che vi sono interessi concreti o poteri costituiti che sostenendole le rendono significative, attribuendo ad esse valore. Nulla dunque, andando alla radice delle cose, può sostituirsi al fatto e alla evoluzione storica dei fatti. Fermo restando che anche una valutazione come quella di Halifax ha un valore formale, o suscettibile di elaborazioni. 

domenica 30 giugno 2013

La Dottrina dello "Spirito" (una scheda - e volti - di altri tempi?)




La Dottrina dello Spirito (dello Spirito oggettivo, dello Spirito assoluto; ma si muove necessariamente da quello soggettivo), rappresentata da Hegel, è una particolare dottrina dello Stato laica che crede in un forte elemento cultural-formativo o in una virtù insita nella classe politica o in quella dirigente, quasi fossero quello che sono per diritto di natura. Ma comunque considerando la politica fatta dagli uomini; in un senso conservativo e nel senso che se lo Spirito era un che di realistico, lo era perché fonte di una fede in (o di certa consuetudine con) un certo tipo di uomini al comando.
G.F.W. Hegel
Sono queste, ancora, con la loro carica antropologica, risultanze schmittiane che posso trarre dal volumetto Democrazia e liberalismo (pp. 119-120). Le quali forse possono sorprendere, se si guarda alla loro concreta semplice lucidità. E il senso di sorpresa è che questo è detto in relazione al fatto che anche Schmitt prende atto di Marx, e cioè: egli non è un perfetto idiota illetterato come qualsiasi persona o popolo che rifiuti Marx, per principio, senza conoscerlo, o magari per meri pruriti sessuali. 
Schmitt invece s’impegna nel ragionamento: quella di Marx non è la critica dello Stato hegeliano (che esso come è stato anche sostenuto, non sia riducibile a Stato prussiano ma a Stato moderno, che sa come fare sue anche le dottrine kantiane, illuministiche, rousseauiane) ma la controdiagnosi, più attuale, che analizza il nuovo Stato-società (e/o dei partiti) che a quello prussiano viene a succedere, sta succedendo, storicamente.

Berkeley e le macchine (già, quale la libertà?)




Il valore del motto esse est percipi, del vescovo irlandese George Berkeley - per cui nulla esiste al di fuori della nostra percezione -, distolto da certa interpretazione ontologista e ancora libresca, lo si nota oggi innanzi tutto nell’ambito della cultura delle macchine e dei sistemi, e cioè nell'èra elettronica o digitale; se si pensa che tale cultura per essere necessariamente collegata alla cultura biologica e a quella psicologica, è anche «cultura della percezione», interfacing, ovvero alla cultura del costituirsi fondante della percezione; se si pensa alla cosiddetta «unità percettiva», nella quale il tema è il rapporto fra un «materiale» ed un «immateriale» ed in ciò fra «reale» e «virtuale», negli sviluppi della tecnica e scienza dell’informazione. Il tutto, ovviamente, ritenendo non proprio paradossalmente l'uomo per buona parte almeno come l'ente più somigliante alle macchine e alla loro natura artificiale. 
File:George Berkeley by John Smibert.jpg
George Berkeley
Perché - mi domando - si è indotti oggi a pensare a Berkeley, ci si volge ancora al suo pensiero, parlando di «cultura della percezione»?