domenica 24 febbraio 2013

Dal “berlusconismo” al “grillismo”: verso il tramonto dell’autoironia?




Ridere di sé stessi (che subiamo una ingiustizia) come dei potenti (che ce la procurano) lo si fa volendo per così dire "sdrammatizzare", esorcizzare il fato, distanziare gli effetti dalle cause, mascherare; ma sostanzialmente si tratta di un modulo da compilare, in segno di accettazione, o di resa. 
Quella dell’autoironia e anche della satira sembra essere una componente solida della psicologia popolare; Freud e Reich ci hanno parlato di “psicologia delle masse”. Freud segnatamente riferiva nel saggio sull'umorismo, di quel condannato a morte che nel salire sul patibolo di lunedì, se ne usciva con una battuta di questo genere: "Questa settimana comincia proprio bene!". Noi comunque, non sapendo di patologia o non volendocene occupare più di tanto, preferiamo parlare qui di “psicologia popolare”, l'animus dei vinti. 
Il popolo, per dire non solo la populace ma anche le piccole borghesie 'ignoranti' (lo fu il Cartesio di Voltaire, ignorant: perché non potrebbero esserlo le piccole borghesie?) e di più altri strati sociali più elevati per tenore economico di vita ma tutti riuniti in popolo a causa di una comune psicologia, era chiamato sino all’ottocento ad assistere alle esecuzioni capitali anche atrocissime solitamente di poveri sventurati, che dovevano essere colpevoli “a prescindere”, affinché i servi ossequiassero i domini.
E il popolo, come eterna categoria, è un po’ sempre quello, che così trovava e trova forme di appagamento agli istinti più bassi come sapeva e sa ridere delle proprie sventure. O che del pari fa - sublimando, rimuovendo - della satira e delle sue venature nichilistiche, o dei dolorosi paradossi di morale, à la Trilussa, la giustificazione ideologica della propria condizione.