venerdì 24 maggio 2013

Rappresentanza e obbedienza (fra istituzione e naturalezza del comportamento)




Come i parlamenti dell’Europa medievale già prima dei secoli XII e XIII erano chiamati nei fatti all’ufficio del rappresentare, così tale ufficio appare, oggi più che allora, irrinunciabile, soprattutto sotto un profilo formale.
Difficile immaginare, antropologicamente ancor prima che giuridicamente, l’organizzazione politica di una società senza parlamento e cioè senza luogo e/o modo nel quale convenire (e contarsi, e usare il linguaggio, appunto non "parlare" ma "parlamentare") per prendere decisioni che impegnino una intera comunità, o un intero popolo.
Ciò lo si può attribuire a tre ordini di cause: che il consenso popolare in qualsiasi forma è ineludibile, per chiunque abbia il potere, che la rappresentanza politica ha radici tanto sociali quanto istituzionali (il pensiero va alla repubblica ginevrina, per la valorizzazione fattane da Rousseau) e che la funzione legislativa - che si dà spesso come prevalenza del parlamento - non combacia con quella rappresentativa in quanto tale.
Ovvero sarebbe difficile immaginare l’organizzazione politica di una società senza un qualche parlamento se, per assurdo, non vi fosse differenza tra mera partecipazione alla formazione di decisioni o leggi e potestà di decidere o di legiferare. E qui prende vigore per noi la ricostruzione storica.
Del parlamento in senso moderno - avvertiva Antonio Marongiu - non è agevole individuare la vera esatta origine

Rex Judex (giochi etimologici e personalità del potere)



Nel medioevo, secondo la ricostruzione fattane dallo storico Antonio Marongiu in un saggio del lontano 1954, il re ben presto dové dimostrare di essere degno per così dire del suo titolo. Ovvero, per essere re, egli dové difendere e coltivare un suo “onore” (l’onore che, secondo quanto asserisce Montesquieu nel suo Esprit de lois, è principio del governo monarchico, come ciò che lo fa agire). Dové farlo, intuitivamente, perché era la più alta autorità politica esistente sulla Terra, perché quella carica racchiudeva in sé il dono della universalità e perché a essere tirato in ballo era il principio stesso di autorità. E da certe cose non ci si allontana mai: Deus-Zeus, pater, auctoritas
Il motto di Isidoro da Siviglia (Ethimologiarum libri) è abbastanza eloquente al riguardo, anche se il gioco verbale appare sin troppo agevole: Rex eris si recte egeris: “sarai re se avrai agito rettamente”; laddove nel gioco dell’apparenza etimologica (congeniale all’età di mezzo, soprattutto al rinascimento bolognese) si può cogliere il senso di un messaggio e cioè l’assonanza e l’identità di radice fra rex, recte e regere. Come dire: l’attribuzione “morale” era già scolpita nella parola, anzi nel monosillabo; si trattava solo portarla alla luce e di darne testimonianza.