domenica 27 luglio 2014

Come capinere? (da Pasolini a Verga)



Pasolini diceva grosso modo: aboliamo la scuola dell’obbligo e aboliamo la TV; beh!, intanto proviamo, vediamo l'effetto che fa... magari facciamolo in attesa di tempi migliori.... 
Lo scriveva nell'ottobre del 1975, in un articolo pubblicato sul Corriere della sera. Era in ballo la questione giovanile, i giovani sradicati da tutto, divenuta questione criminale. Che egli osservava, per sua esperienza, guardando i ragazzi delle borgate romane (già strappati dal Sud e traditori delle loro culture meridionali) e cercando d’individuare le cause della brutale trasformazione delle loro consuetudini. 
Ecco alcune fra le sue parole: «Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere. 
1) Abolire immediatamente la scuola media dell'obbligo. 
2) Abolire immediatamente la televisione. […]

lunedì 16 giugno 2014

L’anima e la macchina (Su Cartesio e la "sua" epoca), versione riveduta, primi paragrafi



  
§ 1.- Cartesio per me è significativo, nel mondo e storia della filosofia, per avere dato alle macchine, avendone constatata la effettiva possibile autonomia nel funzionamento e certa complessità e variabilità nella organizzazione, la dignità di oggetto del pensiero.
Ovvero io ritengo che attraverso Cartesio la filosofia abbia contribuito efficacemente a riconoscere alle macchine, certo non meno che storicamente, quella dignità che a esse era mancata per lunghis­sima umana tradizione. Che mancava ad esempio nella opinione di un Archimede, per il quale la tecnica non era una nobile occupazione (il che comunque non vale a escludere che la filosofia se ne occupasse e se ne occupi); o in generale di quanti, nelle varie epoche, avessero ritenuto la natura non imitabile (mediante l’artificio), o considerato le macchine - e gli strumenti della tecnica in generale -, atte semplicemente ad opere servili, o ai divertimenti.
Cultura questa, della distinzione e gerarchia fra arti liberali (nobili) e arti meccaniche (servili), che è stata consacrata scolasticamente - come si sa - dal medioevo; ma che non può ritenersi, sic et simpliciter, cultura medievale, ché si è trascinata anche successivamente, nei preconcetti. 
Ritengo inoltre, in questo mio modo di riflettere, che quella virtù che voglio ravvisare nella filosofia di Cartesio possa essere ricollegata tanto a un’epoca specifica - che egli è chiamato a rappresentare nella nostra memoria soprattutto simbolica - la quale va dalla seconda metà del cinquecento al primo settecento, quanto alla natura stessa del suo pensiero.
Nel quale, in fondo, che cosa avvenne? Avvenne, in un modo singolare e storicamente importante, che il mondo “esterno”, il mondo delle cose, crebbe parallelamente alla crescita del mondo interiore, venendosi a costituire entrambi, nel loro sviluppo, come mondi osservabili, e come res. E ciò fu possibile (anche) perché l’interiorità messa in luce, positivizzata, esposta al mondo, iniziò un suo cammino di esteriorità.
 
Il che significa: il cosiddetto “dualismo” (cartesiano) fra anima e corpo può essere interpretato costruttivamente prima ancora che gerarchicamente (schema, in fondo abbastanza agevole, della superiorità dell’anima sul corpo) o in termini di negazione, dell’una nei confronti dell’altro.
Cartesio, si sa, non ideò quel dualismo, che risaliva invece alla filosofia degli Antichi laddove aveva raggiunto livelli notevoli di elaborazione; egli piuttosto ebbe a porlo, e a svilupparlo, mettendolo nella condizione di dare frutti scientifici positivi - che si possa dire o non, come è stato detto, che quel dualismo ha mostrato assai presto il suo fallimento.

In altre parole: il dualismo fra anima e corpo, con Cartesio, si pone in un modo filosofico tale per cui esso viene contestualmente a incidere sull’ordine scientifico delle cose. Ciò per cui insomma, raccogliendo le impressioni, la filosofia stessa entra nel circuito scientifico positivo. Presentandosi invece, le soluzioni date da altri filosofi al problema, ad esempio da Malebranche o da Spinoza, come non inerenti in modo diretto agli sviluppi della scienza fisica.

Questo significa, ancora, che proprio a quel processo di disincarnazione del pensiero, che Cartesio condusse nelle sue riflessioni e sul quale c’intratterremo, va ricollegata la possibile sensibilizzazione del pensiero occidentale al valore delle scienze positive ed alla realtà fisica (o) esterna in generale. Che proprio nel contesto di quel processo, legato profondamente a una mentalità matematica e anatomica, può essere riconosciuta una prima liberazione di spazi culturali in favore delle macchine, segnatamente quelle dotate di organizzazione, e in ciò liberazione della tecnica. 


martedì 3 giugno 2014

Il «partito giudiziario»




Il “partito giudiziario”, donde poi l’altra locuzione: “democrazia giudiziaria”, in Italia, nel cosiddetto “ventennio berlusconiano” e non solo, sembra avere preso il posto, in quanto a funzione - anche se è qualcosa di più o di diverso -, di un auspicabile quanto mancante partito di opposizione e ciò a causa del formarsi della cd. "casta": la classe dei rappresentanti nemica di quella dei rappresentati... 
Nei fatti, esso si è sostituito - mai dimenticare peraltro che esso origina dal tempo cosiddetto di "mani pulite" - a una ipotetica 'sinistra' (epperò direi: non necessariamente "sinistra") democratica e riformista; meglio ancora: si tratta in fondo del partito della legalità, la quale è stata messa a dura prova dalle classi politiche e di governo, maggioranze e opposizioni - e ancor più: 'partito' o che altro, custode della moralità inscritta nella legislazione e oggettivata, e/o della legalità costituzionalmente orientata... 
Pure, il 'vuoto politico' è rimasto e non sarebbe potuto accadere diversamente: come avrebbe potuto quel singolare “partito”, nonostante l'effetto democratizzante e di giustizia risanatrice, espletare davvero la funzione propriamente riformistica e/o di opposizione 'politica', dal momento che esso era chiamato essenzialmente all'applicazione della legge e in questo ad attribuzioni determinate, nonché all'appagamento del sentimento punitivo popolare, rispondente a un principio generalizzato d’imputazione? Ovvero a quel desiderio oltremillenario di vedere i politici, pur essendo magari sempre disposti a baciarne il lembo della veste, in prigione? Effetto antico dunque e non direttamente politico, e... 'ambivalenza emotiva'? 
Era nel trascorso ventennio che la repubblica stessa secundum legem si opponeva a una praeter legem, tutelata la prima nel suo lavoro dal principio di legalità e da quello della separazione dei poteri, meglio della 'divisione del potere'. E in questo nei fatti qualcuno ha voluto vedere che un organo costituzionale dello Stato era divenuto come un partito, garante dell’ordine giuridico, costituzionale e democratico. Ma perché - mi domando - una siffatta anomalia? Perché - cosa non frequente - la corruzione e la elusione della costituzione si erano materializzati in un partito, che governava; ma certo non si può escludere in un altro, che si sarebbe dovuto opporre e la cui funzione appariva invece sempre più integrativa di un sistema. E perché in questo singolare teatrale 'bipolarismo', si stava costituendo - a voler semplificare - una sorta di anti-Stato nel cuore stesso dello Stato... 
Allarme attentato al tribunale di Palermo (foto: ANSA)
La procura di Palermo
Ma vi è dell’altro, che merita di essere sottolineato, per ottenere una spiegazione; qualcosa di meno specifico della realtà italiana, ed è che secondo le teorie del realismo giuridico, segnatamente scandinavo, il giudice è (prima ancora di esserlo divenuto) legislatore. Il che non dovrebbe sorprendere più di tanto, ché si riallaccia in fondo agli insegnamenti del diritto di Common Law

sabato 31 maggio 2014

Stato vs Diritto




Dire lo Stato di diritto non basta, perché tale locuzione vale a mettere insieme, a non voler appiattire il diritto nel fatto, due forze contrapposte e destinate a combattersi: lo Stato - appunto - e il diritto. Nulla di pacifico pertanto o di scontato, nonostante i molti sognino da sempre una vita calma e ordinata. 
Tale è la questione ad esempio per cui essa si pone ogniqualvolta una persona che ricopra una carica istituzionale commetta un illecito; e i suoi termini sono pressappoco i seguenti: se egli resta impunito, e/o se non rassegna le dimissioni, ciò che cosa sta a significare? Ovvero anche: tale è la questione per cui da sempre si può parlare di una legge ingiusta, di un'Amministrazione che danneggia i cittadini, opprime i più deboli, non paga i suoi debiti
Più in generale, il dato eloquente e il più dimostrativo al riguardo può essere colto qua e là ma come illustrativo della sostanza: ad esempio esistevano anticamente il fiscus principis e il fas - a legittimazione del ruolo sacro dei re; una volta il principe era grosso modo lo Stato, oppure egli era ritenuto legibus solutus, sciolto cioè dai vincoli della legge umana. Esisteva quale regola nell’età di mezzo e non solo in occidente il diritto divino del re e nell’età moderna si ebbero le monarchie assolute: si tramanda che un giorno - era il 13 aprile del 1655 - Luigi XIV di Francia, il “re Sole”, avrebbe detto, al cospetto del parlamento di Parigi, l’état c’est moi!
Ora io mi domando anche: se lo Stato è stato immaginato dal pensiero come Behemoth, o come Leviathan (sono i titoli di due opere di Hobbes), che ne viene? Non è forse allora la scelta stessa dell’immagine a parlare? Proprio a favore di una mostruosità che va accettata pur sapendola tale; o se vogliamo di un mondo che conserva in sé ancora del selvaggio, nel quale però l’indigeno modernizzato nemmeno più bastona il suo totem, perché non è quello il suo padrone?

domenica 25 maggio 2014

Le vie dell'edonismo: la conservazione oltre e come il "nuovo"




Da tempo, una delle illusioni fondamentali di tanta umanità occidentale è che in certo senso la vita viene da sé e la dobbiamo assecondare, che la ricchezza e il benessere ci sono dovuti (e insomma i poveri si vergognano della propria povertà); altra è che si è come si fosse immortali. 
E meglio: questo è solo un ritaglio ma importante di un’epoca variamente definibile: come “capitalismo avanzato”, o post-capitalismo, o “èra postindustriale”, o se vogliamo “dopostoria”, e anche “consumismo”, espressioni legate ma separate, nella nomenclatura, a causa di certa quale difficoltà a segnare l’inizio e la fine di quella età che il marxismo ha voluto contrassegnare come capitalismo ma che si sarebbe poi rivelata ben più complessa, più di quanto - anche - non avessero detto alcune importanti verità, emerse nel sei-settecento (rivoluzioni cosiddette “borghesi”) e nell’ottocento (rivoluzione cosiddetta "industriale”). Come dire?: troppa troppa linearità, per quale coscienza poi? 
La vita viene da sé, dicevo; essa è solamente dinanzi a noi; ma è anche un flusso: meglio poi se si può soddisfare il corpo o altro per non cambiare il mondo e non soffrire. Il mito della ricchezza che, mescolata con il principio di piacere, forma come una grande bolla che ci contiene, les illusions du progrès, per come le aveva battezzate George Sorel agli inizi del novecento, e l’edonismo, per quanto ne aveva colto Marcuse in un suo saggio giovanile: questo in fondo è il piatto offertoci e il nutrimento; e siamo però così subito al fondo. Nessuno sguardo sul passato, per il quale sembra che non vi sia interesse e che resta sempre di più un non-pensato; ed è così che l’edonè - ninfa semi-antica - mutatasi nella condizione ma non nella sostanza può governare come madre … e tutto sembra viaggiare con levità sui binari della “presunzione di”, o “presunzione che”, come sospinto da eros ...: una interiorità personale divenuta di massa. 

Fra l’altro l’esperienza di vita m’insegna che vi sono parole che godono di una fortuna singolare, perché distraggono dalla realtà o producono simboli, termini che vengono eletti dalla morale comune a punti di riferimento in qualche modo significativi, se bisogna tirare avanti. È un po’ il pragmatismo del linguaggio, che sospinge in avanti. Si dice così comunemente “bene”, “bello”, "bella", “maltempo” ecc. e parimenti “il tempo”, per dire e non, forse più per rimuovere o nascondere credendo di muovere che per capire. Ma così va il mondo e tutto ciò evidentemente è molto, troppo umano.
La regoletta vale anche per il lemma “capitalismo”, che alla fine, lungi dal destare scandalo per il suo uso, sarebbe stata accettato e accolto dalla nostra cultura cattolica neanche progressista già cinquant’anni or sono. Una definizione alle volte di comodo: questa è la sensazione... Capitalismo per dire anche fabbrica del piacere (il facile arricchimento come piacere, ad esempio), condizione nella quale si è imprigionati, a causa della molteplicità dei beni, che vengono prodotti, messi in commercio e che sembrano vieppiù fedelissimi servitori. 

mercoledì 19 marzo 2014

La "shock-economy" (ma ... in che mondo siamo?)





Dunque secondo certa teoria (mi ricollego a un articolo di Riccardo Tomassetti, apparso in “Attualità politica” verso la fine di gennaio di quest’anno) noi attualmente vivremmo in uno stato o stadio di shock-economy: approfittare dello stato di shock vissuto dai popoli a causa di una crisi economica (procurata, indotta, tanto e più di quanto avvenuta più o meno spontaneamente) o a causa di un grande incredibile lutto o di una paura "cosmica" (penso subito all'11 settembre), 
creando scenari di manifestazioni di massa; o di flussi migratori di grande intensità; per introdurre soluzioni economiche che spostino potere di dominio e grandi ricchezze; che estendano le fasce di povertà e/o magari che tolgano sovranità agli stati nazionali. 
Produrre un generale progressivo senso difensivo e d'impotenza, o d'insicurezza paura e stress, per rendere accettabile alla fine qualsiasi azione, qualsiasi decisione politica. 
E quali azioni? Per esempio uccisione vile quanto "gloriosa" agli occhi dei più di un capo di Stato, trasformato in mostro, depauperamento attraverso le imposizioni fiscali di popoli (politica alla fine ipocrita del sacrificio o dell'austerità), utilizzando le risorse derivanti da quelle tasse per trasferire ricchezza; privatizzando il pubblico in generale; togliendo ai ceti medi e/o ai poveri per dare alle banche, deregolamentando il mercato del lavoro, ecc. 
Ecco dunque profilato con chiarezza un nuovo tentato e non solo totalitarismo, una nuova tirannide o quanto meno una sua realissima riconfigurazione. E al fondo l’idea è che la crisi non necessariamente debba essere "causata" né ben percepita; e che comunque sia si venga a parlare pubblicamente di altro, poiché gli argomenti non mancano mai e perché una qualsiasi repubblica può essere per lo più parlata e detta. 

martedì 18 marzo 2014

Che cosa non è più diritto "positivo"



Nella interpretazione resa da certa scuola di pensiero, il diritto positivo non sarebbe più il diritto positivo che sapevamo, poiché nel suo corpo sono penetrati elementi della morale e del diritto "giusto" cosiddetto; ma non solo nel suo corpo - debbo presumere - e invece anche nello spirito, che vi si traspone. 
Codeste penetrazioni, che hanno messo in second’ordine il modo tradizionale d'intendere la distinzione fra diritto e morale, si sarebbero avute a causa delle moderne costituzioni e convenzioni e dichiarazioni nazionali e internazionali dei diritti. I quali fenomeni dunque non si possono leggere come un “di più” per dire cibo per moralisti o sognatori o idealisti; ma come evoluzione necessaria del diritto, in senso oggettivo e come cultura. 
E si tratta in certo modo di un paradosso, se si considera come a un bisogno crescente di fissare regole generalmente valide e principi - a loro volta universalmente oltre che generalmente validi - e cioè a un bisogno di sempre nuovo diritto positivo (tempo addietro mi era capitato di parlare di “diritto positivo alla ribalta”, a voler illustrare detto bisogno), abbia fatto riscontro una crisi della concezione giuspositivistica del diritto. 
H. van Groot (1583-1645)
Dunque per regolare rapporti socio-economici vieppiù complessi non ci si poteva più giustificare con la mera contrapposizione “diritto naturale-diritto positivo”, pur consolidatasi nella dottrina eccellente (si pensi al celebre saggio di Norberto Bobbio), utilissima sì ma molto alla fin fine ai tiranni e tirannie di classi, e bisognava introdurre nel ius positum elementi del cosiddetto ius naturae (penso ai meriti dei Grozio, dei Gentili, degli Altusio, dei Pufendorf via via a salire fino a Kant - e direi anche a certa scuola cattolica del diritto della Francia di fine ottocento, dalla quale sarebbe nato il diritto internazionale quale disciplina), spesso in dipendenza del fatto che la normazione proveniva da una domanda di giustizia. Che tanto era morale quanto si sarebbe rivelata razionale

lunedì 17 marzo 2014

I troppi uomini "della Provvidenza"...



Benito Mussolini, il duce del fascismo, già anarco-sindacalista, già socialista, già uomo della irriverente prometeica “prova dell’orologio” (grosso modo: "Dio, se esisti, ti chiedo di fulminarmi entro cinque minuti!" - e al sesto il pubblico contadino d'occasione s'impressionava), nella sua ascesa al potere fu salutato dalla Chiesa Romana come “uomo della Provvidenza”. 
File:Mussolini mezzobusto.jpg
Qualcosa di analogo è avvenuto “mutatis mutandis” circa settant’anni dopo con Silvio Berlusconi. E il popolo italico, si sa, come sgradisce i fatti in quanto tali e ne ama invece la rappresentazione, così attende spesso il blessing della Chiesa, per sentirsi giustificato per ciò che fa o sente. 
Vi sono in altre parole periodi storici critici, burrascosi e di forte disagio-possibile trasformazione sociale nei quali alla sensibilità comune l’orizzonte appare buio, o la situazione economico-politico-esistenziale confusa e di difficoltà crescente, o come sospesa sul vuoto (nel primo caso gli effetti della prima guerra mondiale, nel secondo quelli di “mani pulite”). Ovvero anche: vi sono momenti nei quali i poveri ma non solo hanno paura di diventare più poveri, i piccolo-borghesi vivono l'incubo della retrocessione socio-economica, i ricchi temono di perdere potestà politica e soldi, gli aspiranti ricchi le loro chances di successo e tutti - pur l'uno contro l'altro - hanno bisogno di maggiori - non limpide - 'certezze' per il futuro. Ed è allora che si cerca, in mancanza di puri e casti - l’uomo forte, o comunque un po' superumano, che sia duca: garantisca per tutti e infonda sicurezza. 
File:Silvio Berlusconi (2010).jpgEgli può essere un principe, magari che cavalca un bianco destriero - il che sazia davvero la fantasia infantile -; ma no!, non può esserlo, e può essere invece un homo novus politicamente parlando, al quale perché nuovo e un po' "qualunque" è quasi istintivo ascrivere poteri taumaturgici e quasi più che naturali. Così uomo nuovo sarebbe potuto essere un dictator all’epoca della repubblica romana antica, piuttosto che un infante nell’epoca delle moderne monarchie assolute, chiamato a risollevare le sorti di una "nazione" in declino. Un uomo della Provvidenza, dunque, come uomo nel quale riporre ogni speranza, cui rimettersi sino rinunciando a certe libertà. E a questi profili avrei potuto aggiungere immediatamente Hitler, per non dire Stalin e altri "capi" politici per lo più funesti, se non fosse stato per una mia deliberata volontà di ... moderazione. Ma tant'è e credo che l'uomo nuovo sia accostabile molto al tiranno greco antico, equidistante dalle aristocrazie quanto dalle democrazie; una figura forse fortunata, in contesti supermoderni (!) di società di massa e di crisi dei partiti. 

Una rivoluzione possibile? (ma parlamentare, necessariamente)




Di questi tempi la sensazione è che si stia andando verso una (o si versi già in un clima di) impasse istituzionale, e l'opposto se vogliamo dell'armonia, a causa dei troppi interessi torbidi che i vari governi si sono impegnati e s'impegnano a tutelare; a causa sostanzialmente della corruzione che soccorre in un modo determinante le forze della conservazione e del privilegio, le quali sempre rivelano di essere più estese e di avere più radici di quanto si pensi. E certo la medicina della revisione costituzionale, addirittura con il ventilato attacco all’articolo 138 (“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”, laddove sottolineerei anche quel "ciascuna Camera"), è di quelle di cui nella più rosea delle ipotesi non si conoscono ma si possono temere gli effetti collaterali. 

domenica 16 marzo 2014

Quale la condizione reale, a causa di quale Risorgimento?




Il Risorgimento italiano, per quanto affermò Antonio Gramsci, è stato una rivoluzione mancata; esso cioè non è stato l'occasione per una rivoluzione borghese, perché troppa rimase politicamente, al di là dei livelli d'industrializzazione, la distanza fa borghesia e classi contadine - esattamente il contrario di quanto era avvenuto in Francia, nella sequenza "grande illuminismo-rivoluzione" -; e dunque in questo senso, posso aggiungere, il nostro non fu un vero Risorgimento nazionale, o giù di lì. 
È un esempio di storiografia politica, che vale a spiegare il presente in base al passato, il quale a sua volta va sempre indagato e meglio conosciuto. E comunque sia, prima di rifiutare una qualsiasi tesi, non bisognerebbe perdere di vista la storia, che ha sempre da dire. 
Riforme nel periodo delle monarchie cosiddette "illuminate" di metà settecento ne furono attuate; innovazioni sempre di natura amministrativa (ché la prima questione per uno Stato e la sua prima forma d'identità è la sua amministrazione) furono introdotte da quell'esportatore di cultura borghese che fu per suo destino Napoleone; ma il nostro Risorgimento fu monarchico, piemontese, incoraggiato per dire finanziato e aiutato da potenze straniere, truccato con ogni mezzo (dalla studiata antropologia dei Mille alle "bustarelle" ai generali borbonici, al metodo degli eccidi), sostanzialmente antipopolare e ancor prima assai poco borghese. In altre parole, anche: se in Italia vi furono e vi sono idee innovative borghesi, o liberali, esse erano e sono votate a operare lontano dal popolo e, quel ch'è peggio, lontane non solo dal popolo. 

lunedì 27 gennaio 2014

La simpatia di Hobbes, ovvero lo Stato come feudo






È più che presumibile che vi siano fasi storiche nelle quali a una forte evoluzione degli strumenti tecnici  - questo o quello, nessuno escluso - corrisponde una “regressione” rispetto alla cosiddetta “civiltà”. E naturalmente né si tratta di una esclusiva dei periodi che hanno preluso ai conflitti mondiali né è che una crisi assomiglia molto all'altra.
A tale proposito è significativa la corrispondenza tra l'imporsi della comunicazione digitale (per semplificare un po': l'uso popolare di Internet, la vitalità dell'accesso) e certa crisi dello Stato-nazione; fra l'ingresso nella cosiddetta èra atomica e la trasformazione del rapporto pace-guerra. 
La regressione è come quando si stia per completare un puzzle di grandi dimensioni e grande impegno e intervenga un colpo di vento, più o meno inatteso, a far saltare tutto. Ma forse non è proprio così, se ci si pone sul terreno della necessità storica. 
Forse che la grande tecnologia, e meglio dicasi la tecnica, giunta a un suo specifico punto di evoluzione che potremmo definire "popolare", rimette in gioco il selvaggio, e meglio aspetti della condotta umana che si presumeva di avere definitivamente superati e meglio sarebbe dire rimossi? Il che indurrebbe la sensazione di una implosione o di un precipizio? 
Freud parlava di “regressione”, giustamente ascrivendo alla cosiddetta "civiltà" livelli forti di rimozione e deviazione degli istinti, i quali però prima o poi avrebbero sempre potuto presentare il conto. E Nietzsche a modo suo aveva già espresso il concetto. 
In tempi di regressione dunque l'indiscussa civiltà viene rimessa in discussione e la sostanza e le certezze vacillano, in barba alle presunzioni di solidità e a tacite rassicuranti presunzioni. È un po' come il vulcano dormiente, che periodicamente ha un suo risveglio e semina distruzione in villaggi e/o città.  
Ma si potrebbe notare come sia la storia della tecnica una volta a riconoscere il predominio del progresso, altra volta a volere la “barbarie”, o a renderne possibile comunque, per ragioni strutturali o di economia, la compresenza. E si potrebbe rafforzare questa impressione considerando con sensibilità heideggeriana come col trascorrere del tempo storico ciò che accade in relazione con l'evoluzione tecnologica altro non sia che disvelamento della essenza di una cosa misteriosa che si chiama tecnica. 

sabato 18 gennaio 2014

Teorìa e prassi del bipolarismo




Che senso ha parlare di bipolarismo e non - mettiamo - di «tripolarismo», o di «pluripolarismo»? Con quanta serietà lo si può fare, in presenza di tre e più polarità politiche, segnatamente in presenza di formazioni e associazioni volte non già all'esser corte ma decisamente al dialogo con i cittadini, ciò appunto che una struttura e filosofia bipolare verrebbe a escludere? 
Magia forse del numero Due (le bisacce di Zeus, il Bene e il Male, il principio maschile e quello femminile) che conduce alla idea dei due fattori generativi? Beh!: la pretesa sembra eccessiva e in questo anche un po' rivelatrice. 
Forse che il bipolarismo altro non è che una pretesa semplificazione, o una messinscena, o un mascheramento, un insieme di occultamenti, che gioca su una psicologia per così dire «sportiva» e di basso profilo, tipo: Coppi contro Bartali, Inter contro Milan, ecc., per dire «o sì o no»? Ovvero tutto sarebbe così spacciato per riducibile al momento di una filosofica de-cisione? E qui è anche accaduto che qualche politologo abbia ritenuto non senza ragione di usare il termine «duopolio», traendolo - e sappiamo che non è pura metafora - dalla economia: una concorrenza e una dialettica simulate. 
Immaginiamo per un attimo una società affollata da asini e petulanti in una realtà complessa: tale e tanta sarebbe in essa la manifestazione di opinioni, sfoghi, rivendicazioni di diritti di uomini, donne e bambini, animali e cose che non per questo tutto sarebbe riducibile a chiasso. Non per questo, anche le condizioni lo consentono, le soluzioni politiche finali dovrebbero essere anteposte ai problemi nei termini del «questo, non quello», senza la possibilità di terze vie e quanto meno di una fase istruttoria. Ciò sarebbe un forzare le scelte facendo della realtà un ritaglio rispetto all'ego; trovandosi moralmente nella condizione di avere sempre già deciso, anteponendo la troppa necessità alla necessaria libertà. Equivarrebbe a semplificare le questioni confidando nel poter reprimere la complessità, magari confondendo tra questioni reali e questioni fittizie o false; andando così un po’ alla deriva alla fine i governanti unitamente ai governati

martedì 7 gennaio 2014

I volti della storia (uno e più Robespierre)





Robespierre, il volto della rivoluzione: la ricostruzione in 3D
L'immagine in 3D del volto di Robespierre resa da Visualforensic


Il volto di Robespierre, l'Incorruttibilein articulo mortis, profondamente segnato dal vaiolo - e anche da una malattia immunitaria rara quale la sarcoidosi, secondo una diagnosi postuma di Ph. Charlier e Ph. Froesch -, reso in 3D: ecco una rivelazione, qualcosa di suggestivo, un modo interessante, fra il ricostruttivo e l'appropriativo, cui non siamo abituati, di documentare la storia; un po’ staccandosi dal nome nominato, un po’ indugiando sulla persona. Comunque - e qui la tecnica è l'essenziale - manipolando, per accostarsi alla verità. 
Un Robespierre quasi «fotografato», non già immaginato mentalmente sulla base di letture, o ritratto in un’opera di pittura - e/o stancamente sublimato. Una ricostruzione comunque utile, anche a voler confermare certe risultanze sulle cattive condizioni di salute del leader giacobino: problemi alla vista, frequente emissione di sangue dal naso, astenia, ulcere alle gambe e lesioni della pelle del volto, cicatrici del vaiolo contratto in età giovanile; sino a giungere retrospettivamente a parlare di sarcoidosi diffusa, con «compromissione degli occhi, delle alte vie respiratorie, del fegato e del pancreas». 
E tanto è vero che Maximilien aveva contratto il vaiolo da ragazzo quanto che la stessa cosa era accaduta a Danton - stando almeno alla biografia scritta da Robinet -, quanto che i giacobini avevano fatto della vaccinazione antivaiolosa una loro bandiera. 
Abbiamo così due Robespierre: uno con i piedi a terra, con il suo viso, il suo corpo, il suo stato di salute e uno rivoluzionario che è quello ideale, sostanzialmente nominato senza saperne più di tanto, ovvero congeniale a certi libri di storia vecchia maniera. 

lunedì 6 gennaio 2014

La cultura della "preunità" (la forma-Stato)




Sarà perché nessuno me lo ha mai insegnato a scuola, sarà più semplicemente perché - Freud o non Freud - l’idea di rimozione si è mossa sempre con una certa quale levità nella coscienza comune o è stata assimilata distrattamente; ma la legge per cui ogni cultura vincente e dominante ha bisogno per sostenersi e perpetuarsi di una forte componente rimozionale e più propriamente repressiva non è mai stata veramente apprezzata nei meccanismi della interpretazione, non solo politologica. 
Come se non bastasse, i primi testi extrascolastici o divulgativi di storiografia risorgimentale (Croce, Salvatorelli, ecc.) - perché questo è il mio tema ancora una volta - miravano più a incoraggiare che a chiarire, alimentando sì la fiamma della cultura nazionale ma anche il facile idealismo, nel quale peraltro credo Croce non rimase perfettamente intrappolato. 
E certo nemmeno l’idea pur importante di nazione illustrata a suo tempo da Federico Chabod sembra poter essere oggi di aiuto, per capire, anzi. Tanto che essa risorge nell’animo come un’aspirazione indotta, di fronte alla nuova egemonia europeista; che ricorda lontanamente Carlo Magno giù giù sino a quella che a suo tempo fu sentita come la morsa dell’Impero Austro-Ungarico e che a sua volta è sostanzialmente conseguente, o forse omogenea, ad altri aspetti fallimentari di politica nazionale.
Ora si sa che l’immagine dei Mille di Garibaldi come il pareggio di bilancio dei primi anni del nuovo Regno d'Italia, come altre storie e storielle, prima fra tutte quella sabaudista di un Sud agricolo e retrogrado a fronte di un Nord industrializzato e moderno, che si sono trascinate stancamente nella narrazione, sono mitologia. E ciò che in generale ci accade è che la scontentezza per l’oggi e l’ansia per il tempo che scorre ci sospingono indietro verso il passato, ora rendendoci prede di una regressione per dire imbarbarimento nei costumi, ora inducendoci a disseppellire e condurre alla luce, prima ancora che ad accettare, l’immagine che del passato ci era stata fornita, nella nostra più tenera età che è quella dell’infanzia, della pubertà e della formazione che conta, al di qua della retorica della formazione.