lunedì 27 gennaio 2014

La simpatia di Hobbes, ovvero lo Stato come feudo






È più che presumibile che vi siano fasi storiche nelle quali a una forte evoluzione degli strumenti tecnici  - questo o quello, nessuno escluso - corrisponde una “regressione” rispetto alla cosiddetta “civiltà”. E naturalmente né si tratta di una esclusiva dei periodi che hanno preluso ai conflitti mondiali né è che una crisi assomiglia molto all'altra.
A tale proposito è significativa la corrispondenza tra l'imporsi della comunicazione digitale (per semplificare un po': l'uso popolare di Internet, la vitalità dell'accesso) e certa crisi dello Stato-nazione; fra l'ingresso nella cosiddetta èra atomica e la trasformazione del rapporto pace-guerra. 
La regressione è come quando si stia per completare un puzzle di grandi dimensioni e grande impegno e intervenga un colpo di vento, più o meno inatteso, a far saltare tutto. Ma forse non è proprio così, se ci si pone sul terreno della necessità storica. 
Forse che la grande tecnologia, e meglio dicasi la tecnica, giunta a un suo specifico punto di evoluzione che potremmo definire "popolare", rimette in gioco il selvaggio, e meglio aspetti della condotta umana che si presumeva di avere definitivamente superati e meglio sarebbe dire rimossi? Il che indurrebbe la sensazione di una implosione o di un precipizio? 
Freud parlava di “regressione”, giustamente ascrivendo alla cosiddetta "civiltà" livelli forti di rimozione e deviazione degli istinti, i quali però prima o poi avrebbero sempre potuto presentare il conto. E Nietzsche a modo suo aveva già espresso il concetto. 
In tempi di regressione dunque l'indiscussa civiltà viene rimessa in discussione e la sostanza e le certezze vacillano, in barba alle presunzioni di solidità e a tacite rassicuranti presunzioni. È un po' come il vulcano dormiente, che periodicamente ha un suo risveglio e semina distruzione in villaggi e/o città.  
Ma si potrebbe notare come sia la storia della tecnica una volta a riconoscere il predominio del progresso, altra volta a volere la “barbarie”, o a renderne possibile comunque, per ragioni strutturali o di economia, la compresenza. E si potrebbe rafforzare questa impressione considerando con sensibilità heideggeriana come col trascorrere del tempo storico ciò che accade in relazione con l'evoluzione tecnologica altro non sia che disvelamento della essenza di una cosa misteriosa che si chiama tecnica. 

sabato 18 gennaio 2014

Teorìa e prassi del bipolarismo




Che senso ha parlare di bipolarismo e non - mettiamo - di «tripolarismo», o di «pluripolarismo»? Con quanta serietà lo si può fare, in presenza di tre e più polarità politiche, segnatamente in presenza di formazioni e associazioni volte non già all'esser corte ma decisamente al dialogo con i cittadini, ciò appunto che una struttura e filosofia bipolare verrebbe a escludere? 
Magia forse del numero Due (le bisacce di Zeus, il Bene e il Male, il principio maschile e quello femminile) che conduce alla idea dei due fattori generativi? Beh!: la pretesa sembra eccessiva e in questo anche un po' rivelatrice. 
Forse che il bipolarismo altro non è che una pretesa semplificazione, o una messinscena, o un mascheramento, un insieme di occultamenti, che gioca su una psicologia per così dire «sportiva» e di basso profilo, tipo: Coppi contro Bartali, Inter contro Milan, ecc., per dire «o sì o no»? Ovvero tutto sarebbe così spacciato per riducibile al momento di una filosofica de-cisione? E qui è anche accaduto che qualche politologo abbia ritenuto non senza ragione di usare il termine «duopolio», traendolo - e sappiamo che non è pura metafora - dalla economia: una concorrenza e una dialettica simulate. 
Immaginiamo per un attimo una società affollata da asini e petulanti in una realtà complessa: tale e tanta sarebbe in essa la manifestazione di opinioni, sfoghi, rivendicazioni di diritti di uomini, donne e bambini, animali e cose che non per questo tutto sarebbe riducibile a chiasso. Non per questo, anche le condizioni lo consentono, le soluzioni politiche finali dovrebbero essere anteposte ai problemi nei termini del «questo, non quello», senza la possibilità di terze vie e quanto meno di una fase istruttoria. Ciò sarebbe un forzare le scelte facendo della realtà un ritaglio rispetto all'ego; trovandosi moralmente nella condizione di avere sempre già deciso, anteponendo la troppa necessità alla necessaria libertà. Equivarrebbe a semplificare le questioni confidando nel poter reprimere la complessità, magari confondendo tra questioni reali e questioni fittizie o false; andando così un po’ alla deriva alla fine i governanti unitamente ai governati

martedì 7 gennaio 2014

I volti della storia (uno e più Robespierre)





Robespierre, il volto della rivoluzione: la ricostruzione in 3D
L'immagine in 3D del volto di Robespierre resa da Visualforensic


Il volto di Robespierre, l'Incorruttibilein articulo mortis, profondamente segnato dal vaiolo - e anche da una malattia immunitaria rara quale la sarcoidosi, secondo una diagnosi postuma di Ph. Charlier e Ph. Froesch -, reso in 3D: ecco una rivelazione, qualcosa di suggestivo, un modo interessante, fra il ricostruttivo e l'appropriativo, cui non siamo abituati, di documentare la storia; un po’ staccandosi dal nome nominato, un po’ indugiando sulla persona. Comunque - e qui la tecnica è l'essenziale - manipolando, per accostarsi alla verità. 
Un Robespierre quasi «fotografato», non già immaginato mentalmente sulla base di letture, o ritratto in un’opera di pittura - e/o stancamente sublimato. Una ricostruzione comunque utile, anche a voler confermare certe risultanze sulle cattive condizioni di salute del leader giacobino: problemi alla vista, frequente emissione di sangue dal naso, astenia, ulcere alle gambe e lesioni della pelle del volto, cicatrici del vaiolo contratto in età giovanile; sino a giungere retrospettivamente a parlare di sarcoidosi diffusa, con «compromissione degli occhi, delle alte vie respiratorie, del fegato e del pancreas». 
E tanto è vero che Maximilien aveva contratto il vaiolo da ragazzo quanto che la stessa cosa era accaduta a Danton - stando almeno alla biografia scritta da Robinet -, quanto che i giacobini avevano fatto della vaccinazione antivaiolosa una loro bandiera. 
Abbiamo così due Robespierre: uno con i piedi a terra, con il suo viso, il suo corpo, il suo stato di salute e uno rivoluzionario che è quello ideale, sostanzialmente nominato senza saperne più di tanto, ovvero congeniale a certi libri di storia vecchia maniera. 

lunedì 6 gennaio 2014

La cultura della "preunità" (la forma-Stato)




Sarà perché nessuno me lo ha mai insegnato a scuola, sarà più semplicemente perché - Freud o non Freud - l’idea di rimozione si è mossa sempre con una certa quale levità nella coscienza comune o è stata assimilata distrattamente; ma la legge per cui ogni cultura vincente e dominante ha bisogno per sostenersi e perpetuarsi di una forte componente rimozionale e più propriamente repressiva non è mai stata veramente apprezzata nei meccanismi della interpretazione, non solo politologica. 
Come se non bastasse, i primi testi extrascolastici o divulgativi di storiografia risorgimentale (Croce, Salvatorelli, ecc.) - perché questo è il mio tema ancora una volta - miravano più a incoraggiare che a chiarire, alimentando sì la fiamma della cultura nazionale ma anche il facile idealismo, nel quale peraltro credo Croce non rimase perfettamente intrappolato. 
E certo nemmeno l’idea pur importante di nazione illustrata a suo tempo da Federico Chabod sembra poter essere oggi di aiuto, per capire, anzi. Tanto che essa risorge nell’animo come un’aspirazione indotta, di fronte alla nuova egemonia europeista; che ricorda lontanamente Carlo Magno giù giù sino a quella che a suo tempo fu sentita come la morsa dell’Impero Austro-Ungarico e che a sua volta è sostanzialmente conseguente, o forse omogenea, ad altri aspetti fallimentari di politica nazionale.
Ora si sa che l’immagine dei Mille di Garibaldi come il pareggio di bilancio dei primi anni del nuovo Regno d'Italia, come altre storie e storielle, prima fra tutte quella sabaudista di un Sud agricolo e retrogrado a fronte di un Nord industrializzato e moderno, che si sono trascinate stancamente nella narrazione, sono mitologia. E ciò che in generale ci accade è che la scontentezza per l’oggi e l’ansia per il tempo che scorre ci sospingono indietro verso il passato, ora rendendoci prede di una regressione per dire imbarbarimento nei costumi, ora inducendoci a disseppellire e condurre alla luce, prima ancora che ad accettare, l’immagine che del passato ci era stata fornita, nella nostra più tenera età che è quella dell’infanzia, della pubertà e della formazione che conta, al di qua della retorica della formazione.