mercoledì 19 marzo 2014

La "shock-economy" (ma ... in che mondo siamo?)





Dunque secondo certa teoria (mi ricollego a un articolo di Riccardo Tomassetti, apparso in “Attualità politica” verso la fine di gennaio di quest’anno) noi attualmente vivremmo in uno stato o stadio di shock-economy: approfittare dello stato di shock vissuto dai popoli a causa di una crisi economica (procurata, indotta, tanto e più di quanto avvenuta più o meno spontaneamente) o a causa di un grande incredibile lutto o di una paura "cosmica" (penso subito all'11 settembre), 
creando scenari di manifestazioni di massa; o di flussi migratori di grande intensità; per introdurre soluzioni economiche che spostino potere di dominio e grandi ricchezze; che estendano le fasce di povertà e/o magari che tolgano sovranità agli stati nazionali. 
Produrre un generale progressivo senso difensivo e d'impotenza, o d'insicurezza paura e stress, per rendere accettabile alla fine qualsiasi azione, qualsiasi decisione politica. 
E quali azioni? Per esempio uccisione vile quanto "gloriosa" agli occhi dei più di un capo di Stato, trasformato in mostro, depauperamento attraverso le imposizioni fiscali di popoli (politica alla fine ipocrita del sacrificio o dell'austerità), utilizzando le risorse derivanti da quelle tasse per trasferire ricchezza; privatizzando il pubblico in generale; togliendo ai ceti medi e/o ai poveri per dare alle banche, deregolamentando il mercato del lavoro, ecc. 
Ecco dunque profilato con chiarezza un nuovo tentato e non solo totalitarismo, una nuova tirannide o quanto meno una sua realissima riconfigurazione. E al fondo l’idea è che la crisi non necessariamente debba essere "causata" né ben percepita; e che comunque sia si venga a parlare pubblicamente di altro, poiché gli argomenti non mancano mai e perché una qualsiasi repubblica può essere per lo più parlata e detta. 

martedì 18 marzo 2014

Che cosa non è più diritto "positivo"



Nella interpretazione resa da certa scuola di pensiero, il diritto positivo non sarebbe più il diritto positivo che sapevamo, poiché nel suo corpo sono penetrati elementi della morale e del diritto "giusto" cosiddetto; ma non solo nel suo corpo - debbo presumere - e invece anche nello spirito, che vi si traspone. 
Codeste penetrazioni, che hanno messo in second’ordine il modo tradizionale d'intendere la distinzione fra diritto e morale, si sarebbero avute a causa delle moderne costituzioni e convenzioni e dichiarazioni nazionali e internazionali dei diritti. I quali fenomeni dunque non si possono leggere come un “di più” per dire cibo per moralisti o sognatori o idealisti; ma come evoluzione necessaria del diritto, in senso oggettivo e come cultura. 
E si tratta in certo modo di un paradosso, se si considera come a un bisogno crescente di fissare regole generalmente valide e principi - a loro volta universalmente oltre che generalmente validi - e cioè a un bisogno di sempre nuovo diritto positivo (tempo addietro mi era capitato di parlare di “diritto positivo alla ribalta”, a voler illustrare detto bisogno), abbia fatto riscontro una crisi della concezione giuspositivistica del diritto. 
H. van Groot (1583-1645)
Dunque per regolare rapporti socio-economici vieppiù complessi non ci si poteva più giustificare con la mera contrapposizione “diritto naturale-diritto positivo”, pur consolidatasi nella dottrina eccellente (si pensi al celebre saggio di Norberto Bobbio), utilissima sì ma molto alla fin fine ai tiranni e tirannie di classi, e bisognava introdurre nel ius positum elementi del cosiddetto ius naturae (penso ai meriti dei Grozio, dei Gentili, degli Altusio, dei Pufendorf via via a salire fino a Kant - e direi anche a certa scuola cattolica del diritto della Francia di fine ottocento, dalla quale sarebbe nato il diritto internazionale quale disciplina), spesso in dipendenza del fatto che la normazione proveniva da una domanda di giustizia. Che tanto era morale quanto si sarebbe rivelata razionale

lunedì 17 marzo 2014

I troppi uomini "della Provvidenza"...



Benito Mussolini, il duce del fascismo, già anarco-sindacalista, già socialista, già uomo della irriverente prometeica “prova dell’orologio” (grosso modo: "Dio, se esisti, ti chiedo di fulminarmi entro cinque minuti!" - e al sesto il pubblico contadino d'occasione s'impressionava), nella sua ascesa al potere fu salutato dalla Chiesa Romana come “uomo della Provvidenza”. 
File:Mussolini mezzobusto.jpg
Qualcosa di analogo è avvenuto “mutatis mutandis” circa settant’anni dopo con Silvio Berlusconi. E il popolo italico, si sa, come sgradisce i fatti in quanto tali e ne ama invece la rappresentazione, così attende spesso il blessing della Chiesa, per sentirsi giustificato per ciò che fa o sente. 
Vi sono in altre parole periodi storici critici, burrascosi e di forte disagio-possibile trasformazione sociale nei quali alla sensibilità comune l’orizzonte appare buio, o la situazione economico-politico-esistenziale confusa e di difficoltà crescente, o come sospesa sul vuoto (nel primo caso gli effetti della prima guerra mondiale, nel secondo quelli di “mani pulite”). Ovvero anche: vi sono momenti nei quali i poveri ma non solo hanno paura di diventare più poveri, i piccolo-borghesi vivono l'incubo della retrocessione socio-economica, i ricchi temono di perdere potestà politica e soldi, gli aspiranti ricchi le loro chances di successo e tutti - pur l'uno contro l'altro - hanno bisogno di maggiori - non limpide - 'certezze' per il futuro. Ed è allora che si cerca, in mancanza di puri e casti - l’uomo forte, o comunque un po' superumano, che sia duca: garantisca per tutti e infonda sicurezza. 
File:Silvio Berlusconi (2010).jpgEgli può essere un principe, magari che cavalca un bianco destriero - il che sazia davvero la fantasia infantile -; ma no!, non può esserlo, e può essere invece un homo novus politicamente parlando, al quale perché nuovo e un po' "qualunque" è quasi istintivo ascrivere poteri taumaturgici e quasi più che naturali. Così uomo nuovo sarebbe potuto essere un dictator all’epoca della repubblica romana antica, piuttosto che un infante nell’epoca delle moderne monarchie assolute, chiamato a risollevare le sorti di una "nazione" in declino. Un uomo della Provvidenza, dunque, come uomo nel quale riporre ogni speranza, cui rimettersi sino rinunciando a certe libertà. E a questi profili avrei potuto aggiungere immediatamente Hitler, per non dire Stalin e altri "capi" politici per lo più funesti, se non fosse stato per una mia deliberata volontà di ... moderazione. Ma tant'è e credo che l'uomo nuovo sia accostabile molto al tiranno greco antico, equidistante dalle aristocrazie quanto dalle democrazie; una figura forse fortunata, in contesti supermoderni (!) di società di massa e di crisi dei partiti. 

Una rivoluzione possibile? (ma parlamentare, necessariamente)




Di questi tempi la sensazione è che si stia andando verso una (o si versi già in un clima di) impasse istituzionale, e l'opposto se vogliamo dell'armonia, a causa dei troppi interessi torbidi che i vari governi si sono impegnati e s'impegnano a tutelare; a causa sostanzialmente della corruzione che soccorre in un modo determinante le forze della conservazione e del privilegio, le quali sempre rivelano di essere più estese e di avere più radici di quanto si pensi. E certo la medicina della revisione costituzionale, addirittura con il ventilato attacco all’articolo 138 (“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”, laddove sottolineerei anche quel "ciascuna Camera"), è di quelle di cui nella più rosea delle ipotesi non si conoscono ma si possono temere gli effetti collaterali. 

domenica 16 marzo 2014

Quale la condizione reale, a causa di quale Risorgimento?




Il Risorgimento italiano, per quanto affermò Antonio Gramsci, è stato una rivoluzione mancata; esso cioè non è stato l'occasione per una rivoluzione borghese, perché troppa rimase politicamente, al di là dei livelli d'industrializzazione, la distanza fa borghesia e classi contadine - esattamente il contrario di quanto era avvenuto in Francia, nella sequenza "grande illuminismo-rivoluzione" -; e dunque in questo senso, posso aggiungere, il nostro non fu un vero Risorgimento nazionale, o giù di lì. 
È un esempio di storiografia politica, che vale a spiegare il presente in base al passato, il quale a sua volta va sempre indagato e meglio conosciuto. E comunque sia, prima di rifiutare una qualsiasi tesi, non bisognerebbe perdere di vista la storia, che ha sempre da dire. 
Riforme nel periodo delle monarchie cosiddette "illuminate" di metà settecento ne furono attuate; innovazioni sempre di natura amministrativa (ché la prima questione per uno Stato e la sua prima forma d'identità è la sua amministrazione) furono introdotte da quell'esportatore di cultura borghese che fu per suo destino Napoleone; ma il nostro Risorgimento fu monarchico, piemontese, incoraggiato per dire finanziato e aiutato da potenze straniere, truccato con ogni mezzo (dalla studiata antropologia dei Mille alle "bustarelle" ai generali borbonici, al metodo degli eccidi), sostanzialmente antipopolare e ancor prima assai poco borghese. In altre parole, anche: se in Italia vi furono e vi sono idee innovative borghesi, o liberali, esse erano e sono votate a operare lontano dal popolo e, quel ch'è peggio, lontane non solo dal popolo.