La
morale è interiorità, il diritto esteriorità. Attorno a questa chiara distinzione - ma guai a farne una questione di gerarchia (!) - ruota, più di quanto forse non risulti subito evidente, l’intero
costrutto della filosofia politica kantiana - e non solo kantiana.
Forse
che Kant si sia limitato a enunciare principi insiti nelle opere dei pensatori che lo
avevano preceduto, pur distanti da lui nella opinione corrente in quanto a
sensibilità intellettuale (ad esempio Machiavelli)? O forse che in ciò egli
abbia anticipato motivi di fondo presenti poi, in modo più manifesto, nei
filosofi che sarebbero venuti dopo di lui (ad esempio subito Hegel, più forse con l'idea dello Stato bene organizzato che con il concetto di “eticità”: Sittlikheit, esposto nei Grundlinien)? Certo è che le sue posizioni risultano perfettamente allineabili con l'illuminismo.
Comunque
sia, ciò è quanto si può ritenere qualora si ammetta che “morale” è tanto
sinonimo di “perfezione” (l'assoluto individuale) quanto oggetto di attenzioni scientifiche, anche in relazione ai suoi possibili risvolti negativi. Ed è qui che si ha il senso di una crescita civile, legata al governo delle leggi.
Prendiamo
in considerazione, per spiegarci, l’immagine dello Stato di angeli, alla
quale si fa cenno nello scritto del nostro Autore sulla Pace perpetua.
La
forma repubblicana (“la sola che si adatti perfettamente al diritto degli
uomini, ma anche la più difficile a costituirsi e anche più a conservarsi”),
secondo il filosofo tedesco, è la migliore organizzazione per lo Stato