Sarà perché nessuno me lo ha mai insegnato a scuola, sarà
più semplicemente perché - Freud o non Freud - l’idea di rimozione si è mossa sempre con una certa quale levità nella
coscienza comune o è stata assimilata distrattamente; ma la legge per cui ogni cultura
vincente e dominante ha bisogno per sostenersi e perpetuarsi di una forte componente rimozionale e più propriamente repressiva non è mai stata veramente
apprezzata nei meccanismi della interpretazione, non solo politologica.
Come se non bastasse, i primi testi extrascolastici o
divulgativi di storiografia risorgimentale (Croce, Salvatorelli, ecc.) - perché
questo è il mio tema ancora una volta - miravano più a incoraggiare che a
chiarire, alimentando sì la fiamma della cultura nazionale ma anche il facile idealismo,
nel quale peraltro credo Croce non rimase perfettamente intrappolato.
E certo nemmeno l’idea pur importante di nazione illustrata a suo tempo da
Federico Chabod sembra poter essere oggi di aiuto, per capire, anzi. Tanto che essa risorge
nell’animo come un’aspirazione indotta, di fronte alla nuova egemonia
europeista; che ricorda lontanamente Carlo Magno giù giù sino a quella che a
suo tempo fu sentita come la morsa dell’Impero Austro-Ungarico e che a sua
volta è sostanzialmente conseguente, o forse omogenea, ad altri aspetti
fallimentari di politica nazionale.
Ora si sa che l’immagine dei Mille di Garibaldi come il
pareggio di bilancio dei primi anni del nuovo Regno d'Italia, come altre storie e
storielle, prima fra tutte quella sabaudista di un Sud agricolo e retrogrado a
fronte di un Nord industrializzato e moderno, che si sono trascinate
stancamente nella narrazione, sono mitologia. E ciò che in generale ci
accade è che la scontentezza per l’oggi e l’ansia per il tempo che scorre ci sospingono
indietro verso il passato, ora rendendoci prede di una regressione per dire
imbarbarimento nei costumi, ora inducendoci a disseppellire e condurre alla
luce, prima ancora che ad accettare, l’immagine che del passato ci era stata
fornita, nella nostra più tenera età che è quella dell’infanzia, della pubertà
e della formazione che conta, al di qua della retorica della formazione.