papa Paolo VI |
Sostenendo
innanzi tutto, a proposito del problema del bene e del male (e di qui è il caso di domandarsi perché per la
Chiesa Romana ma appunto mondiale l’economia sia importante, proprio al di là del fatto che lo sia per tutti), che “all’elenco
dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato (e … se non
è il peccato originale allora il concetto è chiaro), si è aggiunto ormai da
molto tempo quello dell’economia” (ivi, n. 34); o affermando che la
legge della produzione per la produzione, ovvero del profitto fine a sé stesso,
noncurante verso chi ne venga a soffrire - sino all’inedia, sino alla morte o
sino all’omicidio -, danneggia la ricchezza stessa, intesa come “bene comune” o
grandezza globale. Che cioè per il medesimo principio l’eccessiva produzione di
ricchezza a vantaggio di taluni così induce fenomeni di spreco ed elide la
ricchezza stessa, come causa nuova povertà e accresce il divario fra ricchi e
poveri; ma provocando per la nostra sensibilità attuale danni a livello
mondiale, al di là del concetto stesso di classe sociale; non potendo più per
una nuova coscienza il giudizio essere contenuto entro confini predefiniti per
essere divenuta la Terra nella sua totalità e la sua condizione generale come
risultato, strumento valutativo della natura delle cose. Che dunque qualsiasi trend
di sviluppo e qualsiasi scelta politica in economia - e di qui l’esortazione ai
politici e l’auspicio di un’autorità mondiale che se ne occupi - incide
necessariamente sulla morale, che non è più la semplice morale separata, e la
cosa ha assunto una drammaticità tale per cui è imperativo ora civilizzare
l’economia dando un’etica ad essa e leggendola molto in chiave di rapporti di
lavoro.