«Se
fossi chiamato a decidere, se il popolo preferisse essere escluso dal
dipartimento legislativo o giudiziario, direi che sarebbe meglio escluderlo dal
legislativo. L’applicazione delle leggi è più importante del crearle». Verità sottile e certamente
politica, almeno dal punto di vista di chi, come me, crede che Dio solo faccia le vere leggi.
Thomas
Jefferson annotava questo pensiero - e direi di andare oltre la pur
significativa idea della giuria popolare - sulla base della fiducia quasi cieca
che egli nutriva in due principi di ordine politico e istituzionale: (a) la divisione del potere, per competenza («[…] il modo di avere un buon
governo non sta nell’affidarlo a uno solo, ma nel dividerlo tra i molti,
distribuendo a ognuno esattamente le funzioni ch’è più adatto a ricoprire»),
spinta sino alla «amministrazione della propria fattoria» (posta dunque in
chiave di capillare distribuzione social-territoriale) e (b) la partecipazione popolare,
diffusa quanto più possibile, alla conduzione del governo («L’influenza sul
governo deve essere divisa fra tutto il popolo»; «E ditemi […] se la pace sia
meglio tutelata dando energia e forza al governo o notizie e istruzioni al
popolo. Quest’ultima è la più sicura e più legittima macchina del governo»),
ovvero l’assegnazione al popolo, quale organo, del miglior ruolo costituzionale
possibile. Sino appunto a scivolare nel paradosso.
Le
parole del celebre e controverso statista americano, essenzialmente quel «L’applicazione
delle leggi è più importante del crearle», sono in linea con l’ideologia
giuridica dei paesi di Common Law, incline a preferire - non però in un
modo assoluto, non cioè tralasciando il valore del cosiddetto Statute Law - il giudice al legislatore;
ma in questo dato per così dire pacifico io credo di poter leggere anche una nota
in qualche modo sorprendente.