Il conflitto di attribuzioni fra i poteri
dello Stato - ad esempio fra esecutivo e giudiziario, fra legislativo e
giudiziario, fra lo Stato e certe sue riconosciute, volute articolazioni
territoriali che però ambiscano a una certa quale autonomia legislativa - forse
è un modo elegante, colto, per esprimere qualcosa che appartiene alla natura
dell’uomo: è una realtà ineludibile, che fa parte non solo dell’ordine
giuridico - e per meglio dire giuridico-costituzionale - evoluto ma anche
dell’ordine sociale naturale delle cose. Che in qualche modo le tiene
legate, in un modo anche - bisogna riconoscerlo - non tranquillizzante.
È la
storia che lo dice, e più precisamente la storia costituzionale, la quale lo è realiter
dei rapporti di forza fra poteri, o stati, o territori, o classi: il re unitamente
al suo Consiglio contro il Senato, i parlamenti o le assemblee legislative rivoluzionarie contro i re, per dire però
anche, in un modo più oggettivo e guardando alla economia e al sociale, i
borghesi contro i nobili, o contro il clero; il clero povero contro quello
ricco; il proletariato contro la borghesia. Ed è in generale nel contesto di
tali conflitti, per quanto provato da quel compendio storico che è la storia
della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica ma non solo, che le
costituzioni s’impongono, quali patti
(e comunque condizioni scritte, dettate) intervenuti tra quelle forze o poteri
(se vi sono stati patti, allora sempre potranno esservi conflitti). O quali
strumenti adoperati da alcuni contro gli altri.