giovedì 28 febbraio 2013

Costituzionalismo scettico




La democrazia, e con essa il costituzionalismo democratico, si basa sul relativismo filosofico
È questa, a mio parere, l’indicazione di fondo, ritengo non paradossale, fornita da J.J. Moreso ne La giustificazione kelseniana del “Judicial Review” (Napoli, 2012); un contributo stimolante, nel quale si rende del costituzionalismo del famoso giurista una immagine tale per cui i pro rischiano di essere messi in ombra - ma per chi non ha troppa finesse - dai contra
Che, per ammissione del suo autore, la dottrina pura di Kelsen abbia, nei suoi due principi: della clausola alternativa e della definitività, come riferimento il relativismo filosofico, significa in breve che essa è mossa da un principio di effettività. Ciò che la “purezza” è chiamata a tutelare non è sic et simpliciter la validità della norma giuridica ma la sua validità sino al giudizio in senso contrario (per bocca di una corte suprema) come conferma - in quanto all'effetto - della sua validità. Quasi insomma una idea di validità trascendentale ma per certi motivi. Ciò per cui nell’ordinamento giuridico non si darebbero norme nulle ma solo norme annullabili. Dove però l’annullabilità non supera la validità e la validità presunta non deve far sparire la annullabilità. 
Hans Kelsen
Il relativismo filosofico (ma direi anche: giuridico, politico, ecc.) è quasi nel suo succedere sofferto all’assolutismo che esigerebbe un principio di purezza, il quale non può però ignorare sempre una qualche effettività (è da essa effettività che discende - credo - la definitività). Sotto questa luce, che è uno spostare il giuridico e la sua entità sul piano della forma, ogni ordinamento sarebbe formalmente perfetto sino a che non vi sia annullamento della norma; ma tutto lo sarà comunque intanto perfetto perché previsto dalla legge.
La validità così trascolora (o che cosa?) in effettività, il che significa anche che bisogna vigilare su sempre possibili identificazioni. E a questo punto il problema non è tanto che il relativismo filosofico nei suoi interpreti non si occupi di democrazia ma che comunque al fondo della Reine Recthslehre sembra scorrere un fiume scettico, forse anche oscuro, che bisognerebbe come quantificare.
Ora in tutto questo io insisterei su un punto: dove non vi è assolutismo, lì vi è relativismo; insisterei cioè, al di là delle ragionevoli adesioni, sulla difficoltà di questo passaggio; nei termini per cui tale è il formalismo kelseniano per cui il diritto naturale in certo senso viene tenuto fuori, troppo e quasi chirurgicamente, dal diritto positivo. E accosterei tutto ciò alla questione stessa della democrazia, per quanto essa si presenti come costituzionalismo democratico.
Che cosa significa relativismo filosofico, almeno nella esposizione che ne fa il prof. Moreso? Secondo una prima spiegazione, incline allo scetticismo, esso per il suo contrapporsi all’assolutismo filosofico “si basa su una netta separazione fra la realtà e i valori e distingue fra proposizioni sulla realtà e genuini giudizi di valore i quali, in ultima analisi, non sono basati su una cognizione razionale della realtà bensì su fattori emozionali della coscienza umana, sui desideri dell’uomo e sulle sue paure. Poiché essi non si riferiscono a valori immanenti in una realtà assoluta, non possono fondare valori assoluti ma soltanto relativi” (ivi, testo cit., alla pag. 16).
Secondo una seconda spiegazione, d’indole piuttosto kantiana, il relativismo va inteso come prudenza epistemica. Esso “propugna la dottrina empiristica per cui la realtà esiste unicamente all’interno della cognizione umana”, nel senso che “in quanto oggetto della percezione, la realtà è relativa al soggetto conoscente”; essendo che “l’assoluto, la cosa in sé, è al di là dell’esperienza umana; è inaccessibile alla conoscenza umana e, pertanto, inconoscibile” (ivi). Dunque si tratta di guardare al relativo-soggettivo o come paura e frustrazione o come voluta cosciente costruzione.
La certezza è comunque negativa, stando a queste proposizioni: non si ha più assolutismo filosofico , ovvero “concezione metafisica secondo la quale vi è una realtà assoluta, ossia una realtà che esiste indipendentemente dalla cognizione umana” (ivi; ma abbiamo qualcosa che sconfina nello iper-realismo) né politico ma si può avere solo relativismo ed è in questo quadro che s’inseriscono gli scritti kelseniani sulla democrazia, la legalità e il Judicial Review.
La dottrina della purezza testimonierebbe dunque storicamente del crollo dell’assolutismo (il cui posto presumo sia accanto a quello del confessionismo o del fideismo). Le sue difficoltà e i suoi limiti - e lo prova forse la possibile lettura in senso monarchico di una costituzione repubblicana - sono inerenti al passaggio al relativismo (e dico relativismo omettendo di parlare di un "significante vuoto", locuzione con la quale la democrazia è oggi definita da alcuni studiosi). 
Ma se è possibile domandarsi come parlare di soluzioni dottrinali senza considerare il dato di partenza, allora il discorso, messe così le cose, si fa indicibilmente aperto.
Nulla a questo punto ci distoglie da una serie di sospetti: che la democrazia costituzionale per sua natura propria (eccoci a qualcosa di dolorosamente storico) sta come imprigionata nel relativismo - che tanto è filosofico quanto morale, comportamentale e politico. Che lo scetticismo valga in qualche modo a erodere le espressioni politiche della fede religiosa ma non sia incompatibile con essa, ovvero con la psicologia del credente che abbia l’abilità di calarsi nella dimora della filosofia; che la sostanza, a fronte della duplicità della illustrazione del relativismo, spazi comunque in una unitarietà, che è arduo spezzare.
La sostanza credo non cambi se - mettiamo - si può ammettere che lo scetticismo può non essere fine a sé stesso, o se si può sospettare che ogni legge sia valida sino a che una corte a ciò preposta non la dichiari invalida (ivi, pag. 20). Laddove il criterio di validità si riduca a poco più che la negazione del nulla.
Ciò che fa bene al diritto è che la parola relativismo (in relazione allo spirito costruttivo di una dottrina dell’ordinamento quale quella kelseniana vuole essere e cioè optando per la seconda lettura, quella della prudenza epistemica) vuole significare piuttosto un metodo (non condannare mai aprioristicamente, sviluppare procedure che garantiscano una sorta di presunzione di verità, sempre o il più possibile, ecc.) che una conclusione definitiva che induca alla intolleranza, al fatalismo e alla inazione. Perché in tal caso s’incorrerebbe in una riedizione dell’assolutismo: la verità è che non vi sarà mai una sola verità… e meglio: la seconda spiegazione darebbe adito all’uso della ragione, anche se essa ragione va in certo modo demitizzata.
Dunque sarebbe semplicemente come se la versione scettica incombesse su, o scorresse nelle vene di, quella “epistemica”, cui potrebbe in ogni momento chiedere il conto e la crescita democratico-costituzionale sarebbe sempre sotto tiro, l’assolutismo sarebbe sempre lì, impassibile, ecc. se non fosse per l’uso razionale del dubbio, se non si avesse cioè ricorso al dubbio non assoluto ma metodico.
Dunque il relativismo filosofico è tanto minaccia quanto strumento benefico; esso chiede di essere agito, non lasciato lì; dev’essere instancabilmente rimesso alla buona volontà e al governo delle leggi, che non siano le “buone leggi”, di machiavellica memoria. Guai cioè se esso divenisse da mezzo fine.
A proposito del costituzionalismo come indice di democrazia, Moreso riprende fra gli altri il concetto kelseniano per cui il principio democratico di maggioranza è vero e funziona finché funziona ed è operante il principio della eguale libertà per tutti (ivi, pag. 15) Che è però certo un postulato e non qualcosa di effettivamente dato. La democrazia insomma è pensabile - è questa la sua logica - solo in presenza di eguaglianza pura.
Alla fine questa libertà eguale per tutti non essendo presupposto che si ha già, appare piuttosto come ciò che bisogna conquistare; e il problema è: è naturale che sia parte organica della teoria kelseniana che i presupposti appartengano alla dimensione del dover-essere? È naturale che quella teoria porti dentro di sé la sua stessa critica o il suo stesso limite, poiché essa esprime a modo suo il dovere giuridico?
Non è mai - credo - il caso di condannare un intervento che renda problematico ciò che sostanzialmente non sembra esserlo; il quale, nella specie, riconduca Kelsen ma con Kelsen il discorso sulla democrazia costituzionale, sul piano della storia-e-cultura. Quello che non bisognerebbe trascurare, poiché ciò equivarrebbe a rimuovere, freudianamente, è lo stretto rapporto fra relativismo filosofico e democrazia costituzionale di cui è bene offrire una interpretazione non di superficie o ripetitiva e acritica ma che lasci pensare. Perché il detto relativismo è un destino con cui la democrazia costituzionale ad esso destinata deve fare i conti, senza tregua. Lo scetticismo radicale potrebbe produrre ad esempio nazionalsocialismo, con tutte le conseguenze del caso; ma come nasconderci che è allo stesso tempo solo all’interno di una sostanza scettica che si deve costruire un governo delle leggi e non degli uomini.

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