L'epoca dei Lumières,
nel maturare dei suoi effetti, segna il tramonto delle pene afflittive e
meglio: lo spiega.
Il corpo cessa di essere
l'oggetto principale dell'esecuzione penale la quale è sottratta alla
condizione di pubblico spettacolo: la pena - scrive Foucault - "lascia il
campo della [di una - per noi oggi; ma allora? - orribile, terrificante]
percezione quotidiana, per entrare in quello [più mite, più ... umano] della
coscienza astratta". Ora, se questo è vero, allora bisognerà spiegarsi il
senso di un'"astrazione".
Il mutamento racchiude
in sé motivazioni "politiche": già nel cinquecento, come lamentato
dal noto criminalista de Damhoudère (il quale in questo veniva ad anticipare il
Beccaria), i pubblici supplizi non fornivano una buona immagine della
giustizia penale, la quale in nome della sovranità commetteva nei rituali
dell'esecuzione crimini più atroci di quelli che puniva.
Culturalmente, v'erano
allora le premesse per l'abbattimento di qualcosa di primigenio della
giustizia
penale (: “non di rado la punizione dà agli esecutori l'opportunità di commettere a loro volta, sotto il manto giustificativo dell'espiazione, la stessa azione sacrilega":
Freud, Totem e tabù); ma è proprio qui il punto...
La distruttività
punitiva insomma - ancora troppo vicina all'antichità, anch’essa per
noi “inumana” ma allora “giuridica”, mettiamo, della crucifixio o
della ossis fractio, o del culleus (il sacco,
o analogo contenitore, nel quale era cucito il corpo del reo ancora in
vita) dei parricidi - non valeva a "educare".
Cesare Beccaria |
Se le antiche pene
negavano annientandolo il corpo, con l'ingresso dell'illuminismo nella storia
delle istituzioni la filosofia penale diviene "moderna" e ruota
attorno a una diversa economia del
corpo, il quale in certo senso ne esce valorizzato. Ora la pena non lo dilania
più ma lo custodisce in cambio della privazione della libertà, laddove
custodire equivale a educare e redimere; ora essa invece di ostentare
distruggendo nasconde conservando (idea di detenzione
punitiva).
Al centro
dell'attenzione vi è sempre un progetto di mortificazione della carne; ma se
l'esecuzione penale nel suo modo afflittivo sbranava, squartava e bruciava
corpi, ora essa, per l'idea detentiva, interna celando (con il corpo
l'identità; ma la stessa esecuzione) e conserva nella costrizione; essa così
libera l'anima e la coltiva, politicamente, limitando(ne) la libertà
(Marat).
Ma può la filosofia
dei lumières spiegare tutto, se si può in qualche modo
dimostrare che i meriti che ad essa si attribuiscono non iniziano propriamente
nel settecento e se il suo compito, o le sue profonde indicazioni, non hanno
trovato vera applicazione nel mondo attuale?
Vi sono, a questo
proposito, taluni elementi di fatto che c'inducono a riflettere. Ad esempio:
tra le primissime opere edilizie legate alla detenzione punitiva
(l'edificazione è qualcosa che spiega, in cui cioè una cultura specifica si
dispiega) figurano il "carcere nuovo", fatto erigere da papa
Alessandro VI nel 1655 e l'istituto per malfattori minorenni inaugurato da papa
Clemente XI nel 1703.
Questo può
significare che vi furono all'epoca papi illuminati; ma significa anche che non
basta nominare la raison per spiegare la razionalizzazione
(del diritto, di una istituzione, di una procedura, di un rapporto) e ci vuole
una idea più "religiosa" (in modo laico) di purificazione e
redenzione che si contrapponga, potendolo sostituire, al modello del supplizio
e della morte atroce. E qui assume rilievo l'identificazione dell'origine della
detenzione punitiva nella "prigione monastica" medievale: l'episodio
significativo è la condanna di suor Virginia Maria di Leyva, conosciuta come la
monaca di Monza.
Certa quale
psicologia cristiana medievale è dunque importante per comprendere la
trasformazione del sistema delle pene in età "classica". Permane la
costante della pena come punizione; cambia il tipo di mortificazione della
carne, nel senso che non di sbranamento o messa al rogo e cioè di brutale
esteriorità si tratta ma di privazione di un bene spirituale quale la
"libertà".
I meriti dunque
potrebbero dirsi piuttosto cristiani che illuministici, se non fosse che tanto
la raison - pure utopica - fu informata a ideali di
trasformazione concreta della società politica quanto s'impose in questo
un'attitudine psicologica che essa condivideva con altra cultura: una forma
di pudore della mente. Se non fosse, per converso, che, conoscendo la
storia, lascia perplessi il far parola di una psicologia "cristiana".
Resta il fatto che nulla, per principio d'inerzia, avrebbe sottratto la
esecuzione penale a riti raccapriccianti, se alcuni papi non si fossero resi
protagonisti di una nuova politica.
Se comunque si
possono avere così oscillazioni fra cristianesimo e illuminismo, per cui
addirittura nel secondo sarebbe ravvisabile una certa quale evoluzione del
primo, non se ne hanno con riguardo ad un ipotizzabile sentimento del pudore,
che accomunerebbe due culture apparentemente distanti, per non dirle ostili
l'una all'altra.
Ovvero, con la parola
"pudore" si possono spiegare molte cose; qui, nel nostro caso, a
voler significare il crollo del sistema afflittivo, il celamento del reo, la
sottrazione dell'esecuzione e dunque del corpo al pubblico spettacolo, si può
parlare (con Foucault) di pudore
della pena - nel quale noi postmoderni siamo ancora presumibilmente
immersi. E ci si potrebbe spingere sino al punto di unificare, sotto un'unica
parola, più cose diverse fra loro: così il principio di pubblicità del processo
penale come quello di eguaglianza della pena, e questi al pari della detenzione
o della solitudine monastica. Pudore dunque dell'internamento, in senso
generale e istituzionale.
Ma pudore, si
potrebbe aggiungere a questo punto, come forma o clausola di un nuovo
"patto sociale". Le descrizioni della società del sei-settecento
forse suggeriscono questa conclusione, quando parlano dei principi in base ai
quali nacque l'internamento.
Vien fatto di
pensare, in base alle ricostruzioni di cui si dispone, che la moderna
detenzione si sia affermata in Europa allorquando la vita delle città -
soprattutto quelle con un maggiore sviluppo industriale - divenne complessa e
più pressante, quando cioè i mendicanti (i paupers del Poor
Law; la plebe urbana, che secondo Hegel non dava lustro allo Stato) e
mescolati con essi gli "insensati", occuparono gli angoli delle
strade e gli spazi antistanti le chiese; avvenendo in ciò che la miseria
cessasse di essere santificata. E questo va sospettato, almeno quanto insospettisce,
nei termini di una ricostruzione storica, il particolare non trascurabile della
necessità "politica" di erigere proprio in Roma un carcere per i
minorenni. Alla luce di una complessità nuova della realtà urbana e di una
nuova psicologia in formazione infatti, un carcere può equivalere ad un
ospedale tanto quanto punire è aiutare a guarire. E almeno questo tramandano i
documenti: negli hôpitaux francesi del sei-settecento i
mendicanti venivano salassati, purgati (con l'assistenza dei medici) e quindi
rimessi in libertà. Ed anche: in pieno ottocento, in Francia come in Gran
Bretagna, le prigioni ospitavano indistintamente criminali, folli e mendicanti.
Questione di "controllo sociale", ma legato obiettivamente ad una
nuova morale urbana.
Nel crollo del
sistema afflittivo e nel prender piede dell'internamento e della custodia si
afferma dunque il pudore della
pena, ovvero: punire è
curare; rinchiudere è
assistere; nascondere è
punire e anche viceversa; ma
per tutto questo nascondere è anche nascondersi.
L'impressione,
storicamente parlando, è che in epoca "classica" la città, facendo
sua e metabolizzando (un po' "laicizzando") ogni possibile utilità di
pensiero, di cultura e di superstizione religiosa, si sia trovata a erigere una
morale sua propria, imbevuta di pudore e in ciò ambivalente. E che questo
assunto, se accettato, possa spiegare anche di più rispetto alle ricostruzioni
dei dottrinari. Detto, ciò, restando entro il perimetro della psicologia e nel
rispetto dei Kant e dei Beccaria.
(Rielaborazione da D&G, a. 2002; già pubbl. anche in Europa Giovani, 3 marzo 2009)
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