Il valore del motto esse est
percipi, del vescovo irlandese George Berkeley - per cui nulla esiste
al di fuori della nostra percezione -, distolto da certa interpretazione
ontologista e ancora libresca, lo si nota oggi innanzi tutto nell’ambito della cultura delle
macchine e dei sistemi, e cioè nell'èra elettronica o digitale; se si pensa che tale cultura per essere necessariamente
collegata alla cultura biologica e a quella psicologica, è anche «cultura della
percezione», interfacing, ovvero alla cultura del costituirsi
fondante della percezione; se si pensa alla cosiddetta «unità percettiva»,
nella quale il tema è il rapporto fra un «materiale» ed un «immateriale» ed in
ciò fra «reale» e «virtuale», negli sviluppi della tecnica e scienza dell’informazione. Il tutto, ovviamente, ritenendo non proprio paradossalmente l'uomo per buona parte almeno come l'ente più somigliante alle macchine e alla loro natura artificiale.
George Berkeley |
Secondo un primo aspetto della
cosa io mi domando, nei termini del se sì e del se non,
se si possa dar ragione a, e toccare con mano la «metafisica» singolare di
Berkeley. Ad esempio: vi è qualcosa, nell’assetto e mondo percettivo, e meglio
nel suo costituirsi, che sia al di qua, o se si preferisce sotto (sub-stans),
l’andamento biologico delle cose, l’andamento psicologico e anche, l’idea
stessa di procedimento o processo? Se sì, ciò lo si può esprimere - più o meno
- nel modo seguente: la percezione è qualcosa che si costruisce, ovvero che
deve sempre potersi costruire. Che ciò che avviene nella costruzione (della cui
categoria logica ed epistemologica si assiste oggi ad una ripresa) di una
percezione o di un insieme di percezioni, è pura esperienza: esperiri come posse,
accadimento, evento, modalità (mode), ecc.; qualcosa che è
caratterizzato anche, per definitionem, dalla casualità che vi è
nella selezione, nell’incameramento, nell’associazione...
L’ esse dunque -
per rispondere alla mia domanda - è l’esse che si commisura all’esperiri (:
farsi - forse - di ciò - l’unicum - che non si può affermare
che è; come star dentro qualcosa che avviene e non semplicemente contemplare).
Il carattere metafisico forse è in questo; oppure si può dire che esso risiede nel fatto che il procedimento costruttivo delle percezioni precede e prepara lo stato della mente e nello stesso tempo non è, propriamente, aggregazione atomica o molecolare. La percezione, dunque, colta in questo suo essere-farsi, presenta una certa quale natura (si veda ad esempio il senso di alcune cose dette da D.R. Hofstadter, Ne L’architettura del jumbo, in in AA.VV., La sfida della complessità, pp. 298 e ss.).
Il carattere metafisico forse è in questo; oppure si può dire che esso risiede nel fatto che il procedimento costruttivo delle percezioni precede e prepara lo stato della mente e nello stesso tempo non è, propriamente, aggregazione atomica o molecolare. La percezione, dunque, colta in questo suo essere-farsi, presenta una certa quale natura (si veda ad esempio il senso di alcune cose dette da D.R. Hofstadter, Ne L’architettura del jumbo, in in AA.VV., La sfida della complessità, pp. 298 e ss.).
Mettiamo insomma che l’esse delle
cose valga, in forza di quel postulato, almeno quanto l’esse dell’
uomo; il che non può essere negato se non con superficialità, e dunque può
essere concesso. Si può ritenere in altre parole non solo che «ciò che è nasce
dalla nostra percezione», ma anche che «ciò che è (per avere in sé una
esistenza propria) è ciò che è anche nella percezione». Ora,
questa riflessione sull’esse delle cose mi sembra si faccia largo
in relazione al fatto che l’oggettività oggi rassomigli a un nuovo grande
impero, che la tematica dell’oggetto - io rileggevo fra l’altro, con
riferimento alle classificazioni giuridiche, il passo di Gaius riprodotto nei Digesta di
Giustiniano sulle res corporales ed incorporales (Dig. 1.8.) - sia rilanciata nell’ambito della cultura,
elettronica, dell’effetto, la quale appunto deve necessariamente
ridefinire che cosa sia oggetto (object).
In altre parole: quando si pensa
l’«unità percettiva», si pensa che una unità minima, in quanto tale
quantificabile, possa avere in sé, provata, una verità, quella che avvicina l’essere percepito e l’essere, 'propriamente' detto. Ed è che una verità alla fine «morale» in questo
modo rivela di corrispondere ad una verità scientifica positiva.
Ma perché infine ora e ancora una
volta non essere indotti a confessare che le macchine “intelligenti” hanno concretizzati
i confini della percezione nel mentre esse sospingevano decisamente verso quei
confini, ammantandoli dei paludamenti di libertà, l’essenza uomo? O che - tesi
che sembrerà ardita - la percezione se non appare “macchina di carne” e invece
sempre un po’ anima (ma a sconfessare certi pregiudizi basta forse l’Aristotele
del de anima) è perché essa è come fonte, inesauribile o
sorprendente? Sempre considerando macchina e percezione come due distinti
livelli, ben separati?
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