Nella interpretazione resa da certa scuola di pensiero, il diritto
positivo non sarebbe più il diritto positivo che sapevamo, poiché nel suo corpo sono
penetrati elementi della morale e del diritto "giusto" cosiddetto; ma non solo nel suo
corpo - debbo presumere - e invece anche nello spirito, che vi si traspone.
Codeste penetrazioni, che hanno messo in second’ordine il modo tradizionale d'intendere la distinzione fra diritto e morale, si sarebbero avute a
causa delle moderne costituzioni e convenzioni e dichiarazioni nazionali e internazionali
dei diritti. I quali fenomeni dunque non si possono leggere come un “di più” per dire cibo per moralisti o sognatori o idealisti; ma come evoluzione necessaria del
diritto, in senso oggettivo e come cultura.
E si tratta in certo modo di un paradosso, se si considera come a
un bisogno crescente di fissare regole generalmente valide e principi - a loro
volta universalmente oltre che generalmente validi - e cioè a un bisogno di
sempre nuovo diritto positivo (tempo addietro mi era capitato di parlare di “diritto
positivo alla ribalta”, a voler illustrare detto bisogno), abbia fatto
riscontro una crisi della concezione giuspositivistica del diritto.
H. van Groot (1583-1645) |
Si può ritenere allora che non solo la Costituzione sostanziale di
uno Stato contiene quello che si usa definire “diritto giusto” installando il
punto di vista morale all’interno del diritto positivo; ma che di più ciò è
avvenuto, necessariamente, a un certo punto della nostra storia. E che la
cultura e coscienza se sono storiche questo lo debbano riconoscere.
È che la Costituzione formale (attinente alla posizione, forza ed
efficacia della Legge fondamentale
nel sistema delle fonti, nonché alla procedura di formazione e revisione di
detta Legge) dipende da, o comunque si spiega con, quella sostanziale
(attinente alle proposizioni normative in quella Legge contenute). È, per
intenderci, che in questo modo il rapporto sostanza-forma precede - e prevale su - quello materia-forma, che ha riempito in questi ultimi anni i discorsi della
nostra classe di governo, quale chiaro segnale di un profondo depauperamento.
La quale classe, se ancora oggi si ostina a proclamare la
volontà-necessità di riformare il testo costituzionale, viene eo ipso a sminuirne, giostrando su una nozione riduttiva di storicità della norma, il valore sostanziale stesso nonché quello formale. Laddove al
decoro costituzionale credo corrisponda puntualmente quello del diritto stesso.
Dunque in fondo è avvenuto qualcosa di singolare, a causa delle infiltrazioni della morale nel diritto positivo ed è che il diritto scritto viene chiamato oggi più di ieri a tutelare quella morale che la moralità personale tende vieppiù a disconoscere.
Kant sosteneva che "è soprattutto da una buona costituzione dello Stato che c’è da aspettarsi la buona educazione morale di un popolo" e dunque in certo senso nihil sub sole novum, secondo il motto dell'Ecclesiaste; e siamo a uno degli schemi fondamentali dell'illuminismo. Ma ora io vorrei ricondurre quella proposizione al tempo attuale e in certo senso riformularla un po'. E direi che oggi - a distanza di tre secoli - vi è (ma anche si chiede che vi sia) più morale nelle disposizioni di legge che non nella persona fisica e morale, o ancora che la moralità di un popolo si vede dalla sue leggi. Ovvero può essere proprio che sia la decadenza nei costumi e/o la fragilità delle tradizioni popolari a indurre un bisogno crescente di una morale di legislazione, che dovrà essere necessariamente razionale. Che lo sarà, come era già nel paradosso kantiano dello "Stato di angeli-popolo di diavoli", che però non era un paradosso; ma un possibile destino della legislazione.
Dunque in fondo è avvenuto qualcosa di singolare, a causa delle infiltrazioni della morale nel diritto positivo ed è che il diritto scritto viene chiamato oggi più di ieri a tutelare quella morale che la moralità personale tende vieppiù a disconoscere.
Kant sosteneva che "è soprattutto da una buona costituzione dello Stato che c’è da aspettarsi la buona educazione morale di un popolo" e dunque in certo senso nihil sub sole novum, secondo il motto dell'Ecclesiaste; e siamo a uno degli schemi fondamentali dell'illuminismo. Ma ora io vorrei ricondurre quella proposizione al tempo attuale e in certo senso riformularla un po'. E direi che oggi - a distanza di tre secoli - vi è (ma anche si chiede che vi sia) più morale nelle disposizioni di legge che non nella persona fisica e morale, o ancora che la moralità di un popolo si vede dalla sue leggi. Ovvero può essere proprio che sia la decadenza nei costumi e/o la fragilità delle tradizioni popolari a indurre un bisogno crescente di una morale di legislazione, che dovrà essere necessariamente razionale. Che lo sarà, come era già nel paradosso kantiano dello "Stato di angeli-popolo di diavoli", che però non era un paradosso; ma un possibile destino della legislazione.
Nessun commento:
Posta un commento