Vittorio Alfieri |
PRIMO
PENSIERO (GLI ECCESSIVI DEMOCRATISMI)
La tirannide è alla fine una
scelta "morale" dei 'cittadini'... e, se tanto mi dà tanto, essa fa
séguito a un periodo di facili entusiasmi, fasi di vita edonistiche ed eccessi di democrazia (o rivendicazione illimitata di diritti) o, se si preferisce, eccessivi "democratismi"... (Vedasi il cd.
"paradosso della democrazia" in Platone: difficile rapporto fra
l’uomo e la libertà, impossibilità di una perfezione...)
SECONDO PENSIERO
(LE FONTI DELL’AUTORITÀ)
Dov’è
che l’autorità ha le sue fonti? Nella superstizione, nell'arrendevole motto omnis potestas a Deo, nella paura, nella ignavia, nel sentimento di conservazione di
chi possiede quanto meno abbastanza, nel principio del “contraente più forte” e
cioè nella pura legge del più forte, o nell’inguaribile intelligenza, che parla
di contratto sociale? Certo è che l’ultima può spiegare tutte le altre; e
dunque?
TERZO PENSIERO
(LA SOCIETÀ TIRANNICA)
Una società squilibrata, nel perenne disagio, nella quale i molti siano nella condizione di ammettere che si possa fare ad altri ciò che mai si vorrebbe fosse fatto a sé stessi, nella quale ai molti sia dato considerare gli altri come mezzi, è una società in cui ciascuno sa che come si lascia tiranneggiare oggi così egli potrà tiranneggiare domani - ma forse già lo sta facendo.... Ed è qui lo scranno del tiranno, che agisce arbitrariamente e con violenza, nei confronti dei beni altrui, dell'altrui vita e contro quei principi morali che sono elevabili a nobili leggi universali…
QUARTO PENSIERO (“DATE
A CESARE…”)
Se io dico “tirannide” e l’altro
mi dice: no, “dittatura”, allora comprendo: costui bada più all’imposizione
autoritaria e cioè al bastone, alla punizione corporale, alla sanzione finale -
costui cioè cammina nei territori della paura del dolore fisico -, che non alla
pratica tributaria (e da nobile e/o da gentiluomo) dell’impoverimento
progressivo mediante produzione del debito, imposizione fiscale, sino alla miseria, alla
riduzione in schiavitù e alla disperazione.
Costui non pensa al valore
centrale e supremo del rapporto di lavoro: alla decisività del lavoro
frammentato, del corporativismo, del macchinismo spiritualizzato, finanche del
solidarismo, ché se anche non vogliamo ammettere che tutto non conduce alla
schiavitù, certo dovremmo sempre saper distinguere fra questa e la tirannide.
Insomma forse l’ignoranza e
accettazione - nei fatti e atti - del contratto sociale vessatorio non dovrebbe stupirmi, ché esso e meglio il popolo che
lo sottoscrive per tacito consenso - congiuntamente con certo ‘popolo di Dio’ -
sarebbe stato un ottimo cliente del dott. Freud…
QUINTO PENSIERO (TASSE E BALZELLI)
Non date a
Cesare ciò che non è di Cesare, non date a Dio ciò che non è di Dio… Le tasse e
i balzelli dipende da chi e da come e quando li impone; e debbono essere
sottoposti al libero esame: essi possono essere infatti giusti o ingiusti,
dovuti e non dovuti. Essi cioè scorrono su una via parallela rispetto a quelle
dei governi e delle leggi… l’importante è non svegliarsi quando potrebbe essere
troppo tardi…
SESTO
PENSIERO (IL MONARCA E LA LEGGE)
La storia politica in
quanto conflitto perenne fra il monarca e la legge: può prevalere l’uno e
dovrebbe/potrebbe l’altra, ecco il succo del discorso. Ovvero, in termini
conclusivi: il monarca se può esserlo, allora è tiranno.
È lo schema suggerito a suo
tempo da Vittorio Alfieri, nel suo saggio giovanile sulla tirannide,
coevo per stesura (siamo nel 1777 ca.) della Rivoluzione francese…
Ora, la mia curiosità è la
seguente: possiamo farne ancora un buon uso, delle sottili osservazioni di
Alfieri, con riferimento alle “democrazie” occidentali?
SETTIMO PENSIERO
(ANTICHI E MODERNI)
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“Divenne
un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi
dovea. Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide
esercitano, gravemente pure si offendono di essere nominati tiranni. Questa sì
fatta confusione dei nomi e delle idee, ha posto una tale differenza tra noi e
gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro più raro
principe vi sia stato mai, potea benissimo esser chiamato tiranno; e così
presso noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo Secondo, un Arrigo Ottavo, o qual
altro mostro moderno siasi agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere
appellato legittimo principe, o re. E tanta è la cecità del moderno
ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai semplici
nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli
antichi popoli che a sopportare gli aveano.
Tra le moderne nazioni non
si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei
soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli
averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di
codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non
dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di
apparente giustizia. e benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo
essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò
ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle
cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior distinzione. Il nome di
tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se
non a coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno,
comunque se l'abbiano, una facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro
non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo
incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere
abborevoli abbastanza. Il nome di re, all'incontro, essendo finora di qualche
grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che
frenati dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data
società che i primi e legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite
leggi” (v. Alfieri, Della tirannide, cap. I).
Dunque io moderno
tiranno non ammetterò mai di esserlo, né tollererò mai che altri me lo dica o
mi definisca tale. Assisteremmo insomma, per quanto scritto dal ventottenne
Alfieri, a una tipicamente moderna rimozione dei nomina,
che sono sconvenienti, ne rendono impopolari e odiosi i portatori, il che getta
confusione nel cuore stesso del pensiero politico, nella sua attitudine ma
direi ancor prima dovere di definire una cosa col nome che
essa merita…
OTTAVO PENSIERO (LA DIVISIONE DEL POTERE)
“Tirannide indistintamente
appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla
esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle,
impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità.
E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o
legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza
effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è
tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. E, viceversa, tirannide
parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le
leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi,
cioè gli scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il
semplice prodotto della volontà dei più; la quale si viene a raccogliere per
via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti al ridurre in leggi la
volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano
costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle,
cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e
il giusto governo, non è posta (come alcuni stoltamente, altri maliziosamente,
asseriscono) nell'esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma nell'esservi
una stabilita impossibilità del non eseguirle” (Alfieri, Della
tirannide, cap. II).
Montesquieu aveva
teorizzato la divisione del potere, detta anche separazione
dei poteri e poi ancora e sulla falsariga di ciò nel mondo
anglosassone si sarebbe stabilito il principio dei checks and balances (“…
E in quel punto stesso in cui si trovano in un governo due forze e autorità in
bilancia fra loro, egli manifestamente cessa tosto di essere monarchia”: Della
tirannide, ivi). È tirannica insomma la violazione della separazione dei
poteri…
… Ebbene, mi dico: qui il
concetto si approfondisce, si sviluppa in modo pulito… concentrandosi intorno
alla legge però prima ancora che parlando di “Costituzione dello Stato”… già, riprendendo Machiavelli: che cosa è una “buona legge”? e anche: come si fa una
buona legge?
Eppoi, per coerenza di
pensiero, sullo sfondo v'è pur sempre l’insidia, l’ombra, la natura umana (:
“ma, tante specie di tirannidi essendovi,…” ecc. ecc.).
NONO PENSIERO
(IL VIZIO E LA VIRTÙ)
Si può stabilire un
rapporto, forse di viva necessità, fra la tirannide, in cui il tiranno (il
demagogo, il “prostates” platonico) si ritrae in sé immoralmente, favorendo la
disunione della società, e il “vizio” (della cittadinanza), che s’identifica
col molteplice, e che si manifesta nella morale sociale ed economica… laddove
il presupposto è che l’unione politico-sociale è la condizione di virtù…
restando comunque da approfondire il rapporto fra il “molteplice” così detto e
la condizione “democratica”… fra diritti e piaceri, di qualsiasi natura…
DECIMO
PENSIERO (CIÒ CHE È “POPOLARE”)
La condizione tirannica è
legata a qualcosa che può dirsi eccessivamente popolare; è l’emergere violento
di ciò che è popolare, nella sua istintività e in certo suo uso strumentale; un
popolo magari esasperato, quasi accecato dalla politica reale che si consegna a
un demagogo, venuto dal popolo, o da qualche provincia remota.
È una possibile visione
delle cose, senz’altro; ma il suo punto fragile è nella facile identificazione
di quanto di popolare e quanto di giusto vi sia nel sentimento popolare…
UNDICESIMO
PENSIERO (LO SQUILIBRIO DELLA LIBERTÀ)
Dunque la tirannide può
essere data come l'effetto, di una sopraggiunta impossibilità di amministrare e
vivere moralmente lo spirito di libertà…
Essa è come scaturisse,
detto semplificando, da uno squilibrio della libertà… o da una sorta di sua
malattia…
DODICESIMO
PENSIERO (IL NON RISPETTO DELLA LEGGE)
"Tirannia è fare uso
del potere che uno ha nelle sue mani non per il bene di coloro che vi sono
soggetti, ma per il proprio vantaggio particolare e privato, quando il
governante, quale che sia il suo titolo, erige a norma non la legge, ma la sua
volontà, e quando i suoi comandi e le sue azioni non sono rivolti alla
conservazione della proprietà del suo popolo, ma alla soddisfazione della sua
ambizione, del suo spirito di vendetta, della sua avidità, o di qualsiasi altra
passione sregolata" (J. Locke, Two Treatises of Goverment, II
treat., cap. XVIII. La tirannia, n. 199).
A difesa della monarchia
legittima, re Giacomo in un suo discorso in parlamento, nel 1603, affermava:
"Preferirò sempre il bene del pubblico e di tutto lo Stato, nel fare buone
leggi e costituzioni, a qualsiasi fine privato e particolare, pensando che la
ricchezza e il bene dello Stato siano il mio più grande bene e la mia più
grande felicità terrena, un punto su cui un re legittimo deve chiaramente
distinguersi da un tiranno usurpatore. Riconosco, infatti, che il punto
fondamentale e più importante di differenza tra un re legittimo e un tiranno
usurpatore è questo: che mentre il tiranno ambizioso e orgoglioso pensa che il
suo regno e il suo popolo sono ordinati solo alla soddisfazione dei suoi
desideri e dei suoi appetiti irragionevoli, il re giusto e legittimo, al
contrario, riconosce di essere destinato a procurare la ricchezza e la
proprietà del suo popolo".
Ancora in un suo discorso
del 1609, il re "dotto" proferiva queste parole: «Il re si vincola
con un duplice patto all’obbedienza delle leggi fondamentali del suo regno.
Tacitamente, per il fatto stesso di essere re, e quindi vincolato a proteggere
tanto il popolo quanto le leggi del regno, ed espressamente con il giuramento
al momento della sua incoronazione. così ogni re giusto in un regno consolidato
è tenuto a osservare quel patto stretto con il suo popolo mediante le sue
leggi, conformando a esse il suo governo”. quindi, “tutti i re, che non sono
tiranni o spergiuri, saranno felici di rimanere nei limiti delle leggi»
(Locke, ibid.).
Dunque la linea di confine
fra il monarca ‘giusto e legittimo’ e il tiranno ("usurpatore" dei
diritti altrui) è quella stessa che separa - ma unisce - la legge posta al di
sopra delle teste degli uomini e la volontà di chi governa pretendendo di farlo
al di sopra della legge, per proprio esclusivo interesse. Ma la questione del
regime degenerato non riguarda solo la monarchia: "anche altre forme di
governo ne sono suscettibili, perché il potere - messo nelle mani di
qualcuno per il governo del popolo e la salvaguardia della proprietà -,
ovunque sia piegato ad altri fini e usato per impoverire, molestare, o
sottomettere il popolo ai comandi arbitrari e illeciti di coloro che lo
esercitano, si trasforma in tirannia, sia uno solo o siano molti coloro
che se ne servono. Così leggiamo dei trenta tiranni di Atene, e dell’unico tiranno
di Siracusa; e niente di meglio era l’intollerabile dominio dei decemviri
a Roma" (Locke, ivi, n. 201).
È forse un discorso generico?
Forse; ma è allo stesso tempo un indice morale e meglio etico… (penso al
contrasto stridente fra quel “sua ambizione, [...] suo spirito di
vendetta, [...] sua avidità” e quel “conservazione della
proprietà del suo popolo”). Al centro di tutto si pone il valore morale del
rispetto della legge, segnatamente di quella cosiddetta
"fondamentale".
TREDICESIMO PENSIERO (LA RESPONSABILITÀ DEL POTERE POLITICO)
Sembra proprio di capire
questo, dalle righe scritte da Locke nel suo Secondo Trattato: che
è doveroso separare, per il bene comune e della politica stessa, la potenza
economica dalla giustizia politica… che ciò sembri quasi impossibile e comunque
non facile è piuttosto un rafforzativo di tale convinzione che non il suo
contrario: «È ragionevole […] che un uomo ricco, proprietario di un paese
intero, debba per ciò avere il diritto di impadronirsi, quando vuole, della
casa e del giardino del suo povero vicino? Il fatto di possedere legittimamente
un grande potere o grandi ricchezze, molto più grandi di quelle della grande
maggioranza dei figli di Adamo, vale tanto poco come scusa, e ancor meno come
ragione, per la rapina e l’oppressione, ovvero per il recare danno ad altri
senza averne l’autorità, che anzi ne costituisce una forte aggravante. Andare oltre
i limiti dell’autorità non è un diritto né per il grande né per il piccolo
pubblico ufficiale; non è più giustificabile per un re che per un poliziotto.
È, anzi, molto più grave nel caso del re perché in lui è riposta maggiore
fiducia, perché ha già una parte più grande rispetto ai suoi fratelli e perché
si suppone che grazie al vantaggio dell’educazione, grazie alla sua posizione e
ai suoi consiglieri egli meglio conosca la misura del diritto e del torto» (Two
Treatises of Goverment, II treat., cap. XVIII. La
tirannia, n. 202).
Dunque i termini della
questione risultano sempre quelli: passano i secoli e nulla cambia. Anzi certe
nozioni, che lascio trarre al lettore, prefigurano decisamente il senso civile
delle ‘moderne’ costituzioni…
A voler dunque guardare le
cose con gli occhi del dopo: le costituzioni scongiurano forse il pericolo di
tirannide, che potremmo definire come la degenerazione in senso eccessivamente
autoritario e illegale di una qualsiasi forma di governo?
QUATTORDICESIMO PENSIERO (DEL MODERNO PRINCIPE)
Il “moderno principe” in
Gramsci è il partito politico, nel senso che bisogna interpretarlo e costruirlo
come fosse il moderno principe: questa è la sociologia in positivo del
più insigne teorico del “comunismo” italiano.
Ora però essa minaccia di
esserlo in negativo, perché col tempo è stato dimostrato che il partito
politico senza un suo leader carismatico conta poco così come
esso tende a chiudersi in sé stesso isolandosi da quella società civile dalla
quale pure è nato quale semplice associazione e i cui bisogni dovrebbe saper
interpretare, giungendo a vessare i cittadini.
“Il moderno principe, il
mito-principe - si legge nelle Noterelle sulla politica di
Machiavelli (quad. XXX) -, non può essere una persona reale, un
individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società
complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva
riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già
dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico…”.
Ecco dunque un caso in cui
la sociologia politica sembra disciogliersi nel suo dover-essere.
paradossalmente insomma si potrebbe sostenere che il moderno principe è come il
vecchio principe del cinquecento, un Borgia riveduto e corretto, nulla essendo
mutato, nella natura del potere politico… e facendosi quasi a gare nel
rincorrere il Machiavelli…
QUINDICESIMO
PENSIERO (LA DEGENERAZIONE TIRANNICA: IL CONTRIBUTO DELLA SCOLASTICA)
La tirannide è tale per cui
anche la miglior forma di Stato può degenerare in tirannide. Ciò a mio parere è
quanto emerge dal pensiero di san Tommaso d’Aquino.
Ritenere a questo punto che
qualsiasi forma di Stato possa degenerare in tirannide significa che la
tirannide non è detto sia una forma politica specifica, dotata di una sua
individualità e rigorosa definibilità; che si tratta di un rischio politico
insito così nelle monarchie come nelle repubbliche come (venendo all’età
contemporanea) nelle democrazie; e forse che tendenzialmente qualsiasi forma di
Stato può andar bene, a patto che sia fondata sulla giustizia e sul bene comune
e non degeneri appunto in tirannide.
san Tommaso d'Aquino
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Ciò che può sorprendere
politologicamente in questo modo di pensare è che possano non esservi fasi
intermedie di passaggio, da un regime all’altro (e anche ciclicità fra regimi,
come insegnava il pensiero greco antico) e che dunque tanto una democrazia
possa immediatamente tradursi in tirannide… quanto che quest’ultima possa
essere creduta altro, possa insomma essere non manifesta…
Con la Scolastica prende
vita una vera e propria teoria del governo legittimo. San Tommaso sostiene ad
esempio che l’essenza della tirannide si esprime nei comandi
rivolti dall’autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì
come schiavi (S. T., II-IIae, q. 64, a. 1, ad 5um).
L’autorità per gli
scolastici è fortemente voluta da Dio, almeno tanto quanto una società (bene)
ordinata. Il principe dunque lo è per volontà divina: se egli non lo è allora
non è più legittimo ed è tiranno.
La nazione ha
il diritto di destituire il tiranno se questi, per abuso di potere, abbia perso
il diritto di regnare ed è diventato illegittimo. Ma bisogna che l’abuso sia
grave, permanente e universale...
Inoltre, sempre secondo gli
scolastici, il potere del principe decaduto ritorna al popolo o
alla nazione che glielo aveva affidato.
SEDICESIMO
PENSIERO (CHI È “TIRANNICIDA”?)
Ancora dal pensiero
dei Patres: per opporsi a una tirannide manifesta è ammesso anche l’uso
della violenza, e questo per un principio di difesa legittima… la disobbedienza
al comando politico o legislativo (o amministrativo) è ammessa, a certe
condizioni; il tirannicidio a sua volta è ammesso ma certo con prudenza…
Prima condizione è che le
cause e cioè il definire un capo politico o governatore come tiranno non
può/deve essere rimessa a una valutazione soggettiva e arbitraria ma a un
giudizio obiettivo.
Si tratterà dunque di
giudicare un regime come tirannide perché degenerato ed eccessivo: ma la storia
forse in questo ha di che sorridere, perché il difficile è che tutto questo
accada veramente nella testa del tirannicida… e che qualcuno allo stesso tempo
possa dichiarare: sì, questo è tirannicidio e non regicidio od omicidio… e
dunque?
DICIASSETTESIMO PENSIERO (IL "DECOSTITUZIONALIZZARE")
Che cosa fa il moderno
tiranno in un paese che vanta una buona storia costituzionale e la cui carta
fondamentale è prova di una raggiunta maturità giuridica? Egli semplicemente
“decostituzionalizza”: decostruisce, smonta l’assetto, lacera lo spirito, della
Costituzione scritta e dell’ordinamento… e lo fa necessariamente forzando la
mano alle procedure di modifica o revisionepreviste, svuotandole del loro
spirito… giocando con il fuoco…
DICIOTTESIMO PENSIERO (GLI ‘AGENTI’ DEL POPOLO)
Proprio perché un bene è scambiabile
con altro di altra natura, rinunciare a garantirsi da soli qualcosa può
equivalere a rinunciare a quel qualcosa. Ciò è naturale, è umano, ciò insomma è
politico…
De Toqueville aveva ravvisato come
nel popolo si annidasse l’attitudine ad affidarsi ad agenti - autonominatisi
tali - del suo benessere materiale e della sua felicità; acquisibili magari per
promessa in cambio di una delega totale dei diritti e delle libertà. Bien etre e felicità in cambio dunque di
più di qualcosa di equivalente…
DICIANNOVESIMO PENSIERO
(L’ESSENZA DI UNA COSA…)
Nella
Repubblica di Platone si legge del passaggio dalla oligarchia alla
democrazia e dalla democrazia alla tirannide. Muovendo dal concetto, per cui l’oligarchia
è il governo della economia (laddove si riconduca ogni valore alla economia lì
si formano oligarchie), egli giunge a cogliere, in quanto a “politeìai”, nella
essenza della cosa la causa della sua fine: “L’oligarchia va in rovina per l’avidità
di denaro, e la democrazia a causa della libertà”.
Che
cosa avverrebbe dunque a un certo punto alla democrazia, secondo il filosofo
greco? “I ricchi cercheranno di difendere le loro sostanze, diventando
oligarchici […], [mentre] il popolo si farà proteggere da qualche prostates,
cioè da un capo che riesce a imporsi all’attenzione collettiva”. E ancora: “Il prostates
è il germoglio da cui si sviluppa il tiranno”. Dunque il tiranno verrà di lì
dove la democrazia si spaccherà in due: i ricchi che vorranno difendere le loro
ricchezze, il popolo che chiederà protezione a chi si dichiari suo difensore, e
s’imbatterà nel tiranno…
Ora
io inviterei solo a pensare a quanta attualità vi sia in questo…
VENTESIMO PENSIERO (LA TAVOLA DEL PRINCIPE)
La tavola del principe (de
principatibus: questo è il titolo
dell’operetta del Machiavelli) è per così dire perennemente
apparecchiata; con i suoi tovaglioli che sembrano profumare di bucato, con le
sue posate d’argento, disposte con animus simmetrico… Lo è,
nonostante essa sia perennemente occupata da un qualche avventore, più o meno d’occasione;
o forse proprio per questo…
Vi hanno preso posto fra
gli Italiani ospiti illustri quali Gramsci e Croce, altri meno quali Mussolini,
Craxi e Berlusconi, per gli stranieri o il meticolosissimo Strauss, che hanno sentito
il bisogno di citare almeno quanto commentare un autore tanto famoso.
Tutti dunque si sono
cimentati in glosse e commenti anche perché - credo - il piatto era dei più
semplici, all’italiana insomma: un saggio di semplificazione, di
“realismo” politico prima ancora che un saggio di filosofia… o di vero impegno
razionale…
In cui ciò che affascina ma
ciò che soprattutto giustifica ogni cosa è l’autonomia della politica dalla
morale…
Un libro forse per questo
fortunato… e perché per ignoranti; un libro comunque - va detto a discolpa dell’autore,
non dei seguaci - riflesso del suo tempo, potesse essere pure esso in cerca di
analogie.
Così, non
recentissimamente, l’economista Sylos Labini ne ha tratto le debite
conseguenze: egli ha invitato gli italiani a “demachiavellizzare” la cultura
politica…
Già: c’è poi chi ha inteso
quella del segretario fiorentino come lezione a contrario:
illustrare la politica di successo perché non si seguisse quel modello… il che
vale a conferma di quanto detto…
VENTUNESIMO
PENSIERO (L’IDEA DI RESISTENZA)
Secondo certa teoria
(alludo al Bobbio), l’affievolimento della sensibilità culturale per l’idea di
resistenza (all’oppressione) sarebbe legato all’accoglimento e legittimazione
del principio politico di opposizione… un principio notoriamente
costituzionale…
VENTIDUESIMO
PENSIERO (IL CONSENSO POPOLARE: ANCORA SUL CONTRIBUTO DELLA SCOLASTICA)
I
commentatori dell’Angelico, ad esempio il Gaetano e il Suarez, distinguono fra
tiranno d’usurpazione e tiranno di
governo: è tiranno di
usurpazione l’ingiusto aggressore di un potere legittimo (all’inizio egli
è senza titolo legittimo; ma dopo un certo tempo può giungere a
imporsi alla nazione la quale lo può accettare come suo capo legittimo). È
tiranno di governo un sovrano legittimo, regolarmente investito del potere ma
che abusa dell’autorità, non governando per il bene comune dei sudditi, bensì
per il proprio.
Ma è il consenso popolare
il criterio per distinguere l’usurpatore ancora in atto di
usurpare da quello che possiede già legittimamente il potere o
che ha già acquisito la qualità di governante. Il primo è un tiranno, al quale
non si deve obbedienza mentre un tiranno che sia tale ma che abbia il consenso
popolare ha il diritto di governare… L’accettazione popolare gli conferisce il
diritto all’obbedienza dei suoi sudditi.
Il tirannicidio è legittimo se si
uccide un tiranno ma non si può legittimare chiunque a farlo, altrimenti si
potrebbe legittimare la uccisione arbitraria di un qualsiasi principe…
VENTITREESIMO
PENSIERO (LA TIRANNIDE DELLA MAGGIORANZA)
“[…] la volontà del popolo significa, in termini
pratici, la volontà della parte di popolo più numerosa o attiva - la
maggioranza, o coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza,
il popolo può desiderare opprimere una propria parte, e le precauzioni contro
ciò sono altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso di
potere. Quindi, la limitazione del potere del governo sugli individui non perde
in alcun modo la sua importanza quando i detentori del potere sono regolarmente
responsabili verso la comunità, cioè al partito che in essa predomina. Questa
impostazione, che soddisfa sia la riflessione intellettuale sia le tendenze di
quelle importanti classi della società europea ai cui interessi, reali o
presunti, si oppone la democrazia, non ha trovato difficoltà a imporsi; e il
pensiero politico ormai comprende generalmente ‘la tirannia della maggioranza’
tra i mali da cui la società deve guardarsi. Come altre tirannie, quella della
maggioranza fu dapprima - e volgarmente lo è ancora - considerata, e temuta,
soprattutto in quanto conseguenza delle azioni delle pubbliche autorità. Ma le
persone più riflessive compresero che, quando la società stessa è il tiranno -
la società nel suo complesso, sui singoli individui che la compongono -, il suo
esercizio della tirannia non si limita agli atti che può compiere per mano dei
suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i propri ordini:
e se gli ordini che emana sono sbagliati, o comunque riguardano campi in cui
non dovrebbe interferire, esercita una tirannide sociale più potente di molti
tipi di oppressione politica, poiché, anche se generalmente non viene fatta
rispettare con pene altrettanto severe, lascia meno vie di scampo, penetrando
più profondamente nella vita quotidiana e rendendo schiava l'anima stessa.
Quindi la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente: è
necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento
predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e
con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a
ostacolare lo sviluppo - e a prevenire, se possibile, la formazione - di
qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a
conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza
dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale: e trovarlo, e
difenderlo contro ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona
conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico” (J.St.
Mill, On Liberty, 1859).
Dopo
Franklin dunque Mill. Ovvero: se un governo è per sua natura contro il suo
popolo (… i governanti, concepiti … come necessariamente antagonisti al popolo
da essi governato…), o almeno questo il popolo lo deve mettere sempre in
preventivo, allora al popolo non resta altro da fare, per tutelarsi, che creare
contromisure (e come non pensare alle leggi?), ponendo così paletti e
limitazioni; ma evidentemente al popolo si richiede, per difendersi dalla
tirannide, che è nella natura del potere, di elevare limitazioni e contromisure
al di sopra del popolo stesso… come dire?: la tirannide si annida nel sociale,
allorquando vi si formano le maggioranze… esse sono nella natura del sociale
stesso e lo sono anche in senso politico…
Come manifestare meglio la filosofia -
pessimistica o realistica - della limitazione,
dunque, se non spiegando che il problema è sì nella natura del potere ma in primis nella natura umana, che si
esprime politicamente? Per quanto quella filosofia poi abbia trovato terreno
fertile - perché ideale -, nella storia delle costituzioni, ciò spiega il
valore del diritto costituzionale in senso repubblicano…
“
[…] a un certo punto del progresso umano, gli uomini cessarono di pensare che i
governanti dovessero necessariamente essere un potere indipendente, con
interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari
magistrati dello Stato ricevessero in concessione l'esercizio del potere,
fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento dalla comunità. Solo così, si
pensava, gli uomini avrebbero potuto essere completamente sicuri che non si
sarebbe mai abusato a loro danno dei poteri di governo” (ivi).
VENTIQUATTRESIMO PENSIERO
(…)
Che
i governanti non siano coloro che conquistano il potere ma coloro che il popolo
elegge e controlla che cosa è rispetto a un qualsiasi machiavellismo?
VENTICINQUESIMO PENSIERO
(L’ABUSO DI POTERE)
Nel
medioevo si riteneva che l’abuso di potere fosse il caso principale di
realizzazione di una tirannia. Ecco anche affacciarsi il dover-essere
cristiano, che merita comunque grande considerazione teorica…
VENTISEIESIMO PENSIERO (IL
CORIOLANO)
Dice
Veluto, nel Coriolano, di W. Shakespeare (atto terzo): “Noi vi accusiamo di
aver cospirato per togliere a Roma tutte le magistrature costituite e per
salire tortuosamente fino al potere tirannico: per la qual cosa siete un
traditore del popolo…
E
controbatte Coriolano: che le fiamme del più profondo inferno avvolgano il
popolo”… e ancora: “Non voglio saper altro: che essi mi condannino alla
precipite morte tarpea, all'errabondo esilio, allo scorticamento, a esser
rinchiuso per languire con un solo chicco di grano al giorno: io non comprerò la
loro pietà al prezzo di una sola parola adulatoria, né frenerò il mio animo per
tutto quello che possono darmi anche se dovessi ottenerlo col dire
semplicemente buon giorno”.
Eccoci
posti in certo modo al centro delle apparenze…
Dunque
chi adula il popolo, chi sa lusingarlo, non può essere tiranno…? Non può esserlo chi si professa
“democratico”? ecc. ecc. ?
VENTISETTESIMO PENSIERO
(LA SOLITUDINE DEL TIRANNO)
Di
tutto è lecito dubitare, segnatamente in politica, pur dopo che lo si è
vissuto…
Quali
ad esempio le differenze, chiede il lirico Simonide di Ceo, che a differenza di
Bacchilide, Pindaro ed Eschilo, s’intendeva di cose politiche, al ‘tiranno’
Gerone I (siamo nella Sicilia del quinto secolo a.C.), fra la vita del privato
cittadino e quella del re? E Gerone, divenuto amico dei saggi a quanto si
tramanda, non manca di spender parole a favore dei re…
Quale
ad esempio la differenza, fra la sensibilità del privato e quella del re e
perché mai in molti invidiano i re e vorrebbero essere al loro posto?
E
così s’inizia l’apologia del principe, dei cui tormenti il volgo poco sa… Dice
Gerone: “[…] tu hai da sapere che i diletti de’ re sono minori assai di quelli
degli uomini privati, che vivono con mediocre fortuna; e gli affanni molti più,
e di maggiore importanza”.
E
così prosegue: “Veramente, o Simonide mio, io non mi maraviglio, che la maggior
parte degli uomini s'inganni a far giudizio de’ prìncipi; perché il volgo a
parer mio si lascia guidare per lo più da certe opinioni di scorgere
alcuni in alto, ed alcuni altri in basso stato. Ma il regno lascia vedere in
pubblico a ciascuno solamente le cose, che sono
stimate di grandissimo pregio, e quelle altre, che tormentano, tiene
occulte negli animi de’ principi; e da queste dipende la felicità, e la infelicità
degli uomini. Per la qual cosa non mi maraviglio, come ho detto, che il volgo
non le intendi; mi maraviglio bensì che ancora voi non ne sappiate nulla, li
quali conoscete assai meglio le cose con l’intelletto, che non fate con gli
occhi. Ma sappi, o Simonide mio, e questo lo ti dico per prova e lo ti affermo,
che i re, quanto maggiori sono i beni, ne godono la minor parte; e quanto
maggiori sono i mali, grandissima è la parte loro. E per non passar più oltre,
se la pace vien tenuta dagli uomini per una gran felicità, i re ne hanno
picciolissima parte, e se la guerra è una grande infelicità, i re ne sentono
più di tutti gli altri. Primieramente agli uomini privati, se la lor
città non prende in pubblico a far guerra, è lecito di andar dove
vogliono, senza temere che altri li uccida. Ma i tirarmi caminano per tutto,
come se fossero in paese nemico. Sì che hanno per cosa
necessaria di essere sempre con l'armi indosso, e di condur
seco d’ogni intorno uomini armati. Oltre ciò gli uomini privati, quantunque
entrino guerreggiando nel paese nimico, nondimeno ritornati a casa,
pensano di esser sicuri. Ma i tirarmi, dopo che sono giunti alla
patria, sanno, che da una gran quantità di nimici sono circondati. Se
anco alcuni più possenti deliberano qualche impresa contra una città; e per
avventura i men possenti si trovino fuor delle mura; veramente par, che questi
siano in grandissimo rischio; nondimeno, quando si sono ritirati dentro la
fortezza, tutti credono esser salvi. Ma il tiranno, benché sia dentro la propria
casa, né anca allora è fuor di pericolo; anzi ha per opinione, che
gli faccia bisogno guardarsi con maggior diligenza. Di più, gli
uomini privati si liberano dalle molestie della guerra con le tregue, e con la
pace; ma i tiranni non hanno mai pace con quelli che tengono oppressi sotto il
dominio loro, né si trovò mai alcun tiranno, che
ardisse di confidarsi nelle loro convenzioni. Vi sono parimente certe
guerre, che le città, e certe altre, che fanno i tiranni contra coloro, che
hanno soggiogati per forza; ma ogni sorte di male ed incomodo, che
sente colui, che tiene la parte della città, vien sentito anco dal tiranno.
Perciocché ad ambidue fa di mestiero star con armi in mano,
guardarsi, entrar ne’ pericoli, e se accade qualche disgrazia a’ vinti, e l’una
parte, e l’altra se ne duole”.
“Ma
il tiranno, quando o per suoi sospetti particolari, ovvero perché veramente si
sia accorto, esservi chi manchi, uccide taluni, sa, che non perciò tutta la
città è per tenere la parte sua; e sa parimente, che egli è per dominare a
minor numero di persone; né può star allegro; né si vanta per questo
effetto. Anzi scema la cosa quanto può maggiormente; ed in ragionando si
scusa di non averlo fatto con animo cattivo. Tanto fin a lui pare,
che le sue azioni passino il termine dell’ onesto. E se anco muoiono coloro,
che egli teme; nientedimanco non per questo sta con l’animo riposato; ma si
guarda alla giornata più che mai. Ed in questa maniera il tiranno è travagliato
da una guerra perpetua, siccome egli è manifesto in me medesimo.
Ora
considera ti prego le amicizie che godono i tirarmi. Ma prima discorriamo, se
l’amicizia si deve porre fra’ beni importanti che sono 'goduti dagli uomini.
Perciocché, se uno è amato da altri, quelli che l’amano e lo yeggono volontieri
appresso: volontieri gli fanno servizio: lontano il desiderano: quando ritorna,
lo raccolgono allegrissimamente: sentono gran contento insieme con esso lui
della sua buona fortuna: lo aiutano, se gli incontra alcun sinistro accidente.
E lo sanno le città istesse, che l’amicizia è il maggior bene e il più soave,
che possano aver gli uomini; di maniera che in molte città si osserva
questa legge, che permette che gli adulteri si possano uccidere senza pena,
stimando elleno che costoro guastino l’amicizia che è fra marito e moglie.
[…]
Stabilissime paiono l’amicizie de’ padri verso i figliuoli: de’ figliuoli verso
i padri, de’ fratelli verso i fratelli, delle mogli verso i mariti: e degli
amici verso gli amici. E se vuoi metter mente a questo, troverai, che gli
uomini privati sono amati principalmente da questa sorte di persone;
mentre diversi tiranni hanno ammazzati i propri figliuoli; e diversi altri sono
stati ammazzati da loro; diversi fratelli nella usurpazione degli Stati si
sono uccisi l’un con l’altro: e finalmente diversi tiranni cosi dalle mogli,
come da coloro, che giudicavano più stretti amici degli altri, sono stati
morti. Se dunque colui, che dovrebbe da certe persone esser amato più d’ ogni
altro per natura, insegnando loro il medesimo anco le leggi: è da queste stesse
odiato chi potrà creder mai, che altro uomo, sia chi si voglia, possa volergli
bene? Appresso, chi sarà colui che in ogni sorte di felicità non sia
da men degli altri, quando non gli venga creduto in cosa alcuna? Perché qual
conversazione finalmente vi sarà cara, se mancherà la scambievole confidenza?
Qual compagnia fra marito e moglie ci può render contenti, se non ci fidiamo
l’un dell’altro? Qual servitore fia grato al padrone, se egli non ha fede in
lui? Nondimeno anco di questo bene, della confidenza scambievole, il
tiranno ne sente pochissima parte; vivendo egli di maniera, che non
può fidarsi né in quel che mangia, né in quel che beve; ma ne fa far l’assaggio
ai suoi servitori, prima che sacrifichi agli iddii; e questo, perché non si
fida, temendo, che ne’ cibi, o nelle vivande vi sia nascosto qualche veleno.
Oltre a ciò la propria patria è cara ad ogni altra sorte d’uomo. Perché i
cittadini senza stipendio si difendono l’un per l’altro contra i servi; ed
eziandio contro i ribaldi; acciocché non sia ucciso violentemente alcun
cittadino; e sono iti tanto oltre in questa guardia comune, che molti hanno
fatta una legge, nella quale è determinato che sia tenuto per colpevole anco
quel tale, che converse con uomini sanguinolenti. Onde avviene, che ogni
cittadino viva con sicurezza nella patria sua. Ma la condizione del tiranno è
diversa affatto. Perché tanto non si guardano le città di non
vendicare la morte loro; che anzi fanno onori grandissimi a colui, che uccide
il tiranno; e tanto similmente sono lontane dal privar coloro delle cose sacre,
come sogliono fare riguardo agli uccisori degli uomini privati; che anco
drizzano loro ne’ tempi le,statue per memoria del fatto. E se tu stimi, che il
tiranno, possedendo maggiori ricchezze assai, che non posseggono gli uomini
privati, cavi da quelle maggior contento: non creder, o Simonide mio, che la
cosa stia così. Perché nella guisa, che i lottatori, vincendo un imperito e
rozzo, non si allegrano; ma ben essendo vinti dagli avversari, allora si
rammaricano grandemente; cosi il tiranno non sente piacere, perché possegga
maggiori ricchezze degli uomini privati; ma si duol bene
fuor di modo, se ne possede meno degli altri tiranni; perciocché
tiene, che questi nelle ricchezze siano suoi emuli e concorrenti. Né similmente
il tiranno ottiene piuttosto le cose desiderare, che l’uom privato,
conciossiaché l’uomo privato desidera o una casa, o un podere, ovvero un servo.
Ma il tiranno o una città, o un paese grande, o un porto, ovvero una fortezza;
le quai cose si acquistano con difficoltà e pericolo maggior assai, che quelle
altre, le quali siano desiderate dai privati”.
Siamo
dunque alla difesa della classe politica di qualsivoglia stampo essa sia, buona
o cattiva: quali in fondo le differenze fra il principe e il tiranno? Dunque scavando
nella vita privata di un despota la tragedia sembrerebbe potersi disciogliere,
in una psicologia della persona che sa di apologia. Oggi si direbbe ad esempio
(e la psicologia americana lo ha fatto, non cessando di essere scienza positiva;
ma anche qui è il punto): scavare nella infanzia di Hitler… Ma non per questo,
pur volendo condannare le scienze e la loro valenza apologetica, le certezze non
vacillano…
VENTOTTESIMO PENSIERO (UN
SEMPLICE CALCOLO MORALE)
“Ma,
per parlare consapevolmente, è una tremenda disgrazia essere soggetti a un
padrone, della cui bontà non si può mai esser certi, visto che, quando vuole,
può sempre essere malvagio”: così fra l’altro esordisce de la Boétie, nel
Discorso sulla servitù volontaria.
Più
che altro si tratta di semplice uso del calcolo e dell’aritmetica morale,
questo dovrebbe esser chiaro ai più… e
la domanda, generale: “esiste un duce o un monarca buono?” si risponde da sé…
Ecco
infatti una subita risposta, sia pure parziale: “è difficile credere che vi sia
qualcosa di pubblico in un governo in cui tutto è di uno solo” (ivi).
VENTINOVESIMO PENSIERO (LA
CESSIONE SERVILE DI POTERE)
Continua
a interrogarsi de la Boétie: “Per ora, vorrei solo comprendere come è possibile
che tanti uomini, tanti paesi, tante città e nazioni tollerino talvolta un solo
tiranno, che non ha altro potere che quello che gli danno; che ha il potere di
nuocere loro solo finché essi possono sopportarlo; che non potrebbe far loro
alcun male, se non quando essi preferiscono sopportarlo piuttosto che
contraddirlo. È davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da
dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni di uomini servire
miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande,
ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non
dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che
nei loro confronti è inumano e selvaggio. La debolezza umana è tale, che
dobbiamo spesso ubbidire alla forza; dobbiamo prendere tempo, non possiamo
essere sempre i più forti. Dunque, se una nazione è costretta dalla forza delle
armi a sottomettersi ad uno, come la città di Atene ai trenta tiranni, non
bisogna stupirsi che serva, ma compiangere quella sventura; o meglio ancora, né
stupirsi né lamentarsi, ma sopportare il male pazientemente e riservarsi per
l’avvenire una sorte migliore”.
Dunque
il “sorprendente” dell’antropologia non è tale, se può sorprendere… La
riprovazione della miseria umana del servire uno solo perché abbacinati dalla
figura di uno solo e non dei più, è tale ch’essa s’innesta alla perfezione
nell’altra, cara a Montaigne e alla tradizione dei moralisti francesi, della faiblesse umana…
“La
nostra natura è tale che i comuni doveri dell’amicizia prevalgono per una buona
parte della nostra vita. È ragionevole amare la virtù, apprezzare le buone
azioni, essere riconoscenti verso chi ci ha fatto del bene e limitare spesso il
nostro benessere per accrescere l’onore e l’utile di chi amiamo meritatamente.
Così, se gli abitanti di un paese avessero trovato qualche grande personaggio
che gli avesse dato prova di una grande previdenza nel salvaguardarli, di un
grande coraggio nel difenderli, di una grande cura nel governarli; se, da quel
momento, essi si abituassero ad obbedirgli ed a fidarsene fino al punto di
riconoscergli alcuni privilegi, non so se sarebbe una cosa saggia, visto che lo
si toglierebbe da dove faceva bene, per innalzarlo dove potrebbe far male. Ma
certo, non si potrebbe fare a meno di amare e di non temere alcun male da chi
si è ricevuto solo bene”.
La
ricerca della familiarità e della riconoscenza laddove però sia rischioso
portarla… trasferimento del sentimento privato nel sentimento pubblico…
gl’impostori della politica sanno bene di questa debolezza ed essi dunque
agiscono di conseguenza.
Ed
ecco descritti i risultati: “Ma, buon Dio! che storia è questa? Come diremo che
si chiama? Che disgrazia è questa? Quale vizio, o piuttosto, quale disgraziato
vizio? Vedere un numero infinito di persone non obbedire, ma servire; non
essere governati, ma tiranneggiati; senza che gli appartengano né beni né
parenti, né mogli né figli, né la loro stessa vita! Sopportare i saccheggi, le
licenziosità, le crudeltà, non di un esercito, non di un’orda barbara, contro
cui bisognerebbe difendere innanzitutto il proprio sangue e la propria vita, ma
di uno solo. E non di un Ercole né di un Sansone, ma di un solo omuncolo, molto
spesso il più vile ed effeminato della nazione; non avvezzo alla polvere delle
battaglie, ma a malapena alla sabbia dei tornei; non solo incapace di comandare
gli uomini con la forza, ma in imbarazzo già a servire vilmente l’ultima
donnicciola! Chiameremo questa vigliaccheria? diremo che coloro che servono
sono codardi e deboli? Se due, tre o quattro persone non si difendono da
un’altra, questo è strano, ma tuttavia possibile; si potrà ben dire giustamente
che è mancanza di coraggio. Ma se cento, mille sopportano uno solo, non si dovrà
dire che non vogliono, che non osano attaccarlo, e che non è vigliaccheria, ma
piuttosto spregevolezza ed abiezione? Se si vedono, non cento, non mille
uomini, ma cento paesi, mille città, un milione di uomini non assalire uno
solo, che li tratta nel migliore dei casi come servi e schiavi, come potremmo
chiamare questa? Vigliaccheria? Ora, naturalmente in tutti i vizi ci sono dei
limiti, oltre i quali non possono andare: due uomini, e forse anche dieci,
possono temere uno solo; ma se mille, un milione, mille città non si difendono
da uno solo questa non è vigliaccheria, perché non arriva fino a questo punto;
proprio come il coraggio non arriva fino al punto che uno solo dia la scalata
ad una fortezza, assalga un esercito, conquisti un regno. Dunque quale vizio
mostruoso è mai questo che non merita nemmeno il nome di vigliaccheria, e per
il quale non si trova un termine sufficientemente offensivo, che la natura
rinnega di aver generato e la lingua rifiuta di nominare?
Si
mettano cinquantamila uomini armati da una parte e altrettanti dall’altra; li
si schieri in battaglia e li si faccia scontrare, gli uni liberi, combattenti
per la loro libertà, gli altri per toglierla loro. A chi si pronosticherebbe la
vittoria? Chi andrà al combattimento con più coraggio, quelli che sperano come
ricompensa di salvaguardare la loro libertà, o quelli che come contropartita
dei colpi inferti o ricevuti possono aspettarsi solo la schiavitù altrui? Gli
uni hanno sempre davanti agli occhi la felicità della vita passata e l’aspettativa
di una gioia simile per l’avvenire; non pensano a quel poco che patiscono il
tempo che dura una battaglia, ma a quello che dovranno sopportare per sempre
loro stessi, i loro figli e tutta la discendenza. Gli altri non hanno niente
che li imbaldanzisca, se non un pizzico di bramosia che si smussa subito contro
il pericolo e che non può essere tanto ardente da non spegnersi, forse, alla
minima goccia di sangue che esca dalle loro ferite. Nelle battaglie così famose
di Milziade, Leonida e Temistocle, avvenute duemila anni fa e che ancora oggi
sono così presenti nella memoria dei libri e degli uomini come fosse accaduto
l’altro ieri, che furono combattute in Grecia per il bene dei Greci e come
esempio per il mondo intero; ebbene, cosa diede ad un così piccolo numero di
uomini, quali erano i Greci, non il potere, ma il coraggio di resistere alla
forza di navi che riempivano il mare intero, di sconfiggere tanti popoli,
talmente numerosi che le truppe dei Greci non avrebbero, eventualmente, neanche
potuto fornire dei comandanti agli eserciti nemici? In quei giorni gloriosi non
si svolgeva tanto la battaglia dei Greci contro i Persiani, quanto la vittoria
della libertà sul dominio, della lealtà sulla bramosia”.
Questo
de la Boétie è un gran piatto, con tante vivande che sono sfumature della
morale, ed è bene che ognuno si serva, a condizione che apprezzi il cibo…
TRENTESIMO PENSIERO (IL TIRANNO GRECO)
Cerco di riassumere, a proposito della figura
del tiranno, le caratteristiche che emergono dal mondo greco antico, in cui
pure detta figura è come percorresse una parabola discendente… (Teognide, Pindaro…)
Politicamente il tiranno rompe con il dominio
dell’aristocrazia; egli viene dal popolo ma non instaura alcuna democrazia;
tende a introdurre una tendenziale mancanza di regole; può anche presentarsi
come l’intermediario fra l’aristocrazia e il popolo…
Il tiranno è come il moderno parvenus, senza tradizioni familiari; ha sete di
ricchezza ed è privo di scrupoli…
Egli teme in un modo quasi ossessivo di
perdere ciò che ha conquistato e per conservarlo sospetta di tutti e mette in
opera qualsiasi azione gli consenta di conservare il potere…
Egli è costretto a causa della sua natura a vessare
coloro che ha già vessato: “suggere sangue” sempre agli stessi… (immagine del
lupo nella Repubblica di Platone).
Egli ha bisogno di procurarsi l’immagine dell’uomo
di successo, del favorito degli dèi: sono importanti ad esempio i successi militari e
sportivi. Egli cerca di ottenere il massimo potere, quello sacrale…
TRENTUNESIMO PENSIERO (DALLA DEMOCRAZIA ALLA TIRANNIDE)
Perché
- mi vien fatto di pensare - invece di condannarne i nemici vedendone dovunque,
non porsi domande sulla democrazia? Riconsiderandone anche i miti come
facili miti? O se si preferisce miti illusori?
E
la domanda potrebbe essere la seguente: vi è qualcosa nelle democrazie che è
contro il loro dover-essere? Perché avrebbero avuto ragione quei politologi ante
litteram della Grecia antica che teorizzando la ciclicità dei regimi
politici ponevano la tirannide al séguito della democrazia? forse che ne
avevano riscontrata o intuita la forte prossimità?
TRENTADUESIMO PENSIERO (LA TIRANNIDE FINANZIARIA)
La
tirannide finanziaria è in certa quale produzione del debito (nei fatti magari crescente) ma più
essenzialmente di debitori; essa risulta essere in questo la manipolazione della vita umana
mediante lo strumento denaro quale strumento finanziario, con la conseguente
produzione di fasce sociali di povertà.
Detta tirannide non risponde a una forma specifica di Stato e anzi può essere, come provato
dagli attuali accadimenti d’Europa, che essa per realizzarsi appieno abbia
bisogno di una limitazione della cosiddetta “sovranità”, del popolo-Stato, cui vengono sottratte libertà e autonomia, cioè i valori tipicamente risorgimentali.
Nello
specifico, l’attuale condizione europea è tale per cui gli stati debbono
mettere in opera politiche finanziarie e di "riforma" che vanno a urtare, cercando di annullarle,
contro le conquiste ottenute storicamente dalla civiltà giuridica, segnatamente quelle scritte nelle moderne
costituzioni formali.
TRENTATREESIMO PENSIERO (SIGNORI E TIRANNI)
Insomma: con la parola “tirannide” si può indicare
o una forma di Stato o di governo specifica, con certe caratteristiche che la
rendano diversa sia dalla oligarchia sia dalla democrazia sia dalla timocrazia (ed
è quanto fa ad esempio Platone), oppure un indirizzo politico da condannare
moralmente a causa di una serie di eccessi o abusi del potere, che qualunque governo
può commettere a danno dei governati, ovvero delle classi sociali che non
governano direttamente…
Ma, appunto, i tempi sono ben cambiati, rispetto
al tempo in cui “tyrannos” era sinonimo di “signore”…
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