mercoledì 22 maggio 2013

Ricchezza e peccato (breve commento della lettera enciclica "Caritas in veritate")




papa Paolo VI
Come si pone - me lo chiedo avendo letto su una fra le più serie, più specialistiche riviste italiane di diritto del lavoro un articolo sulla Caritas in veritate - la dottrina sociale cattolica di fronte alla “crisi” economica mondiale che stiamo vivendo, dopo che già papa Paolo VI, nella Populorum progressio, aveva compreso chiaramente “come la questione sociale fosse diventata mondiale” (Caritas, n. 13)?
Sostenendo innanzi tutto, a proposito del problema del bene e del male (e di qui è il caso di domandarsi perché per la Chiesa Romana ma appunto mondiale l’economia sia importante, proprio al di là del fatto che lo sia per tutti), che “all’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato (e … se non è il peccato originale allora il concetto è chiaro), si è aggiunto ormai da molto tempo quello dell’economia” (ivi, n. 34); o affermando che la legge della produzione per la produzione, ovvero del profitto fine a sé stesso, noncurante verso chi ne venga a soffrire - sino all’inedia, sino alla morte o sino all’omicidio -, danneggia la ricchezza stessa, intesa come “bene comune” o grandezza globale. Che cioè per il medesimo principio l’eccessiva produzione di ricchezza a vantaggio di taluni così induce fenomeni di spreco ed elide la ricchezza stessa, come causa nuova povertà e accresce il divario fra ricchi e poveri; ma provocando per la nostra sensibilità attuale danni a livello mondiale, al di là del concetto stesso di classe sociale; non potendo più per una nuova coscienza il giudizio essere contenuto entro confini predefiniti per essere divenuta la Terra nella sua totalità e la sua condizione generale come risultato, strumento valutativo della natura delle cose. Che dunque qualsiasi trend di sviluppo e qualsiasi scelta politica in economia - e di qui l’esortazione ai politici e l’auspicio di un’autorità mondiale che se ne occupi - incide necessariamente sulla morale, che non è più la semplice morale separata, e la cosa ha assunto una drammaticità tale per cui è imperativo ora civilizzare l’economia dando un’etica ad essa e leggendola molto in chiave di rapporti di lavoro.

Il pudore della pena






L'epoca dei Lumières, nel maturare dei suoi effetti, segna il tramonto delle pene afflittive e meglio: lo spiega. 
Il corpo cessa di essere l'oggetto principale dell'esecuzione penale la quale è sottratta alla condizione di pubblico spettacolo: la pena - scrive Foucault - "lascia il campo della [di una - per noi oggi; ma allora? - orribile, terrificante] percezione quotidiana, per entrare in quello [più mite, più ... umano] della coscienza astratta". Ora, se questo è vero, allora bisognerà spiegarsi il senso di un'"astrazione". 
Il mutamento racchiude in sé motivazioni "politiche": già nel cinquecento, come lamentato dal noto criminalista de Damhoudère (il quale in questo veniva ad anticipare il Beccaria), i pubblici supplizi non fornivano una buona immagine della giustizia penale, la quale in nome della sovranità commetteva nei rituali dell'esecuzione crimini più atroci di quelli che puniva. 
Culturalmente, v'erano allora le premesse per l'abbattimento di qualcosa di primigenio della giustizia penale (: “non di rado la punizione dà agli esecutori l'opportunità di commettere a loro volta, sotto il manto giustificativo dell'espiazione, la stessa azione sacrilega": Freud, Totem e tabù); ma è proprio qui il punto... 
La distruttività punitiva insomma - ancora troppo vicina all'antichità, anch’essa per noi “inumana” ma allora “giuridica”, mettiamo, della crucifixio o della ossis fractio, o del culleus (il sacco, o analogo contenitore, nel quale era cucito il corpo del reo ancora in vita) dei parricidi - non valeva a "educare".  
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Cesare Beccaria