sabato 25 maggio 2013

Paradosso jeffersoniano

 


«Se fossi chiamato a decidere, se il popolo preferisse essere escluso dal dipartimento legislativo o giudiziario, direi che sarebbe meglio escluderlo dal legislativo. L’applicazione delle leggi è più importante del crearle». Verità sottile e certamente politica, almeno dal punto di vista di chi, come me, crede che Dio solo faccia le vere leggi. 
Thomas Jefferson annotava questo pensiero - e direi di andare oltre la pur significativa idea della giuria popolare - sulla base della fiducia quasi cieca che egli nutriva in due principi di ordine politico e istituzionale: (a) la divisione del potere, per competenza («[…] il modo di avere un buon governo non sta nell’affidarlo a uno solo, ma nel dividerlo tra i molti, distribuendo a ognuno esattamente le funzioni ch’è più adatto a ricoprire»), spinta sino alla «amministrazione della propria fattoria» (posta dunque in chiave di capillare distribuzione social-territoriale) e (b) la partecipazione popolare, diffusa quanto più possibile, alla conduzione del governo («L’influenza sul governo deve essere divisa fra tutto il popolo»; «E ditemi […] se la pace sia meglio tutelata dando energia e forza al governo o notizie e istruzioni al popolo. Quest’ultima è la più sicura e più legittima macchina del governo»), ovvero l’assegnazione al popolo, quale organo, del miglior ruolo costituzionale possibile. Sino appunto a scivolare nel paradosso.
Le parole del celebre e controverso statista americano, essenzialmente quel «L’applicazione delle leggi è più importante del crearle», sono in linea con l’ideologia giuridica dei paesi di Common Law, incline a preferire - non però in un modo assoluto, non cioè tralasciando il valore del cosiddetto Statute Law - il giudice al legislatore; ma in questo dato per così dire pacifico io credo di poter leggere anche una nota in qualche modo sorprendente.