lunedì 28 gennaio 2013

La cultura della "preunità" (ieri, oggi, ...)





Il Risorgimento italiano appare sempre più come un testo, che chiede di essere "decostruito" poiché vi si presta. Discuterne di questi tempi induce a credere che si possa ridurre allo stato di dogma indimostrato quanto si è voluto celebrare come certezza in occasione del centocinquantenario dell’Unità. Che è, beninteso, ricorrenza tutt’altro che da dimenticare, pur essendosi dimostrata la sua memoria riducibile per buona parte a spot pubblicitari; e che si presta piuttosto a riflessioni inquietanti sul tema della legittimità dello Stato “unitario” per dire anche della crudeltà della storia. 
Troppa è la documentazione successiva, troppe sono forse le ombre che si affollano, a dispetto della luminosità tramandata delle res gestae; e valga per tutti l'animo, con cui si possa immaginare un Garibaldi che, "consegnando" l’Italia a Vittorio Emanuele II - non a Teano, dove non vi fu nell'ottobre del 1860 alcun incontro; ma in una taverna a Vairano -, proferisca parole in francese. O valgano gli episodi di corruzione dei comandanti militari borbonici da parte del governo piemontese; o i tentativi diplomaticamente falliti di deportare i “briganti” (ma anche contadini e legittimisti) in terre non italiane, tentativi condannati da capi di Stato stranieri. 

È vero comunque che ciò che resta, al di là delle polemiche e di libri e “contro-libri”, è l’idea di una Italia disunita. E meglio: di culture più che duellanti; delle quali mi domando: quale l'italica? O quale, che non lasci il pensiero libero di correre alla coeva guerra di secessione americana? E tralascio qui anche la querelle, recente, sulla fortezza di Fenestrelle; anche qui: Nord contro Sud. 
Personalmente, nel mio tenore di lettura, ho seguito soprattutto due filoni - ma altri verosimilmente se ne potranno aggiungere -: l’uno, quello meridionalista, l’altro, quello cattolico-pontificio. Il primo che passa attraverso la riabilitazione del cosiddetto “brigantaggio”, rende l’immagine di un Regno delle Due Sicilie quale Stato europeo a tutti gli effetti, con una politica estera che sapeva guardare anche a Oriente, con una industria fiorente (tassi d'industrializzazione superiori a quelli del Nord) e una solida tradizione culturale, e che fa capo a una documentazione storica (emersa con toni decisi negli ultimi vent’anni) che confligge con quella tramandataci dai libri scolastici e non e - bisogna concludere a questo punto - dall’ignoranza coltivata della storia vera. 
Insomma alla cultura delle nazioni, che investe l’Europa ottocentesca, o alla idea di libertà, fa quasi da contrasto la cosiddetta “piemontesizzazione”, che è ben altro rispetto a una unificazione nazionale pensabile come idem sentire o come afflato popolare o come opera civile: abbiamo uno Stato sabaudo, con i suoi 750 milioni di lire di “buco” di bilancio e sull’orlo della bancarotta, con vocazione espansionistica, che colonizza brutalmente altri stati, che conquista annettendoseli territori fra cui un Sud industrializzato e ricco di terre e soprattutto costituito in Stato autonomo. Piemontesizzazione che non è cioè riferibile soltanto al sistema delle leggi positive, immagine resa tollerabile nel suo formalismo: un ordinamento giuridico meno evoluto e funzionale che s’impone a un altro, più evoluto e funzionale, con qualunque mezzo, complici altri stati europei. 
Le angolazioni sono diverse, tra contestazione sudista e argomentazione pontificia (quest’ultima vuole essere spirituale, religiosa e parte ‘da lontano’), anche se le convergenze sono politiche; ma mi sono reso conto, al di là di tutto, che i filoni critici del Risorgimento provengono da culture fortemente legate ai cosiddetti stati preunitari, che erano comunque stati; ma come se fossero giustificati da territorio e popolo, a causa di secoli di storia. 
Dov’è allora, mi sono detto, la nazione, che è concetto tecnico preciso e che chiede profonde radici storico-culturali che abbiano già unito invece che dividere? Che valore aveva e ha la proverbiale frase del Metternich: "La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle"? Benedetto Croce era abile, nei suoi brillanti lavori di storiografia, a tenersi su cadenze quasi giornalistiche: egli se poteva faceva il cronista elegante e colto; ma restano più questioni, in piedi, che non so se compatibili con l’idea di una nazionalità italiana. 
Certo quello dello Stato nazionale unitario è un po’ come un gioco, fatto di singolari sovrapposizioni, silenzi e fasi retoriche. È vero: nessuna unità nazionale rispetto a staterelli forse anacronistici ma un brutale assoggettamento politico armato. Ma questo basta per concludere sul tema? Perché è anche vero che non convince l’immagine di uno Stato pontificio - e altri pre-risorgimentali - di diritto naturale e cioè non nato a un certo punto dalla concentrazione economica e politica in poche mani. 
La cultura della preunità comunque sia è assai tonica, presumibilmente è destinata a crescere, a causa di un periodo storico che dura forse dagli anni novecentottanta, se non da prima, di crisi e di disagio, non solo nazionale. E anzi a tratti essa sembra costituire la parte più viva, più umana, della stessa cultura risorgimentale; sembra di più che disseppellire fatti e umanità rimossi possa contribuire a formare una cultura superiore. Ingenuo dunque domandarsi sino a dove essa possa spingersi. O si tratta anche forse di sfoghi utili? 
Croce ebbe a scrivere, a proposito della Restaurazione, che il fiume (della storia ma dell’idea di libertà) non si arresta e che non si torna indietro; e la saggezza era antica: “non ci si bagna due volte nelle acque del medesimo fiume”, ovvero: pánta rhêi hōs potamós. Ma tutto questo - mi domando - può valere un significato? 
Reinterpretare oggi il Risorgimento - riconsiderando anche le teorie federaliste dei Gioberti e dei Balbo -, avendo in mano instrumenta e cioè documenti utili che dimostrino altro o il contrario di ciò che comunemente si crede, procura uno stato di disagio e quasi di malessere; ma è pur sempre la curiosità che così avanza, in una cultura documentaristica e di vive archiviazioni. 
Tolte le icone di Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II, persa certa aria da romanzo, bisognerà domandarsi allora: che cosa resta, in verità?; che cosa comporta nel nostro caso una demitizzazione, ovvero una uscita da un comfort interpretativo? 

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