lunedì 28 gennaio 2013

La democrazia possibile





Di democrazia si deve parlare quale democrazia possibile, in costanza del principio per cui bisogna "democratizzare la democrazia" (Allegretti e altri). Qui ne tratteremo un po’ restrittivamente, facendo riferimento al solco delle istituzioni liberal-democratiche, o liberal-social-democratiche, che dir si voglia. 
Credo sotto questo profilo che una non improbabile definizione di democrazia del tipo: “partecipazione diretta e piena del popolo al governo della cosa pubblica” (démocratie participative) tanto non sia impropria quanto faccia riferimento a una impossibilità materiale relativa. E credo allo stesso tempo che stando così le cose ciò non escluda comunque che si possa parlare di sovranità; o che si possa proclamare, parimenti, che essendo tutti gli esseri umani per così dire figli di Dio, il diritto è di tutti. 

Tranne le riforme di Solone, o l’Atene di Pericle di cui Tucidide ci ha lasciato memoria, o la repubblica ginevrina, d’impronta rousseauiana, ispirata al principio dell’arengo medievale, o forse qualche comunità agraria immersa nel tempo che fu e comprensibilmente idoleggiata dalla tradizione anarchica; o la Commune di Parigi (cioè il Comune della capitale francese, resosi politicamente autonomo) del 1871, durata lo spazio di un mattino e che pure suscitò l’attenzione di Brecht e Lenin, nessuna forma di Stato - ancor prima che di governo - potrebbe menar vanto di garantire effettivamente la detta partecipazione. 
Dunque se qualcuno si alzasse domattina e affermasse di fronte a milioni di telespettatori di governare in modo veramente democratico, costui dovrebbe essere additato come un probabile impostore, appunto per la impossibilità materiale alla quale si accennava: l’aritmetica dice che più si è più è ardua una partecipazione totale e non bisognerebbe mai affermare per correttezza intellettuale l’esistenza di ciò che non esiste. In altre parole: più si è, più risulta congeniale che da una parte vi sia la folla, dall’altra un re, un capo-popolo, un leader, cui si attribuiranno ineccepibilità e poteri quasi divini; ma che sarà verosimilmente un totem (adorabile e bastonabile) piuttosto che un dio. E allora sarà difficile - appunto - discernere tra una forma di tirannide e una democrazia psicologica o della persuasione, in cui tanta parte hanno o ambiscono ad avere oggi gli ingannevoli media


Più realisticamente, potrebbe definirsi democrazia - laddove va ricordato che demos altro non fu che un’entità territoriale-amministrativa della Grecia antica - “il grado, la qualità e il modo di partecipazione della gente al governo della cosa pubblica” (e leggasi quindi anche già, per ciceroniana reminiscenza, “cosa” pubblica come denaro pubblico). Ma, per quanto detto, la democrazia “possibile” - e si parla sempre riferendosi alle istituzioni liberal-democratiche, poi sviluppatesi in un senso democratico-sociale - appare subito divisibile per due: una democrazia per così dire diretta e una per così dire indiretta, ovvero una democrazia partecipativa e una rappresentativa. Laddove però sembra che la regola, per quelli che sono i principi che la reggono, debba superare la partecipazione, la quale non può essere sempre piena ed effettiva e piuttosto dovrà essere formale, garantita, compatibile e passare attraverso filtri e modelli istituzionali. Visto che la partecipazione di tutti è materialmente impossibile - ma a ben riflettere lo era già nell’arengo, se è vero che vi partecipavano in modo rappresentativo i soli capi-famiglia -, allora essa deve tradursi in macchina o procedimento, e rappresentativi e d’intervento diretto. In primis, per ciò che attiene alla storia della rappresentanza, attraverso i parlamenti - poi tradottisi in (un) Parlamento -, adibiti a séguito di convocazione ad esprimere i doléances popolari e meglio  corporativi; ma parimenti quella sorta di “assemblee di castello” di feudale memoria, nelle quali il feudatario, il “signore”, usava chiamare periodicamente - con banchetti e feste - la popolazione locale a raccolta per prendere poi accordi di spesa (come dire?: convenire, in termini di oneri di contabilità) con i rappresentanti di quella (una politica per così dire territoriale, quegli istituti territoriali che mutatis mutandis la Rivoluzione francese avrebbe poi riuniti in uno ed elevati al rango nazionale). Impossibile dunque - suggerisce la storia, non solamente moderna - non installare rappresentanza, organi rappresentativi, a cominciare dai territori, per mandare avanti e rendere accettabile l’azione politica e di amministrazione da parte dell’autorità. Laddove si può ben comprendere come la rappresentanza sia per lo più strumento quasi-naturale, umano, molto umano, di gestione del potere politico-economico e per questo non faccia da sola, in termini democratici, piena garanzia. 
Oltre dunque di sana rappresentanza si deve parlare, con riferimento alla configurazione democratica, di equilibrio e di divisione dei poteri. Laddove quindi si fosse venuto definendo un potere legislativo autonomo rispetto a un potere esecutivo autoritario e troppo rappresentativo per essere lontano dalla gente, per venire a certi imperativi, l’uno avrebbe dovuto garantire (nominandone i membri e controllandoli, come mostra ad esempio la storia dell’impeachment) per l’altro, il quale quindi a sua volta per il nostro tema dovrebbe essere in qualche modo correlato col regime elettivo e non imposto dall’alto, con la forza. 
Quelli che oggi si definirebbero conflitti fra i poteri dello Stato (esemplare è sotto questo profilo ancora e sempre la storia inglese) avrebbero condotto a un Parlamento legislatore e se dovunque sarebbero state le spinte di nuove classi emergenti, più produttive e nemiche delle economie parassitarie e dei vecchi privilegi, a far sì che le cose volgessero a favore del legislativo, le diverse modalità culturali, di Common Law e di Civil Law (lì è il giudice che fa la legge, qui il legislatore è “onnipotente” ma è spesso ancora il giudice che necessariamente fa la legge) non possono oscurare il fatto che solo in questo modo il “popolo” avrebbe avuto le sue chances istituzionali e che la sovranità dovesse andare al Parlamento, tanto quanto ma di più che al popolo, colto per così dire nella sua immediatezza o spontaneità e in questo nel suo vacuum
Così, dentro la distinzione fra democrazia e rappresentanza, si insinua quella fra popolo e Parlamento, come fra gente e popolo, persone e popolo: nella migliore delle ipotesi la gente è gente (sono io, sei tu, è quel nostro amico, ecc.) sino in regimi “egualitari”; ma il popolo è e non è la gente come lo è e non un ministro del re o il monarca stesso; è e non è un’associazione non riconosciuta; e alla fine esso - lo direi un postulato assai comprensibile del diritto costituzionale - si configura, in contrapposizione con qualsiasi dottrina vitalistica e irresponsabile, come un organo costituzionale dello Stato, da coordinare ed equilibrare per norma rispetto agli altri organi dello Stato. Al quale possono ma anche debbono - sempre in termini liberal-democratici o democratico-sociali - essere assegnate diverse mansioni, cioè vari tipi di presenza nella fortuna della res publica: quella elettorale, a tutti i livelli, quella referendaria, quella di petizione (su cui scrisse un saggio assai stimolante Carl Schmitt) o di iniziativa in generale. Venendosi a introdurre “forme e limiti” (come recita la nostra Carta nel comma 2 dell’art. 1), e necessariamente la distinzione - cui appunto si accennava -: fra istituti di democrazia diretta e istituti di democrazia indiretta. Senza stravolgere il senso delle cose dicendo “diretto” ciò che è “indiretto” e viceversa; e senza coltivare perplessità decostruttive - ma bisognerebbe dire: dovendosi anche riflettere più e meglio sulle cose - sul cosiddetto “divieto di mandato imperativo”, regola costituzionale (per noi dettata dall’art. 67 cost.), ereditata dalla Rivoluzione francese, per cui i parlamentari, una volta eletti ed insediati, vengono a rappresentare la Nazione nella sua interezza - non questo o quell’interesse particolare o personale, non interessi di partito e di parte - e la loro azione per essere istituzionale dev’essere “libera”, non condizionata da vincolo di mandato da parte degli elettori. 
Bisogna dire, prendendo anche spunto da questo dato ma più in generale considerando il fenomeno giuridico: il popolo come gente, o uti singuli, è soggetto giuridico, artefice, promotore di azione civile oltre che penale; dunque popolare è il necessario riverbero del produrre diritto scritto, positivo, sul quale bisogna saper vegliare, perché è nella tecnica legislativa, nella normogenesi, che si dice dell’azionamento delle “pretese” di giustizia, sostanzialmente popolari (giustizia e democrazia risiedono nel procedimento, sosteneva qualche giorno fa un nostro giudice) e che s’insinuano il gioco e l’inganno.

Bisogna insomma sempre leggere le leggi, laddove il modo di farle - mettiamo con decretazione, o mescolando nel medesimo atto contenuti eterogenei - non può non essere indice di non democraticità, nemmeno solo formale, perché comunque si vengono a produrre, nel legificare - sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello del processo - norme d’impoverimento per taluni, d’indebito arricchimento per altri; il che è contrario, per chi lo riconosca, al principio di eguaglianza e alla stessa sovranità popolare. 
Quando si parla dunque di democrazia bisogna accettare gl’insegnamenti del diritto nella sua evoluzione (la cosiddetta “civiltà del diritto”) fra cui importantissimi ma non soli quelli del diritto costituzionale: parlarne al di fuori o contro, ponendo in essere trucchi di normazione o facendosi beffe dei valori giuridici consolidati e comunque liberando verbis l’animo della superstiziosa gente dalla “frustrazione” delle regole, potrebbe risultare condotta colpevole e irresponsabile. Perché in base al principio d’impossibilità materiale del quale si diceva e parimenti a quello di autorità, spesso volentieri e più o meno nascostamente supportato dalla morale politico-religiosa, la democrazia è qualcosa che se pone delle limitazioni o a livello istituzionale equilibri e contrappesi fra poteri, è perché va costruito con la buona volontà, con principi per così dire di ordine “kantiano” e cioè di un diritto-giustizia ragionevole e universalmente condivisibile (fiore all’occhiello se vogliamo della cosiddetta “ragion pratica”), con comunanza ed effettiva compartecipazione di pensiero (idem sentire de re publica). E di qui un possibile duplice corollario: che l’efficacia e “mascolinità” dell’agire politico (“realismo”,  “pragmatismo”, “decisionismo” e quant’altro) e del pari qualsiasi asserita democrazia “verissima” o troppo diretta (cosiddetto regime “plebiscitario” e anche più o meno garantito da gruppi spontanei di sorveglianza o vigilanza) o dell’autenticità, non s’identificano necessariamente con il bene comune; anzi è alta la probabilità che siano ad esso contrari e lavorino come forze distruttive.  Perché a questo punto, se è lecito il desiderio che il bonum commune non sia violato e sia in qualche modo razionale invece che irrazionale, prudente invece che emotivo, è intuibile come da una parte si possano radunare gli uomini di buona volontà (il “bene”), dall’altra i criminali; che in realtà si possano formare, come affermato da un nostro politico contemporaneo, due partiti, per così dire sostanziali: l’uno delle persone “per bene”, l’altro dei delinquenti e malfattori, nella eventualità anche di scontri fisici. 
Dunque le istituzioni e del pari le disposizioni normative sono importantissime ma da sole esse non bastano; bisogna anche guardare nel sentimento, nella coscienza, nei bisogni e nella cultura della gente, non per trarne motivi polemici o decisioni in senso oscurantista. A questo punto si potrebbe aggiungere che si ha democrazia e considerazione per la normatività della costituzione formale laddove la maggioranza abbia rispetto per la minoranza o le minoranze, a livello sociale, economico, istituzionale; e laddove l’azione politico-istituzionale non miri ad accrescere le differenze economiche fra le classi. Che insomma per aversi democrazia si renda indispensabile una concreta tangibile morale democratica (per dire anche umana, umanitaria, solidale, ecc.) o una democrazia morale che possa e debba dare contenuto orientandoli ai valori giuridici in generale e segnatamente a quelli costituzionali. Perché persino affidarsi alle dispute di diritto costituzionale potrebbe risultare inconcludente e finanche dannoso, speculando magari su concetti oscuri, forse negativi (si pensi a quello di “costituzione materiale”, che non è della stessa qualità, della stessa pasta giuridica di quello di “costituzione formale”) in assenza di determinati requisiti morali universalmente validi (: è pernicioso direi il “troppo diritto”, a fronte di una bassa morale). E perché è errato credere che ciò che è giusto per me lo sia per tutti o di più sia veramente giusto ovvero, come diceva grosso modo Beniamino Franklin, non vi è nulla di più antidemocratico della dittatura di una maggioranza - la cui durata, aggiungo io, è comunque parabolica - su una minoranza. E non vi è certo democrazia qualora si faccia del materialismo e dei bisogni materiali o dell’edonè quasi una dottrina. 
Non vi è dubbio, per quanto sin qui detto, che la democrazia né si confà né deve confondersi con una cultura edonistica (congeniale secondo l’antico assunto platonico alla tirannide e direi imperante, oggi, nel nostro paese) né con le improvvisazioni e battute, né con i meri tecnicismi o tatticismi, né con le troppe immorali disparità sociali. Si può anche pensare: è forse importante che essa non indulga troppo al costume e alla cultura materialistici; che essa inculchi metafisica nella politica; e se essa non appartiene alla classe delle cose facili, ciò lo si dovrebbe ricollegare semplicemente a ciò che ha spinto verso la democrazia e i diritti: la questione della distribuzione dei beni, materiali e immateriali. Il diritto, per definitionem, nasce dalla disparità, dalla differenza (altrimenti perché regolare i rapporti?): esso o è chiamato a giustificarla (esemplare il diritto divino, o il diritto civile laddove esso favorisca solamente il credito) o a sanarla, a sanarne gli effetti; e quest’ultimo è tendenzialmente il diritto giusto
La questione democratica è dunque politica, è giuridica, è morale e comportamentale; ma se essa insiste sul diritto al lavoro, alla salute e in un diritto fondamentale dell’uomo a una sua dignità di uomo, di padre e di lavoratore, allora è comunque quasi essenzialmente una questione economica. Difficoltà, problematiche giuridiche, questione morale, sociale, familiare, o anche “meridionale”, ruotano tutte attorno a un centro, a un sole, che è l’economica. La potremmo dire forse economica a priori, economica trascendentale; per sottolineare come la democrazia, pur essendo un po’ come la verità secondo de Montaigne, deve sempre costituire un ideale economico concreto (mai nascondersi ad esempio dietro la pietà che non compensa l’arricchimento illecito): ne va dei diritti, della vita, oltre che della Giustizia. 
L’ideale della partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica e alle sorti della polis vuole in modo necessario e deve perseguire una distribuzione dei beni economici - materiali e immateriali - la più equa possibile; laddove, parlando genericamente, la cultura non può essere scissa dall’economia, la quale a sua volta non dovrebbe limitarsi ad essere un insieme di ricette pratiche, non essere mai del breve periodo, ecc. 
La storia costituzionale dell’occidente, quella volta in senso borghese, liberal-democratico, insegna che furono classi socio-economiche in lotta a condurre alla nascita e alle trasformazioni del diritto dello Stato, per dire: del diritto pubblico, penale, amministrativo, contabile, e in questo anche dei diritti dell’uomo e del cittadino, in quanto appunto nuovo diritto, oggettivamente inteso. Dunque da una parte l’economia produce il diritto e i diritti; ma è una strada non semplice e a un certo punto del cammino si rende ineludibile il confronto fra democrazia e tecnologia e ci sta e non che l’ottimismo à la Nelson (l’ottimismo “americano” che identifica progresso tecnico e bene, tecnica e felicità) non sia banale. 
La società di massa certo ha in grembo complicazioni, sempre ulteriori difficoltà, anche atrocità. IBM al tempo del nazionalsocialismo aveva peccato contro il sangue ebraico, forse perché la tecnologia non era vivibile dalle masse; per contro internet, che gradualmente si è un po’ installata nel cuore della gente, per non essere né la radio né la televisione, ha ad esempio emancipato le “persone”, la gente, le ha messe al riparo da certe difficoltà, sia pure nel rischio di un governo generalizzato delle macchine. E alla fine forse è quasi imperativo che si debba insistere, nel legare democrazia e tecnologia, pur conservando nel cuore i giudizi marcusiani, quali riserve morali. 
L’augurio è che il potenziamento dei mezzi di comunicazione e quella dei media come espansione del cosiddetto “quarto potere”, nel quale attraverso mettiamo internet e la cosiddetta “blogsfera”, si materializza e prende corpo la libertà di manifestazione del pensiero; che fa capo ad una economia diversa ma che è economia, rompa barriere e silenzi che potrebbero essere dannosi oggi per le sorti della Terra e possa far bene alla democrazia, producendo una dimensione partecipativa nel senso quanto meno dell’opinione, diversa da quella commisurata alla società materiale; l’effetto può essere un po’ quello di una liberazione di Kant o Franklin o Diderot, con le loro lezioni di democrazia, da quella prigione che è il tempo, o una lontana biblioteca; ma anche, in questo, quello di una “eguaglianza di rete”, in cui siano sempre aperte quanto meno le porte di una controinformazione.

L’importante è che il passato, al pari della distanza - dunque spazio-e-tempo -, nel costituirsi del presente, non aggiunga oscurità a oscurità. Ma qui è bene anche riprendere, per pensare, il nostro adagio: più si è più è ardua una partecipazione totale. Nessun programma di miglioramento può eludere questo ammonimento. 

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