Di
democrazia si deve parlare quale democrazia possibile, in costanza del principio per cui bisogna "democratizzare la democrazia" (Allegretti e altri). Qui ne tratteremo un po’ restrittivamente, facendo riferimento al solco delle
istituzioni liberal-democratiche, o liberal-social-democratiche, che dir si voglia.
Credo
sotto questo profilo che una non improbabile definizione di democrazia del tipo: “partecipazione diretta e
piena del popolo al governo della cosa pubblica” (démocratie participative) tanto non sia impropria quanto
faccia riferimento a una impossibilità materiale relativa. E credo allo stesso
tempo che stando così le cose ciò non escluda comunque che si possa parlare di sovranità; o che si possa
proclamare, parimenti, che essendo tutti gli esseri umani per così dire figli di Dio, il diritto è di
tutti.
Tranne le riforme di Solone, o l’Atene di Pericle di cui Tucidide ci ha lasciato memoria, o la repubblica
ginevrina, d’impronta rousseauiana, ispirata al principio dell’arengo
medievale, o forse qualche comunità agraria immersa nel tempo che fu e comprensibilmente idoleggiata dalla tradizione
anarchica; o la Commune di
Parigi (cioè il Comune della capitale francese, resosi politicamente autonomo)
del 1871, durata lo spazio di un mattino e che pure suscitò l’attenzione di
Brecht e Lenin, nessuna forma di Stato - ancor prima che di governo - potrebbe
menar vanto di garantire effettivamente la detta partecipazione.
Dunque se
qualcuno si alzasse domattina e affermasse di fronte a milioni di
telespettatori di governare in modo veramente democratico, costui dovrebbe
essere additato come un probabile impostore, appunto per la impossibilità materiale alla
quale si accennava: l’aritmetica dice che più si è più è ardua una partecipazione
totale e non bisognerebbe mai affermare per correttezza intellettuale
l’esistenza di ciò che non esiste. In altre parole: più si è, più risulta
congeniale che da una parte vi sia la folla, dall’altra un re, un capo-popolo,
un leader, cui si
attribuiranno ineccepibilità e poteri quasi divini; ma che sarà verosimilmente
un totem (adorabile e bastonabile) piuttosto che un dio. E allora sarà
difficile - appunto - discernere tra una forma di tirannide e una democrazia psicologica o della persuasione, in cui tanta
parte hanno o ambiscono ad avere oggi gli ingannevoli media.
Più
realisticamente, potrebbe definirsi democrazia - laddove va ricordato che demos altro non fu che un’entità
territoriale-amministrativa della
Grecia antica - “il grado, la qualità e il modo di partecipazione della gente
al governo della cosa pubblica” (e leggasi quindi anche già, per ciceroniana
reminiscenza, “cosa” pubblica come denaro pubblico). Ma, per quanto
detto, la democrazia “possibile” - e si parla sempre riferendosi alle istituzioni
liberal-democratiche, poi sviluppatesi in un senso democratico-sociale - appare
subito divisibile per due: una democrazia per così dire diretta e una per così
dire indiretta, ovvero una democrazia partecipativa e una rappresentativa.
Laddove però sembra che la regola, per quelli che sono i principi che la
reggono, debba superare la partecipazione, la quale non può essere sempre piena
ed effettiva e piuttosto dovrà essere formale, garantita, compatibile e passare
attraverso filtri e modelli istituzionali. Visto che la partecipazione di tutti
è materialmente impossibile - ma a ben riflettere lo era già nell’arengo, se è
vero che vi partecipavano in modo rappresentativo i soli capi-famiglia -, allora essa deve tradursi in
macchina o procedimento, e rappresentativi e d’intervento diretto. In primis, per ciò che attiene
alla storia della rappresentanza, attraverso i parlamenti - poi tradottisi in (un)
Parlamento -, adibiti a séguito di convocazione ad esprimere i doléances popolari e meglio corporativi;
ma parimenti quella sorta di “assemblee di castello” di feudale memoria, nelle
quali il feudatario, il “signore”, usava chiamare periodicamente - con
banchetti e feste - la popolazione locale a raccolta per prendere poi accordi
di spesa (come dire?: convenire, in termini di oneri di contabilità) con i
rappresentanti di quella (una politica per così dire territoriale, quegli
istituti territoriali che mutatis
mutandis la
Rivoluzione francese avrebbe poi riuniti in uno ed elevati al
rango nazionale). Impossibile dunque - suggerisce la storia, non solamente
moderna - non installare rappresentanza, organi rappresentativi, a cominciare
dai territori, per mandare avanti e rendere accettabile l’azione politica e di
amministrazione da parte dell’autorità. Laddove si può ben comprendere come la
rappresentanza sia per lo più strumento quasi-naturale, umano, molto umano, di
gestione del potere politico-economico e per questo non faccia da sola, in
termini democratici, piena garanzia.
Oltre
dunque di sana rappresentanza si deve parlare, con riferimento alla configurazione
democratica, di equilibrio e di divisione dei poteri. Laddove quindi si fosse
venuto definendo un potere legislativo autonomo rispetto a un potere esecutivo
autoritario e troppo rappresentativo per essere lontano dalla gente, per venire
a certi imperativi, l’uno avrebbe dovuto garantire (nominandone i membri e
controllandoli, come mostra ad esempio la storia dell’impeachment) per
l’altro, il quale quindi a sua volta per il nostro tema dovrebbe essere in
qualche modo correlato col regime elettivo e non imposto dall’alto, con la
forza.
Quelli
che oggi si definirebbero conflitti fra i poteri dello Stato (esemplare è sotto
questo profilo ancora e sempre la storia inglese) avrebbero condotto a un
Parlamento legislatore e se dovunque sarebbero state le spinte
di nuove classi emergenti, più produttive e nemiche delle economie parassitarie
e dei vecchi privilegi, a far sì che le cose volgessero a favore del
legislativo, le diverse modalità culturali, di Common Law e di Civil
Law (lì è il giudice che fa
la legge, qui il legislatore è “onnipotente” ma è spesso ancora il giudice che
necessariamente fa la legge) non possono oscurare il fatto che solo in questo
modo il “popolo” avrebbe avuto le sue chances istituzionali e che la sovranità
dovesse andare al Parlamento, tanto quanto ma di più che al popolo, colto per
così dire nella sua immediatezza o spontaneità e in questo nel suo vacuum.
Così,
dentro la distinzione fra democrazia e rappresentanza, si insinua quella fra
popolo e Parlamento, come fra gente e popolo, persone e popolo: nella migliore
delle ipotesi la gente è gente (sono io, sei tu, è quel nostro amico, ecc.)
sino in regimi “egualitari”; ma il popolo è e non è la gente come lo è e non un
ministro del re o il monarca stesso; è e non è un’associazione non riconosciuta;
e alla fine esso - lo direi un postulato assai comprensibile del diritto
costituzionale - si configura, in contrapposizione con qualsiasi dottrina
vitalistica e irresponsabile, come un organo costituzionale dello Stato, da
coordinare ed equilibrare per norma rispetto agli altri organi dello Stato. Al
quale possono ma anche debbono - sempre in termini liberal-democratici o
democratico-sociali - essere assegnate diverse mansioni, cioè vari tipi di
presenza nella fortuna della res
publica: quella elettorale, a tutti i livelli, quella referendaria, quella
di petizione (su cui scrisse un saggio assai stimolante Carl Schmitt) o di
iniziativa in generale. Venendosi a introdurre “forme e limiti” (come recita la
nostra Carta nel comma 2 dell’art. 1), e necessariamente la distinzione - cui
appunto si accennava -: fra istituti di democrazia diretta e istituti di
democrazia indiretta. Senza stravolgere il senso delle cose dicendo “diretto”
ciò che è “indiretto” e viceversa; e senza coltivare perplessità decostruttive
- ma bisognerebbe dire: dovendosi anche riflettere più e meglio sulle cose -
sul cosiddetto “divieto di mandato imperativo”, regola costituzionale (per noi
dettata dall’art. 67 cost.), ereditata dalla Rivoluzione francese, per cui i
parlamentari, una volta eletti ed insediati, vengono a rappresentare la
Nazione nella sua interezza - non questo o
quell’interesse particolare o personale, non interessi di partito e di parte -
e la loro azione per essere istituzionale dev’essere “libera”, non condizionata
da vincolo di mandato da parte degli elettori.
Bisogna
dire, prendendo anche spunto da questo dato ma più in generale considerando il
fenomeno giuridico: il popolo come gente, o uti
singuli, è soggetto
giuridico, artefice, promotore di azione civile oltre che penale; dunque
popolare è il necessario riverbero del produrre diritto scritto, positivo, sul
quale bisogna saper vegliare, perché è nella tecnica legislativa, nella
normogenesi, che si dice dell’azionamento delle “pretese” di giustizia,
sostanzialmente popolari (giustizia e democrazia risiedono nel procedimento,
sosteneva qualche giorno fa un nostro giudice) e che s’insinuano il gioco e
l’inganno.
Bisogna
insomma sempre leggere le
leggi, laddove il modo di farle - mettiamo con decretazione, o mescolando
nel medesimo atto contenuti eterogenei - non può non essere indice di non
democraticità, nemmeno solo formale, perché comunque si vengono a produrre, nel
legificare - sia sotto il profilo sostanziale sia sotto quello del processo -
norme d’impoverimento per taluni, d’indebito arricchimento per altri; il che è
contrario, per chi lo riconosca, al principio di eguaglianza e alla stessa
sovranità popolare.
Quando si
parla dunque di democrazia bisogna accettare gl’insegnamenti del diritto nella
sua evoluzione (la cosiddetta “civiltà del diritto”) fra cui importantissimi ma
non soli quelli del diritto costituzionale: parlarne al di fuori o contro,
ponendo in essere trucchi di normazione o facendosi beffe dei valori giuridici
consolidati e comunque liberando verbis l’animo della superstiziosa gente
dalla “frustrazione” delle regole, potrebbe risultare condotta colpevole e
irresponsabile. Perché in base al principio d’impossibilità materiale del quale
si diceva e parimenti a quello di autorità, spesso volentieri e più o meno
nascostamente supportato dalla morale politico-religiosa, la democrazia è
qualcosa che se pone delle limitazioni o a livello istituzionale equilibri e
contrappesi fra poteri, è perché va costruito con la buona volontà, con
principi per così dire di ordine “kantiano” e cioè di un diritto-giustizia
ragionevole e universalmente condivisibile (fiore all’occhiello se vogliamo
della cosiddetta “ragion pratica”), con comunanza ed effettiva
compartecipazione di pensiero (idem sentire de re publica). E di qui un
possibile duplice corollario: che l’efficacia e “mascolinità” dell’agire
politico (“realismo”, “pragmatismo”, “decisionismo” e quant’altro) e del
pari qualsiasi asserita democrazia “verissima” o troppo diretta (cosiddetto
regime “plebiscitario” e anche più o meno garantito da gruppi spontanei di
sorveglianza o vigilanza) o dell’autenticità, non s’identificano
necessariamente con il bene comune; anzi è alta la probabilità che siano ad
esso contrari e lavorino come forze distruttive. Perché a questo punto,
se è lecito il desiderio che il bonum
commune non sia violato e sia
in qualche modo razionale invece che irrazionale, prudente invece che emotivo,
è intuibile come da una parte si possano radunare gli uomini di buona volontà
(il “bene”), dall’altra i criminali; che in realtà si possano formare, come
affermato da un nostro politico contemporaneo, due partiti, per così dire
sostanziali: l’uno delle persone “per bene”, l’altro dei delinquenti e
malfattori, nella eventualità anche di scontri fisici.
Dunque le
istituzioni e del pari le disposizioni normative sono importantissime ma da
sole esse non bastano; bisogna anche guardare nel sentimento, nella coscienza,
nei bisogni e nella cultura della gente, non per trarne motivi polemici o
decisioni in senso oscurantista. A questo punto si potrebbe aggiungere che si
ha democrazia e considerazione per la normatività della costituzione formale laddove la maggioranza abbia rispetto
per la minoranza o le minoranze, a livello sociale, economico, istituzionale; e
laddove l’azione politico-istituzionale non miri ad accrescere le differenze
economiche fra le classi. Che insomma per aversi democrazia si renda
indispensabile una concreta tangibile morale democratica (per dire anche umana,
umanitaria, solidale, ecc.) o una democrazia
morale che possa e debba dare
contenuto orientandoli ai valori giuridici in generale e segnatamente a quelli
costituzionali. Perché persino affidarsi alle dispute di diritto costituzionale
potrebbe risultare inconcludente e finanche dannoso, speculando magari su
concetti oscuri, forse negativi (si pensi a quello di “costituzione materiale”,
che non è della stessa qualità, della stessa pasta giuridica di quello di
“costituzione formale”) in assenza di determinati requisiti morali
universalmente validi (: è pernicioso direi il “troppo diritto”, a fronte di
una bassa morale). E perché è errato credere che ciò che è giusto per me lo sia
per tutti o di più sia veramente giusto ovvero, come diceva grosso modo Beniamino Franklin, non vi è nulla
di più antidemocratico della dittatura di una maggioranza - la cui durata,
aggiungo io, è comunque parabolica - su una minoranza. E non vi è certo
democrazia qualora si faccia del materialismo e dei bisogni materiali o dell’edonè quasi una dottrina.
Non vi è
dubbio, per quanto sin qui detto, che la democrazia né si confà né deve
confondersi con una cultura edonistica (congeniale secondo l’antico assunto
platonico alla tirannide e direi imperante, oggi, nel nostro paese) né con le
improvvisazioni e battute, né con i meri tecnicismi o tatticismi, né con le
troppe immorali disparità sociali. Si può anche pensare: è forse importante che
essa non indulga troppo al costume e alla cultura materialistici; che essa
inculchi metafisica nella politica; e se essa non appartiene alla classe delle
cose facili, ciò lo si dovrebbe ricollegare semplicemente a ciò che ha spinto
verso la democrazia e i diritti: la questione della distribuzione dei beni,
materiali e immateriali. Il diritto, per
definitionem, nasce dalla disparità, dalla differenza (altrimenti perché
regolare i rapporti?): esso o è chiamato a giustificarla (esemplare il diritto
divino, o il diritto civile laddove esso favorisca solamente il credito) o a
sanarla, a sanarne gli effetti; e quest’ultimo è tendenzialmente il diritto giusto.
La
questione democratica è dunque politica, è giuridica, è morale e
comportamentale; ma se essa insiste sul diritto al lavoro, alla salute e in un
diritto fondamentale dell’uomo a una sua dignità di uomo, di padre e di
lavoratore, allora è comunque quasi essenzialmente una questione economica.
Difficoltà, problematiche giuridiche, questione morale, sociale, familiare, o
anche “meridionale”, ruotano tutte attorno a un centro, a un sole, che è l’economica.
La potremmo dire forse economica
a priori, economica
trascendentale; per sottolineare come la democrazia, pur essendo un po’
come la verità secondo de Montaigne, deve sempre costituire un ideale economico
concreto (mai nascondersi ad esempio dietro la pietà che non compensa
l’arricchimento illecito): ne va dei diritti, della vita, oltre che della
Giustizia.
L’ideale
della partecipazione all’amministrazione della cosa pubblica e alle sorti della polis vuole in modo necessario e deve
perseguire una distribuzione dei beni economici - materiali e immateriali - la
più equa possibile; laddove, parlando genericamente, la cultura non può essere
scissa dall’economia, la quale a sua volta non dovrebbe limitarsi ad essere un
insieme di ricette pratiche, non essere mai del breve periodo, ecc.
La storia
costituzionale dell’occidente, quella volta in senso borghese,
liberal-democratico, insegna che furono classi socio-economiche in lotta a
condurre alla nascita e alle trasformazioni del diritto dello Stato, per dire:
del diritto pubblico, penale, amministrativo, contabile, e in questo anche dei
diritti dell’uomo e del cittadino, in quanto appunto nuovo diritto, oggettivamente inteso.
Dunque da una parte l’economia produce il diritto e i diritti; ma è una strada
non semplice e a un certo punto del cammino si rende ineludibile il confronto
fra democrazia e tecnologia e ci sta e non che l’ottimismo à la Nelson (l’ottimismo
“americano” che identifica progresso tecnico e bene, tecnica e felicità) non
sia banale.
La
società di massa certo ha in grembo complicazioni, sempre ulteriori difficoltà,
anche atrocità. IBM al tempo del nazionalsocialismo aveva peccato contro il
sangue ebraico, forse perché la tecnologia non era vivibile dalle masse; per
contro internet, che
gradualmente si è un po’ installata nel cuore della gente, per non essere né la
radio né la televisione, ha ad esempio emancipato le “persone”, la gente, le ha
messe al riparo da certe difficoltà, sia pure nel rischio di un governo
generalizzato delle macchine. E alla fine forse è quasi imperativo che si debba
insistere, nel legare democrazia e tecnologia, pur conservando nel cuore i
giudizi marcusiani, quali riserve morali.
L’augurio
è che il potenziamento dei mezzi di comunicazione e quella dei media come espansione del cosiddetto “quarto
potere”, nel quale attraverso mettiamo internet e la cosiddetta “blogsfera”, si
materializza e prende corpo la libertà di manifestazione del pensiero; che fa
capo ad una economia diversa ma che è economia, rompa barriere e silenzi che
potrebbero essere dannosi oggi per le sorti della Terra e possa far bene alla
democrazia, producendo una dimensione partecipativa nel senso quanto meno
dell’opinione, diversa da quella commisurata alla società materiale; l’effetto
può essere un po’ quello di una liberazione di Kant o Franklin o Diderot, con
le loro lezioni di democrazia, da quella prigione che è il tempo, o una lontana
biblioteca; ma anche, in questo, quello di una “eguaglianza di rete”, in cui
siano sempre aperte quanto meno le porte di una controinformazione.
L’importante
è che il passato, al pari della distanza - dunque spazio-e-tempo -, nel
costituirsi del presente, non aggiunga oscurità a oscurità. Ma qui è bene anche
riprendere, per pensare,
il nostro adagio: più si è più è ardua una partecipazione totale. Nessun
programma di miglioramento può eludere questo ammonimento.
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