sabato 2 febbraio 2013

Cambiare la costituzione? Sì, no, forse; già, ma in che senso?



Poiché i clubs di polo o di canottaggio hanno superato per numero e importanza quelli di football, bisognerà mettere mano al testo della costituzione. È questo il ritratto di una ossessione modificazionista e, per conseguenza, di una "costituzione degli ossessi". Ma è semplicemente questa la questione? Perché certo si tratta di un ritratto divertito... 
Napoleone il Grande doveva avere compreso, a giudicare dalla sua azione politica, che cambiare spesso la costituzione - per ciò che attiene alla organizzazione dello Stato, ché la cosa non scalfisce la spendibilità delle dichiarazioni dei diritti - può assicurare un edificio del potere imbattibile. Ché il fine di promulgare e difendere la costituzione dai suoi nemici può valere quanto il far sì che essa difenda i cittadini dai pubblici poteri. Un disegno autoritario, una idea che in qualche modo tende a ripetersi; ma qui, dalle nostre parti, nonostante il principio sia quello e nonostante il rumor televisivo, le cose sembrano avere altro tenore. 
Da tempo si respira nelle nostre province un'aria - come dirla? - appunto di modificazionismo: ogni tanto ma sempre più spesso si sente parlare di necessarie modifiche della carta costituzionale e se i pretesti possono essere ben più gravi e drammatici e celati di quanto non lo sia la diffusione dei clubs sportivi, pur tuttavia non dev'essere importante il motivo ma qualsiasi motivo può divenirlo; e se in passato alcuni tentativi sono falliti, grazie agli Scalfaro, al popolo dei referendum e alla Consulta, gli occhi degli uomini di buona volontà debbono restare sempre bene aperti. 
Forse che s'intendono modificare della nostra Carta fondamentale le norme cosiddette “supercostituzionali”, o i principi generali? Forse che la cosa non è credibile solo perché sarebbe lo stesso che rivedere ogni 10-15 anni la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 o la Convenzione di Roma del 1950, istitutiva della Cedu? Mah!, non si può mai sapere; poiché - fermo restando che il fatto non è il diritto - le eventuali modifiche all'assetto dello Stato (come dimostra il tentativo vanificato del 2005 ma già prima l'avvenuta riforma del titolo V) verrebbero a incidere pesantemente sulle norme-principio e poiché il modificazionismo sembra essere più psicologico che civile o culturale, più strumentale, forse pretestuoso e vicino alle lobbies e ai poteri forti (quello finanziario, per tutti) che favorevole all'interesse e ai destini di una nazione. 
Comunque sia, la efficacia psicologica è entrata da tempo nel circuito del diritto pubblico. Come dire?: la biologia ha rotto gli argini e non da oggi v’è chi sostiene che il concetto di costituzione formale (e cioè il testo scritto, con i suoi contenuti e il suo grado gerarchico) non può stare da solo: vi sono le nuove consuetudini che si formano a livello sociale e che vanno a opporre a quella qualcosa come un principio di realtà. Vi è in altre parole - a voler usare siffatta nomenclatura - una cosiddetta costituzione materiale che esercita le sue pressioni e che chiede adeguamenti. Dunque, a rigor di logica, essa ha il compito di dimostrare che qualsiasi costituzione formale, a causa del fatto che vi sono sempre nuove consuetudini, è presuntivamente una legge vecchia, non al passo coi tempi; e che essa può per questa ragione essere modificata in qualsiasi momento. 
Forse allora che i limiti delle costituzioni formali altro non sono che le loro stesse difficoltà applicative, o non sono dati dal loro tenore morale, per stare al modus ratiocinandi dei costituzionalisti conservatori e parrucconi del secondo dopoguerra? O forse per il medesimo concetto ma dando ad esso una sfumatura diversa, non è che esse, quando sono state applicate, hanno mostrato i loro limiti? Tutto questo sarebbe sensato chiederselo, se non fosse più che un sospetto che le difficoltà applicative di una disposizione normativa possono ben nascondere la volontà di non applicarla, ché essa è sentita come freno o divieto a questa o quella 'conclamata' "libertà". 
È che con la crisi della giuridicità che aiuta a spiegarla, nella idea di costituzione materiale può entrare di tutto; ma resta la qualitas o la natura della cosa, in dipendenza del fatto che essa nasce in contrapposizione allo spirito delle costituzioni sociali “lunghe” del primo dopoguerra e vale a supportare la volontà di sovvertire quanto vi è di democratico e progressivo negli ordinamenti moderni, sostituendoli con regimi autoritari. 
La locuzione, costituzione materiale, è di origini "realistiche" ed è tanto suggestiva quanto giuridicamente oscura, nonostante qualche insigne giurista abbia voluto coonestarla; ma quel che è certo è che è il suo scarso tecnicismo giuridico a renderla efficace e meglio proficua per chi, come farebbe un avvocato di consumata esperienza, sappia tramutare la lacuna dell'ordinamento in norma da applicare, o sappia giostrare con le antinomie e spacci l'illegalità per giustizia mistificando lo spirito della norma. 
Si dovrebbe tornare allora, per favorire il modificazionismo, “allo statuto” - secondo il motto di Sidney Sonnino (eravamo del 1897 e preoccupava l'avanzata delle forze politiche socialista e cattolica) -,  ovvero allo spirito dello statuto albertino del 1848 che era abbastanza ottriata, che era una legge ordinaria fra le leggi ordinarie, non essendovi alcun principio gerarchico formale che complicasse le possibilità di modifica testuale, e non dedicava alla persona e al sociale quanto poi avrebbero le costituzioni "lunghe"? Credo di no - pure in presenza di un indebolimento del Legislativo -, perché i tempi sono ben diversi; o almeno voglio sperarlo. 
Invece è qualcosa del primo dopoguerra europeo ad essersi trascinato sino a noi e chi volesse riscrivere oggi la storia d’Italia non potrebbe esimersi dal dedicare più di un capitolo del suo libro al fatto che il nostro paese, soprattutto negli ultimi vent’anni, sia vissuto - per ciò che ha potuto - extra o contra constitutionem. Violando fra i tanti il principio di eguaglianza; ma non solo quello. Il non rispetto nemmeno morale delle disposizioni costituzionali ha preso il sopravvento; il fatto ha ripreso a oscillare fra il giuridicamente rilevante e l’illecito; e sono in generale cambiate le condizioni. 
In tutto questo comunque due o tre cose possono dirsi chiare: che è di contrasto alla libertà delle società di polo la posizione di quanti chiedano al giudice d’interpretare il diritto oggettivo in un modo costituzionalmente orientato; che è storicamente necessario che il giudice intraprenda la strada della politica ed è conseguente, non sorprendente, la posizione di quanti si dichiarino “partigiani della costituzione”; che è evidente come è alla costituzione, non già alle leggi ordinarie, che si lega la nuova legalità. Ché questa legalità per così dire semplice, immediata, è debole e ha avuto i suoi problemi già con il sorgere dello storicismo dei Puchta e dei Savigny. 
La crisi riguarda la giuridicità, il giuridicamente rilevante, anche se le violazioni della costituzione non annientano la costituzione; la quale è forte perché è il nemico da battere, perché è un'astratta intelligente configurazione dello Stato, formalmente assicurata e nasce con una sua rigidità. Pure resta molto da fare, per ristorare la giuridicità in crisi e non a caso leggiamo nei libri frasi del seguente tenore: “[…] almeno noi giuristi, dovremmo pretendere che la costituzione continui ad essere la regula juris da applicare: se non riusciamo a farlo, non siamo più giuristi”. Che sono parole, riassuntive, del prof. Moccia, che lasciano pensare più a ciò che accade che a ciò che dovrebbe accadere. 
Che cosa può significare dunque "cambiare la costituzione"? Indebolire lo Stato-nazione? Forse sì. E allora sarebbe qui il punto or ora espresso nella citazione: togliere giuridicità, ché non dovrebbe esser dato credere che tutto il diritto sia egualmente giuridico. Non lo è giuridico ad esempio quel diritto oggettivo che produca un popolo o una nazione di schiavi. Laddove popolo e nazione ora appaiono come due concetti assai più vicini di quanto non si creda. 

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