Che cosa è in fondo una carta “ottriata”, con la quale si scrivano
le regole dell’organizzazione politica di uno Stato e si formalizzino
concessioni in termini di diritti fatte dal re al “suo” popolo, se non un
riconoscimento istituzionale del patto
sociale, se vogliamo di rousseauiana memoria?
Sapevamo bene che lo statuto albertino del 1848 era modificabile con legge ordinaria del parlamento; ma già forse non sapevamo apprezzare a sufficienza il dato che nella Francia della restaurazione e successiva erano i royalistes a caldeggiare e difendere una siffatta condizione, poiché così una charte altro non era che una ordinanza regia fra le tante e poteva in ogni momento essere revocata dal suo artefice. Il re insomma, in regime di costituzione “flessibile”, avrebbe sempre potuto richiamare a sé i comandi, o rimangiarsi la parola data. Sennonché l’idea era entrata e le idee, si sa, hanno "mani e piedi". Già in questo i termini della questione erano chiari e nella Francia postnapoleonica lo scontro politico risultò evidente (F. Rosa, Napoli, 2012), a causa del modo di procedere di quei giudici comuni che non rinunciando a vagliare la costituzionalità delle norme e se del caso disapplicandole si ponevano in contrasto con l’indirizzo voluto dalla Cour de Cassation. Si sa poi che con la cosiddetta “monarchia di luglio”, del 1830, fu introdotto il riconoscimento del principio gerarchico delle fonti; ma nemmeno questo a quanto sembra valse a risolvere il problema; per la qual cosa si sarebbe dovuto attendere il Conseil constitutionnel della Quinta Repubblica, del 1958.
Sapevamo bene che lo statuto albertino del 1848 era modificabile con legge ordinaria del parlamento; ma già forse non sapevamo apprezzare a sufficienza il dato che nella Francia della restaurazione e successiva erano i royalistes a caldeggiare e difendere una siffatta condizione, poiché così una charte altro non era che una ordinanza regia fra le tante e poteva in ogni momento essere revocata dal suo artefice. Il re insomma, in regime di costituzione “flessibile”, avrebbe sempre potuto richiamare a sé i comandi, o rimangiarsi la parola data. Sennonché l’idea era entrata e le idee, si sa, hanno "mani e piedi". Già in questo i termini della questione erano chiari e nella Francia postnapoleonica lo scontro politico risultò evidente (F. Rosa, Napoli, 2012), a causa del modo di procedere di quei giudici comuni che non rinunciando a vagliare la costituzionalità delle norme e se del caso disapplicandole si ponevano in contrasto con l’indirizzo voluto dalla Cour de Cassation. Si sa poi che con la cosiddetta “monarchia di luglio”, del 1830, fu introdotto il riconoscimento del principio gerarchico delle fonti; ma nemmeno questo a quanto sembra valse a risolvere il problema; per la qual cosa si sarebbe dovuto attendere il Conseil constitutionnel della Quinta Repubblica, del 1958.
La storia costituzionale della Francia, a rileggerne, per quanto
mi riguarda, a qualche decennio di distanza dalla pubblicazione del ponderoso
volume di Armando Saitta, è sempre utile, per capire ed essa nel nostro caso
suggerisce subito alcune considerazioni.
Innanzitutto il controllo di costituzionalità, ciò cui negli
ordinamenti anglosassoni attiene il problema del Judicial Review of
Legislation e del quale la letteratura giuridica oggi sembra
quasi parlare più del necessario, precorre nel tempo la Rivoluzione francese -
che però ad esso dà lustro - e cioè esso non è questione che nasce nella storia
contemporanea ma prima, da quando qualcuno - lo spirito è quello - pensò a come
limitare gli eccessi dei pubblici poteri.
In secondo luogo esso non è mai stato amato: se il sentimento del contratto sociale e cioè la cultura rivoluzionaria
francese (ma ciò è accaduto anche alla tradizione costituzionale svizzera),
sensibile al mito della volontà
generale, lo rifiutò, e se più in generale “le teorie democratiche e
rousseauiane della sovranità” nonché la “reazione bonapartista non permisero
l’affermarsi di un organo politico-giurisdizionale nella storia costituzionale
francese” (M. Fioravanti, Napoli, 2012) e non a molto servirono fra gli altri i
tentativi e progetti di un Siéyes, ciò non va inteso necessariamente nel senso
che furono circostanze e condizioni sfortunate a determinare le sorti di una
idea. È invece che l’idea non era gradita né ai rivoluzionari né a Napoleone, e
come sarebbe potuta esserlo a un qualche monarca?
Se ne desume così, in terzo luogo, che l’idea di un controllo di
costituzionalità se nasce prima dell’èra contemporanea e si protrae oltre
il periodo rivoluzionario è perché affonda le sue radici nella psicologia
inestinguibile del patto sociale ed è un vegliare sugli atti del potere
politico: leggi, ordinanze o regolamenti che siano. V’è stato insomma sempre o
quasi qualcuno che ha auspicato un corp,
un jury, una Corte, un
Consiglio, un Collège des
conservateurs, che controllasse e arginasse gli atti autoritativi, e non
solo del monarca. Laddove ciò che è giuridico se non fa riferimento al diritto
positivo - al quale per l'inevitabile contrasto col diritto naturale
siamo soliti commisurare la questione - può ben farlo alle consuetudini, alla lex terrae, al patto
originario. Ovvero affonda le sue radici nella natura stessa di un rapporto,
per cui - questo è quanto io vedo, ponendomi dalla parte del diritto giusto -
ciò che è politico tende sempre sì a non cedere ma in questo a violare qualcosa
che ricade nel giuridico o a invaderne il campo; e se ammette l’idea di un
controllo sugli atti normativi lo fa alla sola condizione che ad effettuarlo
sia essa stessa, non il Giudiziario.
Dunque la radice è profonda, perché umana: ciò che è avvenuto
nell’èra contemporanea è stato uno sviluppo o una evoluzione, non una vera
nascita. O se si preferisce: se lo è stata istituzionalmente e cronologicamente,
non lo è stata filosoficamente e nella sostanza.
A quanto mi è dato comprendere, quindi, la natura della cosa vuole
che il giudizio di costituzionalità poggi sul dualismo politica-diritto, o sul
loro eterno conflitto, quale sempre emergerà nel novecento nelle previsioni
delle varie carte nazionali sino al dibattito Kelsen-Scmitt, sul custode della
costituzione. Laddove vi saranno giuristi e non solo che parleranno della
necessità di ripristinare e togliere dal suo stato di violazione il Diritto e
ve ne saranno, in questo, che tenteranno di limitare il potere della
giurisdizione. E tutto ciò sia detto anche leggendo dei numerosi progetti di
costituzione che si ebbero in Francia nel periodo rivoluzionario sino a quelli
del giacobino Séchelles e del comunista Babeuf ma anche degli altri successivi,
o delle costituzioni del primo novecento europeo, dall'austriaca alla
cecoslovacca alla tedesca di Weimar (cfr. M. Olivetti, Napoli, 2012).
In quarto luogo è evidente come il giuridico per sua natura migri
nel politico: potere costituente e potere costituito; o vi si mescoli; o come
si tratti - meglio - di una sorta di circolarità, per cui ciò che è giuridico
oggi potrà divenire antigiuridico domani.
Il dato saliente, in tutta la vicenda, è forse che il giuridico
tanto è nato prima dell’età contemporanea quanto non si è mai arreso.
Il che significa, riportandoci all'oggi: se i poteri esagerano,
chi può dire che lo facciano i giudici? e anche: chi può giudicare se il
funzionamento della macchina dello Stato competa più alla politica che non al
diritto, o viceversa? Poiché è di tale funzionamento, prima ancora che di
costituzionalità di questa o quella disposizione di legge, che si viene a
parlare, quando ci si occupa di controllo di costituzionalità.
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