Pietro Scoppola |
È oramai giunto, a mio modo di
sentire, il tempo delle castagne; dal punto di vista economico, morale,
politico e giuridico. E chi come me non è da oggi che non ha occhi per il
futuro è umano che soffra il riflusso del passato: acque nostalgiche,
sentimenti vissuti che chiedono di riemergere e anche, non disgiunte, questioni
di cultura politica giovanile, riflesso di una crisi religiosa; e fra queste
quella del cattolicismo politico, di un laicismo per così dire
perennemente incompleto, ovvero del partito cattolico in Italia.
Non so quanto il problema, nella
sua portata culturale, sia stato malposto o sottostimato (esso però si
ripresenta puntualmente, come è avvenuto in un recente forum della rivista Iustitia). So che mi sono
sorpreso a ripensare alla Democrazia cristiana dei Moro e dei Fanfani, degli
Andreotti e dei De Gasperi, al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo e
- perché non - alla prima Democrazia cristiana, forse un po’ bizzarra nella
mente del suo ideatore, don Romolo Murri. E questo per dire anche quanto fossero importanti
certi miei studi sulla storia del movimento cattolico in Italia e sui
rapporti fra Stato e Chiesa.
E prima ancora di potermi
interrogare su che cosa è veramente cattolico o cristiano - fu ad esempio
Fanfani, se non erro, a volere la formulazione che noi conosciamo dell’articolo
1 della Costituzione: L’italia è una repubblica
democratica, fondata sul lavoro -, mi sovveniva una tesi cara al compianto
prof. Scoppola: che il partito cattolico rappresentava la libertà morale e di
coscienza del cittadino dotato di sentimenti religiosi rispetto ai diktat della Chiesa
romana, l’autonomia del cattolicismo politico rispetto alla cattolicità stessa
della Chiesa; che insomma un partito nominalmente cristiano è piuttosto segno
di laicismo che non di confessionismo. Nessuna dipendenza dunque da “quelli di
là del Tevere”, nessun brachium saeculare. E questo egli sosteneva - avendo anche
pagato di persona, perché esponente autorevole dei "cattolici del
dissenso" - da storico onesto qual era, contrariamente a un’altra corrente
di pensiero, secondo la quale invece la Democrazia cristiana altro non era che
la ingerenza (intollerabile per uno Stato laico) della Chiesa nella società
politica nazionale.
Due interpretazioni a confronto,
dunque, e meglio in conflitto; e a questo punto mi sono domandato: perché non è
sempre esistito un partito cattolico, in grado di elaborare culturalmente gli
elementi di fede religiosa traducendoli in morale, volontà e azione politica, e
invece ogni tanto esce dall’oscurità e s'impone un tragicomico "uomo
della provvidenza", una maschera trionfante congeniale
alle paure semiconfessate di milioni di persone?
Ma è a questo punto che il mio
interrogarmi si è approfondito, e mi è sorto il dubbio: se l’unità d’Italia fu
fatta come fu fatta, e cioè in un modo lacerante - stati contro stati, popoli
contro popoli - e privo di quella ideologia politica nazionale che né Mazzini
né Cavour avrebbero potuto offrire, allora non è che sarebbe spettato al
cattolicismo politico creare quel cemento culturale e quegli equilibri di cui
essa aveva bisogno? È questo forse il messaggio da decrittare del non expedit?
Ed è questo che poteva voler dire anche l’Italia di Berlinguer, che faceva
capo alla idea di un cosiddetto “compromesso storico”, che evidentemente era
qualcosa di più di una strategia?
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