Agli
inizi del secolo scorso, ne Lo Stato moderno e la sua crisi, Santi
Romano, teorico indimenticabile del nostro diritto pubblico, sottolineava come
stesse crescendo storicamente (ed è il caso di sottolinearlo: nella vecchia
Europa) l’onda del fatto di contro al diritto, del sociale lato
sensu - in generale si trattava di gruppi che si costituivano al di fuori
dello Stato in assetti “corporativi” o sindacali o partitici, attorno a
interessi economici; ma, ed è qui l’invito interpretativo, non bisogna mai
perdere di vista né le complicità popolari né le spinte fornite dal vitalismo
- di contro al giuridico, non solo in quanto statuale. E anche si potrebbe
insinuare, a volerci mettere il paradosso, o l’ambivalenza: forse che era crisi
di uno Stato che non lo era mai stato abbastanza, di diritto, se si temeva che non lo sarebbe stato più come prima? Crisi
di un dover-essere prima ancora che di un essere? Guai, detto altrimenti, se
fosse venuto meno qualcosa che si sarebbe potuto rimpiangere, di quello Stato
di diritto, in chiave d’idealità.
Si trattava della
crisi dello Stato moderno, prima ancora che dello Stato liberale; incrinamento di
quella dottrina - e fede, perché non? - che si era venuta formando tra il XVI e
XVII secolo, attraverso il pensiero di Machiavelli, Bodin e Hobbes, teoria
della certezza e del monopolio dello Stato, quale soggetto (divino) della
presunzione morale del diritto.
Era sostanzialmente
comunque la fine dello Spirito assoluto hegeliano, a fronte delle condizioni
materiali economiche e sociali di vita, che sino ad allora per ammissione dello
stesso Romano erano state sottovalutate; e meglio, dal punto di vista giuridico,
la crisi consisteva in una sorta di “destatualizzazione”
delle fonti, ovvero nel fatto che lo Stato non sarebbe stato più l’unica fonte
di legittimazione e certezze - il che significava anche che sarebbero potuti
cambiare i suoi padroni. Al che la dottrina sentì il bisogno di cimentarsi in questioni
quali la instaurazione di un ordinamento giuridico, le fonti del diritto, l’ubi consistam della legittimità
costituzionale, accendendo allora un dibattito che a mio parere ha tuttora
durata.
Un
qualche timore era forse comprensibile, prima ancora che d’obbligo, nell’animo
del giurista e cattedratico palermitano; ma questo non perché fosse chiaro, al
di là delle pregevoli intuizioni, se i segnali del nuovo dovessero o non essere
interpretati in positivo, in
considerazione delle prime manifestazioni di intellettualismo vitalistico-borghese,
interventismo e delle dottrine dell’azione. L’intuizione avrebbe potuto solo
sfiorare in altre parole, pur così facendo, affermazioni del tipo: ogni diritto
è diritto applicabile a una situazione, o qualcosa come: ciò che è merita comunque di essere considerato e tradotto
giuridicamente, congeniali a un uomo come Carl Schmitt.
Passò
del tempo, vi furono due guerre mondiali e nei primi anni novecentocinquanta
Giuseppe Capograssi, che fu eccellente giurista - e fra l’altro, da fervente
rosminiano qual era, onesto lucidissimo interprete dell’ingresso del movimento
operaio nella storia - ed estimatore di Romano - il quale secondo lui «si collocava dentro il fatto» -, scrisse un saggio, intitolato Il diritto dopo la
catastrofe, nel quale s’interrogava sulla condizione e sorte e
dell’individuo e del diritto dopo appunto la seconda guerra mondiale. Ma
comprendendo bene, se non perché esattamente qualcosa d’importante potesse
essere accaduto, che certo qualcosa di tragico doveva essere avvenuto ancor
prima che vi fosse conflitto mondiale, ché di quel qualcosa la guerra e i campi
di sterminio erano il suggello, non l’effetto sorprendente.
Anche
per lui come per Romano, mutatis mutandis,
lo Stato (l’amministrazione ma non il solo apparato) e il diritto non erano più
gli stessi; nella sua valutazione essi erano divenuti strumento nelle mani di
gruppi di potere, mentre l’uomo (per dirne come di una “pura potenzialità, pura
ricettività” e anche di “masse di dirigenti e di esecutori”) era oramai l’uomo
“aderente a un totem”, essenzialmente disponibile, disposto cioè
a tutto pur di assecondare disegni di potere (e oggi si potrebbe aggiungere:
pur di uscire dall’anonimato); nonché - novità intuita non da poco -
psichicamente instabile.
La questione,
che si poneva ai primi del novecento e si sarebbe riproposta circa mezzo secolo
dopo, era - per dire che lo era per essere allo stesso tempo morale, economica,
politica, antropologica - giuridica e certe reminiscenze si spiegano,
per quanto riguarda le esperienze personali di chi scrive, come il riflesso di
una rilettura della nostra Legge fondamentale, ovvero la costituzione
repubblicana, assunta - perché emersa come tale, per reazione morale, a causa
di certi rigurgiti storici della politica, segni meglio della sua decadenza -
come forma significativa e indispensabile della legalità, e meglio
costrutto nuovo, elaborazione colta, previdente, del pensiero della legalità.
Di
più, direi, la stessa sintonizzazione del pensiero si sarebbe avuta in Mortati,
considerando però, a voler chiarire subito le cose per non confondere il bene
col male, che non tanto i sindacati o i partiti avrebbero indotto e
testimoniato la crisi dello Stato liberale, quanto i gruppi di potere, le lobbies,
per esprimerci anche elegantemente, che non possono essere posti, se non con
spirito realistico impoverito, sul medesimo piano, in quanto alla potestas
normogenetica che va oltre sé stessa, delle suddette nuove forme di
associazione.
È
chiaro come il nostro Stato, a conclusione del secondo conflitto mondiale,
abbia ritenuto, nella volontà dei costituenti, di potersi garantire un futuro
ed una speranza mettendo a punto una suprema lex, che sarebbe stata la
sua Legge per eccellenza, nella quale tradurre in diritto positivo principi
“fondamentali” quali il democratico, l’egualitario, il personalista, il
lavorista, il pacifista, l’internazionalista.
La
cosa era tale, dopo la caduta del regime fascista, per cui il moderno Stato di
diritto, o se si preferisce il moderno Stato liberale e statutario, dovendosi
rinnovare prima ancora che negare accogliendo più società in sé, tentasse di
sviluppare, quale forma del pensiero politico e giuridico, l’altra soluzione
possibile della sua crisi, quella propriamente umana, volta al sociale, necessariamente
solidarista, non quella del diritto del più forte, dei plebisciti, della macra
e cieca biologia e dei gruppi di potere; una soluzione che potesse preservare,
in quanto ad autorevolezza morale, l’ordine giuridico in quanto tale e
nobilitare la legalità, ponendo strutturalmente un argine al rischio
dell’affermazione - ed era quanto accaduto col fascismo e col nazismo; ma non
solo - di forze “cieche” che disconoscessero - salvo averne avuto bisogno a
modo loro, strumentalizzandolo - lo Stato e prima ancora il diritto, come
civiltà. Civiltà - dunque - contro barbarie, per riprendere schemi cari a
Collingwood e Huizinga: le costituzioni democratiche del secondo dopoguerra
erano rigide, essendo chiamate a resistere - nella mente mettiamo di un
Dossetti - ai loro facili cambiamenti; difendendo il lavoro, la persona umana,
l’eguaglianza, dai nemici del popolo, soprattutto mascherati, dagli
opportunisti, o dai cosiddetti “colpi di maggioranza”; ovvero, come potrebbe
dire un medico, preservando il corpo del convalescente dal rischio di ricadute.
Era
più che una impressione, a quel punto, che detto rischio potesse annidarsi da
noi nelle opinioni di quanti, in linea con certi iniziali indirizzi
interpretativi della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato,
distinguevano fra norme costituzionali “programmatiche o direttive” e norme
“precettive” e ancora, fra queste, quelle ad applicazione diretta e quelle ad
applicazione mediata, e cioè tendessero a negare, laddove ciò sembrasse
plausibile, la natura comunque normativa delle disposizioni costituzionali.
Sennonché
paradossalmente accade questo: che proprio se si postula che il nostro testo
costituzionale non è un elenco di indicazioni o di mere dichiarazioni
programmatiche ed invece corpus di norme giuridiche a tutti gli effetti,
tutte egualmente precettive, e dunque se si sostiene che vi sono una normatività
e una legalità costituzionali, allora si ammettono - ciò che non può non
preoccupare gli uomini di buona volontà - due cose in una: e che una legalità superiore
è il rimedio alla debolezza della legalità delle leggi ordinarie e del
parlamento - ed anzi più del parlamento come istituzione rappresentativa che
non dell’atto normativo, se in Italia le disposizioni di riforma costituzionale
del 1925 e del 1939 poterono facilmente incidere sullo statuto albertino -; e
che il tenore alto, etico, delle norme costituzionali, ponendo necessariamente
un dover-essere, risulti essere prima il suggello di una crisi che non la sua
soluzione. Che insomma il “normativismo”, per così dirlo, costituzionalista non
possa nascondere o debellare ed invece addirittura rafforzare il realismo
giuridico, che dice da sempre che il fatto viene prima del diritto o comunque
lo assorbe in sé.
In
altri termini: il richiamo a quanto espresso sulla crisi dello Stato moderno da
Romano e da Capograssi, considerando bene la direzione impressa alla cosa dal
filosofo e giurista cattolico abruzzese e cioè la dimensione personalista, fa
riflettere, perché il normativismo cosiddetto costituzionalista, proprio nel
dare efficacia a “principi fondamentali”, sembra quasi porre la legge, quale
super-legge, al di sopra delle teste degli uomini - laddove essa mai invero
dovrebbe stare, o mai stare troppo a lungo, o quanto meno dovrebbe saper stare
-; sembra quasi favorire una condizione generale di disagio civile laddove al
senso comune, col tempo e a causa di una cessata fiducia nei confronti
della politica e delle pubbliche istituzioni - non dell’autorità in quanto tale
e dunque della forza -, sia dato ristagnare in una crescente
desensibilizzazione giuridica, che in quanto tale non è solo tale. E sia
concesso ai fantasmi del passato, a istituti superati (confacenti allo Stato
monarchico, con la preponderanza dell’esecutivo; oppure allo Stato feudale, o dell’epoca
romana antica: princeps legibus solutus, patrimonium principis,
ecc.), di riemergere. E tanto sia concesso questo, a certi istituti,
quanto si vada imponendo un clima generale di vitalismo e/o di regressione.
In
un clima siffatto, per via del quale si è ributtati nella storia di sempre
e strappati a quello spirito storico progressivo nel quale eravamo abituati a
credere, alcuni valenti giuristi, già chiamati per munus publicum a tutelare e far rispettare l’ordine
costituzionale democratico, hanno potuto parlare di crisi della legalità
costituzionale, e meglio della centralità della costituzione; laddove,
al di là delle necessarie riflessioni sulla riforma dello Stato, la crisi di
quest’ultimo non cessa di incombere come una minaccia, una paura, quasi realtà
storica insuperabile, forse impenetrabile; e come crisi anche della cultura e
civiltà giuridica essa sembra non voler risparmiare nemmeno la legalità più
alta e nobile.
La
crisi dello Stato moderno dunque continua e - per fare qui riferimento alla
storia d’Italia - certe forze “negative” si ripresentano. Ma, non so quanto
paradossalmente, è proprio perché i termini della questione restano
sostanzialmente invariati, perché è possibile riparlare e non in termini
libreschi di patrimonium principis, che leggi “fondamentali” come la
nostra conservano la loro importanza e vanno difese, conformemente allo spirito
e ai valori che esse contengono, per non essere questi nemmeno limitati alla
giurisdizione e cultura dello Stato in quanto Stato. Laddove - beninteso -
bisogna scindere l’illegalità, da sempre esistente, l’onda del fatto in quanto
fatto, pur pressante, dalla necessaria riforma dell’ordinamento; proprio in
considerazione del principio per cui qualunque trasformazione della società è
anche normazione e dell’altro, per cui la norma giuridica è chiamata essenzialmente
a sanzionare comportamenti dannosi per una intera comunità.
Non
può essere ritenuto quindi razionalmente vincente, per spiegare sentimenti e
reazioni in senso antigiuridico, e non può distogliere dal bene, il fatto che
da anni l’abuso del diritto, cioè il suo esercizio non più responsabile, il
legarvi pretese eccessive, dannose per gli altri, abbia preso il posto del
diritto.
La
questione è dunque giuridica, dicevamo; ma essa è anche molto italiana.
Forse però, a questo punto, nulla è sorprendente: non è la prima volta - e il
pensiero va al primo dopoguerra - che il nostro Paese si offre come laboratorio
politico, forse d’Europa, forse di nazioni che vogliono dominare; anche se il
modello ripresentandosi non può avere la medesima valenza: la storia così se un
po’ si ripete, lo fa in condizioni che rendono impossibile la ripetizione, e la
seconda volta si tratta di una farsa. Nessuna ripetizione, perché vi sono forze, vi è una coscienza - vi
è di più una costituzione scritta alla quale esse si appellano e vanno
ricollegate -, che hanno dato negli anni prova di sé e che non consentono che
vi sia tragedia.
Vi
sono in Italia quanto meno due culture, che configgono, profondamente, l’una
irriducibile all’altra. Ve ne è una - alla quale alle volte ci sentiamo di
dover plaudire - che crede, non certo da oggi ma ab antiquo, che il
diritto sia directum e cioè diretto, volto a Dio (W. Cesarini Sforza), o
se si preferisce posto nel pensiero, nell’animo e nella volontà degli uomini,
per migliorare la condizione materiale e morale; la quale difende strenuamente
la inviolabilità della persona umana, morale e fisica, chiede rispetto per la
sua dignità anche all’autorità costituita, finanche democraticamente eletta;
laddove la persona è qualunque uomo, prima ancora che il cittadino, che tanto
ha diritto alla vita quanto alla vita pubblica quanto al lavoro.
E vi
è di contro una cultura, che tutto orienta in chiave pragmatica, di successo,
di pubblico clamore, di spettacolarità, all’affermazione di interessi
personali, economici (e cioè dell’uomo sull’uomo) e di potere. Essa si presenta
come malamente biologica, malamente tecnologica, malamente giuridica e
politica, e tutto sembra alla fine esservi maldigerito; essa si appella, per
ciò che il sistema consente, al responso elettorale, ma come pretesto, o come fosse
consenso plebiscitario; pensa la legge come ius singulare, non come lex
generalis; non sa elaborare concettualmente il diritto in termini
universali; scambia volentieri la libertà del liberalismo con la
depenalizzazione; teorizzando immancabilmente una democrazia apparente.
In
questo di più essa si trova a riprendere un cammino, quello, iniziato nel primo
dopoguerra, della soluzione di forza alla crisi dello Stato moderno; con stile
diverso, con le gambe delle ragazze invece delle camice nere, con edonismo
prima ancora che con militarismo; con decisionismo ma con zero idealismo;
interpretando lo Stato come strumento e come business, la legge come
strumento e come impedimento, la cultura - giuridica e non - come impedimento,
fastidio, rispetto alla propria affermazione.
Tutto
questo può riassumere e spiegare, per grandi linee, l’autorevolezza e
l’attualità dei nostri due giuristi. Chi in un modo, chi in altro, essi si sono
resi interpreti di un mondo occidentale che non solo era cambiato ma che
continuava a farlo ed ancora sarebbe cambiato; se non nello stesso senso,
certo, come condizione ambivalente e critica nella medesima profonda direzione
storica.
La
crisi dello Stato moderno è il segnale lanciato da Santi Romano e se non solo
circa cinquant’anni dopo ma a tutt’oggi essa può essere ancora tematizzata,
allora la crisi è nel suo pieno svolgimento; ma se questo è vero, allora torna
facile comprendere come la soluzione dettata dai nostri costituenti sia parte
di quella crisi, il cui corso può dirsi incompleto e che sembra trascendere la
tentazione per così dire cronometrica degli storici e dell’uomo comune.
Da
una parte la soluzione è più ardua di quanto non si creda; ma dall’altra se
sono la civiltà giuridica, l’ordinamento giuridico, le costituzioni, ciò che
viene tirato in ballo, allora la soluzione dovrà passare necessariamente
attraverso il diritto, il diritto pubblico, quello oltre-nazionale, le buone
leggi, la sana intelligente interpretazione. Ma in questo sarà il sociale
stesso, ovvero saranno i cittadini, a dover reagire, magari praticando la
filosofia politica e giuridica del territorio, e/o della vigilanza, agendo
affinché possa dissolversi quel disagio della civiltà, di freudiana
memoria, che da tempo sembra essersi reinstallato - lo prova, credo, proprio il
troppo occidentalismo - nel modo di essere occidentale.
(rielaborazione
da Europa Giovani dell’8 aprile 2009)
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