Il guscio d’uovo dello Stato si è rotto e la
società, messa la parola fine al dualismo della differenza Stato-società - ma alludo alla società pluralista e disomogenea - è potuta entrare nello Stato. È da tempo - se vogliamo - che
avviene quella «invasione della costruzione statale da parte delle lotte
sociali tra interessi» segnalata da Gneist nel suo Die nationale Rechtsidee. Ma forse il problema è di sempre.
Siamo, per le citazioni, alla prima metà del novecento e lo Stato di cui si viene a parlare è il moderno Stato legislativo, succeduto a quello liberale ottocentesco; ma non solo e ancor prima a quello medievale, basato sul primato della giurisdizione e a quello burocratico e militare, ovvero dell’esecutivo, identificabile con le monarchie cosiddette "assolute".
Siamo, per le citazioni, alla prima metà del novecento e lo Stato di cui si viene a parlare è il moderno Stato legislativo, succeduto a quello liberale ottocentesco; ma non solo e ancor prima a quello medievale, basato sul primato della giurisdizione e a quello burocratico e militare, ovvero dell’esecutivo, identificabile con le monarchie cosiddette "assolute".
A quanto mi è dato comprendere dalla mia
personale lettura de Il custode della
costituzione, lo Stato legislativo, per un giurista come Schmitt - che
aborre lo Stato giurisdizionale e la «prassi americana del controllo
giudiziario della legge»[1] - è uno Stato comunque
sociale e dunque coinvolto, ché esso
non può essere nei fatti ancor prima che nelle intenzioni indifferente a ciò
che accade.
Carl Schmitt |
Addirittura tale Stato può essere considerato
come l’autorganizzazione della società;
di modo che sarà difficile alla fine distinguere fra gli interessi statuali e
istituzionali e quelli dei gruppi sociali organizzati e/o associati, preferibilmente
in forme partitiche; ciascuno avente una sua idea di legalità («pluralismo dei
concetti di legalità, che distrugge il rispetto per la costituzione, e
trasforma il campo della costituzione in un terreno insicuro e conteso da più
lati»)[2]; ciascuno che vorrà
entrare nello Stato.
Va subito detto che la diagnosi del giurista
tedesco non può non essere accostata nella sostanza a quella espressa da Santi
Romano sulla crisi dello Stato moderno e che l’attualità del giurista palermitano
viene anche scandita in qualche modo dalla drammaticità che sottende il
pensiero politico di Schmitt, la cui problematicità riterrei tuttora viva e
aperta, al di là delle soluzioni proposte.
Oggetto dell’indagine schmittiana è dunque lo
Stato legislativo, che è divenuto nei
fatti Stato economico (dell’intervento
nella economia e nel lavoro, della previdenza, ecc.) e appunto Stato dei partiti. Da quel libro si trae l’indicazione
che certi aspetti del Parteienstaat
siano strutturali o quanto meno ricorsivi, dunque né aggiunti né eventuali; e
la questione: se lo Stato di
giurisdizione sia votato alla impossibilità assoluta di un suo ripristino risulta
sacrificata all’altra: se lo Stato legislativo sia inscindibile da quello dei
partiti.
Come è più che intuibile, per l’illustre autore
tedesco lo Stato legislativo dei partiti - pluralista e meglio policratico - emette una cattiva luce, perché
esso è lo Stato dei governi delle deboli alleanze, dei pacta sunt servanda, il «labile Stato di partiti di coalizione»[3].
Dal canto loro i partiti politici (per dire
con essi ogni forma associativa che vada a pesare sulle decisioni e indirizzi
di politica economica) non sono quelli liberi, poco consolidati e burocratizzati
dell’ottocento liberale ma ben altro: essi debbono avere - secondo la
definizione fornita da una sentenza del 7 luglio 1928 della Corte
costituzionale del Reich, ricordata da Schmitt - una consistenza organizzativa
e di clienti, ovverosia debbono vantare, per essere considerati partiti a tutti
gli effetti, un riscontro elettorale rilevante[4]. Essi in altre parole debbono
poter racchiudere «interamente i loro uomini fin dalla giovinezza» e aspirare «alla
totalità»[5]. Siamo insomma non già ai clubs ma ai partiti di massa.
Che Schmitt abbia colto aspetti essenziali
della questione «Stato dei partiti» è provato dal fatto che è verità palpabile
oggigiorno che quelli sono indice di uno Stato astrattamente, banalmente sociale
e non più tanto onestamente economico-finanziario; e che la prova ne sia
fornita dal fatto che seggano in Parlamento o rivestano il ruolo di ministri, esponenti
di gruppi finanziari o portatori di forti interessi. Ovvero: i partiti tuttora,
pur messi in discussione e scesi di popolarità a causa delle molte rivelazioni su
delitti contro la pubblica amministrazione, sono ritenuti i migliori veicoli degli
interessi e forze sociali, essenzialmente economici. Ed essi in tal senso
ricevono i finanziamenti privati, che risultato molto influenti e che una
formula democratica vuole che siano apertamente documentati e resi manifesti.
Tale è il potere dei partiti - osserva
acutamente a un certo punto Schmitt - che essi decidono più di quanto non possa
o non faccia la differenza fra monarchia e repubblica. Essi vincono cioè la
distinzione tra forme di Stato[6] (un postulato pur forte
del nostro diritto costituzionale), come prova fra l’altro la cosiddetta solidarité parlementaire, aspetto anche
questo estremamente attuale, se si pensa a certe fondazioni, che fungono da
bacini di raccolta delle somme “liberamente” erogate da parte di gruppi e
imprese a sostegno di singoli politici: «gli interessi privati egoistici comuni
dei deputati parlamentari […] passano al di sopra dei confini di partito»[7].
Dunque il Parteienstaat
in quanto Stato è debole, instabile, compromissorio (profilo della formazione
dei governi) ma nello stesso tempo vi è in esso qualcosa (i partiti, appunto)
dotato di forti radici, sociali ed economiche, in grado d’influire sulla politica.
L’immagine è quella di uno squilibrio, o di qualcosa d’innaturale. Sembra quasi
una morsa; ma come liberarsene? Ritagliando forse (progressivamente) all’interno
della burocrazia dello Stato figure di autorità indipendenti?
È difficilissimo - osserva Schmitt - configurare
uno «Stato politicamente neutrale nei confronti dei partiti»[8], o uno «Stato neutrale
degli esperti e degli specialisti»[9]; laddove creare figure di
burocrati indipendenti riconduce all’autorità cui vada riconosciuto il potere
di nomina. E si dovrà convenire comunque alla fine su una impossibile depolitizzazione[10].
Pure, ma proprio anche per ciò allo stesso
tempo, a livello costituzionale - essendo dichiarati dall’autore tedesco i partiti
avversari dell’ordine costituzionale - si chiede un’autorità indipendente da essi,
che tanto derivi la sua autorità dal popolo in modo diretto quanto abbia poteri
di nomina e di decretazione.
Il bisogno di arginare l’influsso negativo d’indebolimento
prodotto dai partiti sulla costituzione dello Stato induce a cercare - ma oramai su una strada aliena al principio di rappresentanza - un’autorità che salvi la costituzione (un custode),
e questa autorità nella mente di Schmitt non può essere né una corte
costituzionale né altro organo di giurisdizione; ma il presidente del Reich,
eletto direttamente dal popolo.
Dunque l’idea è quella di uno Stato
legislativo basato non sic et simpliciter
sulle leggi ordinarie formali e invece molto sui decreti presidenziali, sul popolo
che acclama (percussio scutorum) e
sul suo acclamato presidente, o capo.
Ma per fare ciò si passa necessariamente - e
Schmitt lo insegna non so con quanta profondità e limpidezza di coscienza - attraverso
la relegazione del giudice nell’angolo reso un po’ buio dell’applicazione della
legge. Ammesso però che il potere del Giudizio appartenga al passato, non per
questo credo che applicazione della legge equivalga a subordinazione alla stessa
per dire al legislatore e invece alla salvaguardia della legalità e giustizia. Vi
sono interpretazione e garanzia per il diritto che non sono riducibili a
politica, che sono meno arbitrarie della politica, e vi è la legge del caso
concreto ovvero la definizione della regola del caso singolo, che ha una sua natura
e singolarità. E qui vi è una venatura inquietante: come e facendo che cosa il
decreto presidenziale può sostituirsi non semplicemente alla legge del
parlamento (il che significa trasformazione della funzione legislativa) ma al giudice (perché questo, al di là della retorica, è il chiaro
indirizzo)?
E al fondo di questi interrogativi ve n’è
uno, preponderante: di quale costituzione il presidente è chiamato a essere il
custode? Forse che quella di Weimar è anche un po’ un pretesto?
Schmitt, ma essenzialmente perché ponendosi
il problema ne dimostra da par suo la consistenza, risponde in un modo parziale
e insoddisfacente a una mia recente curiosità, nata dalla osservazione: come è
possibile che un’associazione non riconosciuta
quale il partito o il sindacato, giunga ad avere tanto peso costituzionale in
una realtà politica nazionale? In fondo è solo
un’associazione non riconosciuta e più forte di essa dovrebbe essere quell’ordine
giuridico che la prevede.
Evidentemente, anche guardando le questioni secondo
un principio di purezza, sono la natura e lo scopo del soggetto giuridico ciò
che conta ed è quella realtà, irriducibile proprio perché regolata giuridicamente,
che alla fine rischia d’imporsi. Se le associazioni sono importanti è perché la
società è importante.
Dunque non perché il diritto sia privato esso è necessariamente
subordinato a quello pubblico; e così, prima ancora che da noi si considerasse definitivamente
risolto il problema della posizione delle disposizioni
preliminari del codice civile nella gerarchia delle fonti, si è imposta
l’idea di evoluzione in senso pluralistico delle fonti del diritto e di crisi
del principio gerarchico.
Ma il problema delle fonti non sarebbe forse stato
destinato all’astrattezza, se non fosse stato per il ruolo e l’attività del giudice, laddove
l’applicazione della legge è la risposta costante alla questione su quale legge
o disposizione applicare al caso concreto?
Evidentemente così, se il giudice «deve fare
il giudice», come si sente recitare ancora oggi dai fautori del presidenzialismo,
la questione non può essere ridotta a questione giuridica. Di più: qualsiasi corrente di pensiero sostenga ciò, in
un modo o nell’altro, essa ha dalla sua quale extrema ratio che il diritto segue il fatto come un’ombra; o che il
giuridicamente rilevante non può mai togliere il fatto in sé.
Ma certo che il giudice faccia il giudice non significa che il potere politico-partitico attraverso la legislazione e meglio la
decretazione lo debba soggiogare.
Resta dunque in piedi e sembra riproporsi, al
di là delle fantasie autoritarie ovvero delle brutte fiabe, la domanda: può uno Stato
legislativo ma questa volta democratico fare a meno dei partiti? Già, perché Schmitt non ha chiuso il cerchio e non si è interrogato su come i partiti tradiscano le aspettative sociali, soprattutto in termini di economia social-nazionale.
[1] Schmitt, Il custode della
costituzione, trad.
it. a cura di A. Caracciolo, Milano 1981, p. 121. Per la citazione di Gneist vedi Schmitt, Democrazia e liberalismo, trad. it., a cura di M. Alessio, Milano 2001, p. 104.
[3] Ivi, p. 137.
[4] Ivi, p. 132.
[5] Ivi, p. 131.
[6] Ivi, p. 138.
[7] Ivi, p. 139.
[8] Ivi, p. 155.
[9] Ivi, p. 167.
[10] Ivi, p. 169.
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