Come i parlamenti dell’Europa medievale già prima dei
secoli XII e XIII erano chiamati nei fatti all’ufficio del rappresentare,
così tale ufficio appare, oggi più che allora, irrinunciabile, soprattutto
sotto un profilo formale.
Difficile immaginare, antropologicamente ancor prima
che giuridicamente, l’organizzazione politica di una società senza
parlamento e cioè senza luogo e/o modo nel quale convenire (e contarsi, e usare
il linguaggio, appunto non "parlare" ma "parlamentare") per prendere decisioni che impegnino una intera comunità, o un
intero popolo.
Ciò lo si può attribuire a tre ordini di cause: che il
consenso popolare in qualsiasi forma è ineludibile, per chiunque abbia il
potere, che la rappresentanza politica ha radici tanto sociali quanto
istituzionali (il pensiero va alla repubblica ginevrina, per la valorizzazione
fattane da Rousseau) e che la funzione legislativa - che si dà spesso come
prevalenza del parlamento - non combacia con quella rappresentativa in quanto
tale.
Ovvero sarebbe difficile immaginare l’organizzazione
politica di una società senza un qualche parlamento se, per
assurdo, non vi fosse differenza tra mera partecipazione alla formazione di decisioni
o leggi e potestà di decidere o di legiferare. E qui prende vigore per noi la
ricostruzione storica.
Del parlamento in senso moderno - avvertiva Antonio
Marongiu - non è agevole individuare la vera esatta origine
, giacché all’incertezza sul momento e la denominazione originari si assomma quella sulla natura e la competenza. Ma l’aura problematica della cosa è vinta dalla cosa in sé: per capire è bene regredire nel tempo, non subendo euristicamente modelli precostituiti e cercando invece di diversificare la radice storica dalla condizione evoluta, senza perdere di vista la unitarietà del concetto.
, giacché all’incertezza sul momento e la denominazione originari si assomma quella sulla natura e la competenza. Ma l’aura problematica della cosa è vinta dalla cosa in sé: per capire è bene regredire nel tempo, non subendo euristicamente modelli precostituiti e cercando invece di diversificare la radice storica dalla condizione evoluta, senza perdere di vista la unitarietà del concetto.
Sotto questo aspetto una cosa è certa: se l’età di
mezzo non conosce la sovranità della legge e se è in quell’epoca che buona parte degli
studiosi è concorde nell’individuare le origini storiche così degli
organismi parlamentari come di altre istituzioni, allora la potestà legislativa
del parlamento è un dato evolutivo e fa parte di un momento che succede a
quello della sola rappresentatività, venendosi quella potestà a profilare,
rispetto alle origini, nei secoli dal XIV al XVI e giungendo ad affermarsi con la
Rivoluzione francese, allorquando gli stati generali - ciò che si offre
come testimonianza di una sostanziale continuità - furono riconvocati e
trasformati dal vivo.
In altre parole: scavando nel passato ciò che resta di
essenziale dei parlamenti, il “nocciolo duro” che vale a spiegarne l’origine, è
il ruolo rappresentativo. Laddove però la rappresentatività è commisurata allo
stato originario.
L’origine - si diceva - è medievale; ma bisogna essere
più precisi: essa, per quanto appurato a suo tempo da Marongiu, è feudale.
Lo è nei termini in cui la parola “feudo” - senza volere qui rincorrere la vera
etimologia - è accostabile al latino fidelis, fidelitas e cioè
perché il re medievale nei parlamenti (o cortes, o altro) riuniva
originariamente persone di sua fiducia e/o da lui beneficiate (pare addirittura
che parlamentum nei suoi primi usi stesse per adunata o parata
militare), le quali avessero titolo per rappresentare nei fatti i sudditi
ovvero il regno tutto e cioè assicurare all’autorità del monarca il necessario
consenso. Gli intervenienti erano chiamati - secondo la locuzione, e secondo
quanto anche dimostra la storia dei parlamenti di Sicilia, ad iniziare dal 1097,
allorquando re Ruggero, a Mazara del Vallo, convocò il primo parlamento (F.F.
Gallo, Il parlamento siciliano del 1812) - ad
consentiendum.
Il parlamento era feudale perché il monarca in
sostanza faceva qualcosa di analogo a quanto usavano fare periodicamente - in
occasione per lo più delle festività liturgiche - i signori, riunendo i loro
vassalli nei consigli “di castello”: non solo banchetti e musica, esibizioni di
acrobati e jongleurs ma anche, alla fine, discussioni e
decisioni su problemi - quali ad esempio il taglio degli alberi - riguardanti
la vita delle comunità “locali”.
Versailles, 5 maggio 1789, apertura degli Stati Generali (A. Couder) |
I convenuti con il loro assenso partecipavano in
qualche modo alle decisioni e contestualmente esponevano al re, chiedendone
soluzione, le loro quaerelae et petitiones: non di assoluta
obbedienza passiva si trattava e piuttosto di una sorta di regime pattizio
imperfetto. E di più - vien fatto di osservare - se il re convocava il
parlamento allora il patto in qualche misura doveva preesistere al parlamento
stesso: esso sostanziava il consenso tanto quanto ne era il risultato.
Il parlamento medievale dunque era rappresentativo in
un senso diverso da quello per noi consueto: non cioè perché ad esso si
affidassero il popolo sovrano o la nazione o la pluralità degli interessi
legalmente riconosciuti, non perché fosse organo eletto dal popolo; ma perché
chi vi partecipava era chiamato in certo modo a “garantire per i terzi”, ovvero
per la totalità dei sudditi; era chiamato in altre parole a far accettare al popolo
l’autorità del re.
Che altri aspetti della rappresentanza si siano poi
aggiunti ad essa modificandola, a causa sostanzialmente e della crescita della
nobiltà feudale e delle borghesie, e dell’avvento della sovranità della legge e
del diritto delle costituzioni, è evidente. È difficile comunque scancellare
come da una memoria storica - ma di questo si tratta - l’ombra di un rapporto a
tre e di una sostanziale fidelitas: il patto appunto “imperfetto”,
o qualcosa come un nudum pactum. Difficile in altre parole
scancellare l’idea di una essenza che permane. Tornano alla mente, e fanno
riflettere su questo punto, i titoli delle leggi barbariche: pactus
legis salicae, pactus alamannorum, per dire che quanto si chiedeva ad un
ordinamento per funzionare altro non era che uno dei principi più elementari
della vita: sì il patto ma sostanzialmente l’obbedienza.
È presumibile che sia questo - non più legato al
regime privatistico dell’età di mezzo - il principio inconfessato di ogni
assetto costituzionale, e che possa trattarsi di un bene, se non si ha sempre
necessariamente obbedienza passiva; se illuministicamente, secondo lo schema
del contratto sociale, l’obbedienza è data dallo stare ai patti.
E questo appunto, al di là delle sensibili
qualificanti differenze fra assolutismi e monarchie limitate, dittature e
democrazie, suffragio per censo e suffragio universale, è uno dei non pochi
insegnamenti forniti da un periodo storico la cui lunga durata fa pensare ad
una scarsa univocità o a qualcosa che a suo tempo è stato rimosso.
(rielaborazione
da D&G, a. 2002)
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