Nel
medioevo, secondo la ricostruzione fattane dallo storico Antonio Marongiu in un
saggio del lontano 1954, il re ben presto dové dimostrare di essere degno per
così dire del suo titolo. Ovvero, per essere re, egli dové difendere e coltivare
un suo “onore” (l’onore che, secondo quanto asserisce Montesquieu nel suo Esprit
de lois, è principio del governo monarchico, come ciò che lo fa agire).
Dové farlo, intuitivamente, perché era la più alta autorità politica esistente
sulla Terra, perché quella carica racchiudeva in sé il dono della universalità e perché a essere tirato in ballo era il principio stesso di autorità. E
da certe cose non ci si allontana mai: Deus-Zeus, pater, auctoritas.
Il
motto di Isidoro da Siviglia (Ethimologiarum libri) è abbastanza
eloquente al riguardo, anche se il gioco verbale appare sin troppo agevole: Rex
eris si recte egeris: “sarai re se avrai agito rettamente”; laddove nel
gioco dell’apparenza etimologica (congeniale all’età di mezzo, soprattutto al
rinascimento bolognese) si può cogliere il senso di un messaggio e cioè l’assonanza
e l’identità di radice fra rex, recte e regere. Come dire:
l’attribuzione “morale” era già scolpita nella parola, anzi nel monosillabo; si trattava solo portarla alla luce e di darne testimonianza.
Fu nel suo essere cristiano - meglio nella sua consacrazione religiosa - che il
re - come l’imperatore, come il papa - ben presto trovò quella prima
legittimazione che era, obiettivamente, una forte confessione culturale.
Pure
il diritto divino andava tradotto nello spirito dell’epoca. Così
l’autorevolezza e la credibilità morale, la “onorabilità”, per cui il re doveva
distinguersi dagli altri, si concretizzarono nella figura del “re-giudice”: rex
judex. Al riguardo Bracton nel suo De legibus scriveva: Ad hoc
creatus est rex et electus ut iusticiam faciat universis, e papa Innocenzo
III nella decretale Per Venerabilem riassumeva i suoi poteri nella
parola juris dictio. E questo conferma l’interpretazione classica, che
vede nel medioevo un’epoca di giurisdizione - il potere che nel suo elemento umano essenzialmente
giudica - piuttosto che di legislazione - il potere che essenzialmente
legifica e cioè trascrive una volontà.
Ma
non fu così solamente sul piano dei principi: proprio nella prassi il re fu
necessariamente giudice, perché istituzionalmente dové garantire la giustizia,
rendere cioè giustizia entro ma soprattutto oltre l’amministrazione della
stessa, e cioè, ove ciò si rendesse necessario, in via straordinaria, come
dimostra l’episodio di Carlo Magno e del suddito che a lui si rivolse
direttamente per ottenere quella giustizia negatagli da un giudice amministrativo
- e immancabilmente la ottenne.
Carlo Magno |
Il
re per la verità fu anche legislatore, ma lo fu in certo senso non prima di
essere-giudice. Se vi fu anche re “legislatore”, questo non cambia la sostanza
delle cose; le authenticae, ovvero le costituzioni dettate
dell’imperatore, sarebbero state inserite nel corpus juris civilis e
cioè in una fonte di autorità preesistente: non vi fu insomma nel medioevo un
Legislativo, forte di una identità sua propria, e cioè la legge sovrana, in
grado di trasformare le cose.
Perché
dunque - mi domando - il re culturalmente fu giudice piuttosto che legislatore?
Quale il fondamento psicologico della cosa? Questione di antropologia arcaica
mai estinta, quella ad esempio descritta ne Il crollo della mente bicamerale:
il re è vicino agli dèi, si frappone fra dio e uomo, perché ha allucinazioni
uditive e cioè perché ha il privilegio di udire le voci degli spiriti.
Ma
qui né di magia si tratta né di sciamanismo, se non in un modo velato ed
interpretativamente riduttivo, e piuttosto emerge, dallo svolgimento dei fatti
dell’epoca (si accennava già alle authenticae), qualcosa come un
principio d’inviolabilità o sacralità della Legge.
Il problema,
soprattutto nel clima di frammentazione istituzionale e politica dell’alto
medioevo, era l’ordine giuridico e il re-giudice doveva garantire un ordine nel
quale a ben poche leggi sarebbe stato consentito assurgere al rango di Legge,
come da sempre scritta o scolpita: l’antichità valeva per autorità, sia che
leggi fossero le consuetudini, sia che si trattasse di ius positum e
cioè facente capo ad atti di volontà del potere costituito.
Si
era ancora in certo senso nell’antico: la monarchia costituiva custodendolo
qualcosa come un ordine naturale delle cose, sostanzialmente immutabile. Questo
senso a ben riflettere sembra addensarsi sia nella locuzione condere leges
laddove il dictum non è scriptura, sia nello stesso jus dicere,
che non è il legiferare. Si era ancora nella sacralità del verbum,
lontani da Gutenberg e dall’idea-principio di progresso.
Ma a
questo punto vi è una osservazione interessante fatta da Marongiu, che coglie
un’altra sfumatura del concetto. Dal canto loro - scrive lo storico - “I popoli
non avevano o non credevano di avere bisogno di leggi. Avevano sete e bisogno
di giustizia, cioè di una buona amministrazione della legge in vigore”. Già, ma
ciò quasi prescindendo dalla natura della legge.
Questo
può lasciar pensare che il primato della giurisdizione rispondesse a un bisogno
forte e prevalente di giustizia proveniente dal popolo; che una certa quale non
valorizzazione del potere di fare le leggi fosse dovuta a ciò. E qui ci si può
fermare, con alcuni dubbi fra cui uno singolare: se quel grande bisogno di
giustizia sia un dato storico e basta (che non vuole ragioni politiche,
giuridiche, sociologiche); che insomma sia solo osservabile a distanza,
naturalisticamente fondato, come la forza gravitazionale.
Si
dice meno dunque, parlando del re legislatore, della liberazione del potere
legislativo di quanto narrando del re-giudice non si dica della laicizzazione
della giurisdizione.
La
storia moderna ne avrebbe tratto beneficio, sino alla esasperazione di un
ruolo, e cioè spingendo - con l’assolutismo - quel ruolo, quella
identificazione, sino all’estremo della non ragionevolezza e della
impopolarità. Il re-giudice avrebbe cessato di esserlo, in altre parole, come
può accadere a un padre di famiglia fattosi despota: fu l’illuminismo, soprattutto
con riferimento alla giustizia penale e propugnando l’idea razionale di
un’amministrazione pubblica, a percepire questa verità. Mentre solo con la
Rivoluzione francese - irruzione della legislazione in un mondo ammantato di
giurisdizione - la legge sarebbe divenuta un prodotto tipico degli uomini.
Come
dire: il bisogno di giustizia non necessariamente vuole un re-giudice così come
dell’origine divina della legge mai si potranno avere prove sufficienti.
(Rielaborazione
da D&G, a. 2002; già pubblicato in Europa Giovani del 24 febbraio 2009)
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