Singolare
destino, quello del principio di eguaglianza e per meglio dire di quella
metafora o allegoria che si costituisca nella idea di eguaglianza.
Eguaglianza sì di fronte alla legge, sì formale, sì economica e sostanziale;
ma innanzitutto naturale, o se si preferisce stabilita da Dio.
Non
dunque sic et simpliciter quel principio che nato con le dichiarazioni
delle rivoluzioni americana e francese si sarebbe perpetuato nel periodo
napoleonico giungendo a una formulazione matura nella Costituzione francese del
1848; né l’ideale babuvista, o più in generale comunista; ma qualcosa che
vestito giuridicamente animò quei principi e ideali, spingendosi oltre: pane
quotidiano di popolo, minoranze e stranieri. Insomma il diritto soggettivo sì
ma in prima approssimazione, ma radicato nei primi impulsi, quel certo quale
rousseauianismo, per così dire, insito nella stessa giuridicità.
Mi
veniva un dubbio: l’egualitarismo forse, prima ancora di essere idealismo, è
meccanicismo o naturalismo brutale, linguaggio dell’istinto e dunque c’entra e
non c’entra con il comunismo. Esso tende al riconoscimento degli stessi diritti
per tutti, ovvero, per sé, di un trattamento pari o degli stessi diritti di cui
altri abbia già il godimento. E ci sta comunque necessariamente che
l’eguaglianza è pur sempre rivendicata da quanti patiscono ingiustizie, dagli
svantaggiati, o da quanti rivestano una posizione economicamente debole; ma
molto in certo senso relativamente al vicino di casa.
Le
rivendicazioni dei diritti, lette in prima persona da ognuno di noi, si possono
ridurre a poche parole: io, non ritenendo giusto che ciò non accada e comunque
in base a principi superiori di ordine naturale o morale o religioso, chiedo di
godere degli stessi diritti di chi già ne ha; ovvero: io non essendolo voglio
essere per condizione eguale agli altri, voglio che tutti abbiano le medesime chances. Ma questo non convince, non
basta, se attribuito al comunismo, perché l’eguaglianza comunistica non si
riduce a quantificare; essa invece quale dottrina ambisce a una trasformazione
generale ed è piuttosto rinuncia, non possesso.
Gli
“eguali” se voluti sono borghesi e la rivendicazione forse si confà
essenzialmente al diritto, legato all’anima individuale e anche in questo
all’istinto; ma è certo che tale legame a sua volta è come se ne fosse
trasceso; sia sotto il profilo delle parole, motivazioni ed elaborazioni
teoriche, sia sotto quello dello sviluppo storico delle cose.
Quale
dunque, guardando un po’ a questo sviluppo, il destino del principio
egualitario? Quanto meno: di detto principio in epoca moderna? Laddove nemmeno
l’eguaglianza a favore del poco e del basso, sia pure proprietaria, avrebbe
fatto parte veramente di quel destino? Quel principio, mosso da istanze
popolari, ma prima ancora dall’istinto e dall’anima, si sarebbe prestato in
fondo a una giustizia “dall’alto” e comunque pattizia, generalmente politica,
con tutte le conseguenze che ne derivano. Introdotto in modo “rivoluzionario”,
esso si sarebbe mostrato invece congeniale a società successive improntate al
livellamento e all’annientamento delle personalità, o alla massificazione; laddove questa si abbia al di là di qualunque
forma di Stato. E questo anche perché, prima delle rivoluzioni moderne, come è
stato da più parti rilevato, esso era già popolare e formale.
Dalla
conclamata eguaglianza dei diritti (per non dire dei beni) così si sarebbe
scivolati prima nella irregimentazione politica ed economica delle masse,
quindi nell’imbrigliamento generalizzato degli istinti, infine nella cosiddetta
“omologazione” - o nello one-dimensional
man, di marcusiana memoria.
Sembra
di assistere ad una sorta di parabola; ma se si vuole è una ben strana
parabola, perché non sembra di assistere nemmeno a rovesciamenti o
stravolgimenti semantici. O forse: è come se un prestito, non potendo essere
ottenuto in un modo lo fosse in altro, magari non legittimo.
Secondo
certa sociologia, particolarmente sensibile al profilo giuridico delle cose
(alludo a L’autunno del Leviatano, di M. Corsale), l’eguaglianza si
sarebbe mostrata compatibile, forse congeniale, con una società uguale
ma appunto quale quella di massa novecentesca, quasi l’eguaglianza - aggiungo
io, in attesa di smentite - fosse realizzabile solo (e strumentalmente) in un
contesto d’ineguaglianza e di livellamento ma a vantaggio dei cosiddetti “più
eguali”, tradendo - in un modo da una parte forse troppo evidente, dall’altra
però non inatteso - il principio originario. In altre parole: nel novecento non
si sarebbe avuta eguaglianza come qualcosa cui il popolo quale classe oppressa
- piccoli borghesi, artigiani ed operai - aveva diritto, ma come qualcosa
(sostanzialmente quella sua stessa condizione) che esso come massa era chiamato
ad accettare (facendo quasi scivolare in basso i desideri). Lasciando magari
che potesse restare in piedi il mito prezioso e che certo a fortori va
coltivato, della eguaglianza di fronte alla legge.
E
anche qui il nobile de Tocqueville si sarebbe rivelato, per chi conoscesse
certe diagnosi contenute ne La democrazia in America, una novella
Cassandra, laddove egli aveva parlato delle “due tendenze” dell’eguaglianza:
“una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l’altra che la ridurrebbe
volentieri a non pensare più”.
Ma
se comprendo bene, l’eguaglianza secondo la tesi sociologica cui alludo non
tanto si sarebbe avuta prima e durante il secolo “delle masse”; ma si sarebbe
attuata propriamente, concretamente, non prima di quel secolo: delle guerre
mondiali, dei grandi eccidi, tempo tragicamente unitario; in qualche
modo omogeneo pur a fronte di ideologie opposte, nel quale per così dire ci sta tutto: così i
fascismi come i comunismi come i socialismi come le democrazie, tutto ciò che
alla fine si rivela massivo (tutto ciò, si sarebbe scoperto successivamente, che
è commutabile). Laddove si può giungere a sospettare che tutto è stato
massivo perché sorretto, al di là delle differenze, dal medesimo principio
ovvero dalla medesima antropologia di base.
Riferendosi
al novecento, alla impostazione politica del novecento, si può pensare che
l’eguaglianza fosse forte rudimentale saldatura di istinto e di politica, rationabilitas
comunque, prima ancora che vera e sana istanza della ragione. E dire a questo
punto le “ombre della Ragione” forse non basta, non si deve accusare Cartesio,
in un modo parziale (coma ha fatto Foucault) se nell’epoca classica i poveri, i
folli e gli ammalati erano una cosa sola.
Tutto
questo è forse sorprendente? Forse no, se si considera, a proposito della
società tecnologica della comunicazione, un asserto di McLuhan secondo cui la
nuova telecomunicazione significata dal telefono, bene si addice al selvaggio,
non all’uomo civilizzato, non all’uomo “letterario”. Per dire che il
“progresso” - quanto meno il progresso nelle comunicazioni, ma dunque quasi in
tutto, proprio dal punto di vista sociale - fa leva sugli istinti, non sulla
ragione; nemmeno sull’uomo della tecnica, il quale per lo più se ne sta presso
di sé, immerso nel suo linguaggio.
L’osservazione
di McLuhan riferisce della crisi del literate man, dell’uomo del libro,
l’uomo “gutenberghiano”; ma lascia riflettere, essenzialmente sul fatto che il
progresso, che antichizza il bel libro, sembra liberare il regressivo,
indurre prossimità fra delitto e diritto. Come dire: la locomotiva e la potente
autovettura da corsa sono travestimento, il progresso è realiter
progressivo travestimento. Il fatto che l’uomo sia l’uomo-macchina, tanto più
programmabile quanto più programmatore, non nega il fatto che si emancipi la
stessa regressione, confondendo le due cose. Perché a causa di una regola
primordiale, l’uomo-macchina così si maschera.
Ma
qui bisognerebbe arrestarsi e chiedersi se sia ragionevole parlare
dell’eguaglianza in un modo assoluto, senza ad esempio parlare della libertà.
Già nell’ottocento era emersa la verità: che eguaglianza non necessariamente
significa libertà, ovvero che il grande problema era quello di produrre e
fissare equilibri fra l’una e l’altra. E quegli equilibri, se non venivano da
Dio, allora dovevano essere pattizi, e cioè legati al diritto scritto, innanzi
tutto, data l’ampiezza dei fenomeni, costituzionale. O quanto meno: era bene
trasferire i conflitti sul terreno del diritto oggettivo, quasi al di sopra
delle teste degli uomini. Ciò che ebbe luogo nel legame di necessità tra la
seconda guerra mondiale e le costituzioni cosiddette “lunghe”.
Ma,
appunto, perché il diritto costituzionale scritto se non a causa della
pericolosità della scissione tra eguaglianza e libertà? E anche qui la sorpresa
diminuisce: è presumibile che condizioni storiche inducano certe scissioni,
saldando politica e istinti.
Allora
la conclusione è allarmante: l’egualitarismo lasciato a sé stesso se si è
attuato nel novecento, è perché storicamente esso rifiorisce come mito laddove
la libertà si saldi in qualche modo con la regressione. Abbiamo come punto di
approdo piuttosto una società (quale quella che impauriva i prefetti di
Giolitti) che è regressiva nel momento stesso in cui si viene a costituire in
quanto società, che per certi versi non ha bisogno di regredire, ma di avere in
sé, inesauribili, slanci e cultura della libertà.
Ma è
tutta qui la singolare storia del principio di eguaglianza? Tutto è proprio
così “novecentesco”? La domanda ulteriore in altre parole è la seguente: se
l’eguaglianza è tale per cui entrando in crisi la società di massa entra in
crisi il valore di quel principio.
Oggi
- aggiunge quella sociologia - il vento sembra essere cambiato: se prima si
rivendicava la propria eguaglianza, ora si rivendica la propria diversità.
Siamo entrati in altre parole nella cosiddetta società plurale, nella
quale si celebra la morte della società di massa e meglio di un certo tipo di
essa. Una società nella quale si tende a ritribalizzarsi, a riacquisire quel
cosiddetto “legame sociale” - ma si tratta, io direi, di un legame con la
terra, con una radice - che i regimi politici novecenteschi, per certo quale
loro ingrediente “rivoluzionario” e totalitario, avevano tentato di sopprimere.
Ora
avviene dunque che chi rivendica diritti rivendica la diversità. L’epoca è
quella della diversità da preservare e riguadagnare, quanto meno quella che
corre i maggiori rischi di estirpazione e la vecchia eguaglianza è così che si
manifesta. Ma parlare di qualcosa da riguadagnare sino a dove è caratterizzante,
sino a dove soddisfa indagini di pensiero?
La
filosofia quale speculum sembra solo essere contraddittoria, a questo
proposito, quando da una parte essa parla della differenza come di un che di
costitutivo (dunque la regola naturale sarebbe quella dell’allontanamento e
meglio dello estraniamento e non quella della unione) e dall’altra di
“commutabilità” (: fra bene e male, vero e apparente, bello e brutto,
democrazia e dittatura, ecc.). Per dire che al di là dello sguardo sociologico
società “eguale” e società “plurale” si potrebbero anche non opporre, ma
ritenere profondamente compatibili a causa del fatto che non è più
semplicemente questione di masse ma anche di modernità, in un’epoca che non è
più quella moderna, del progresso e del tempo sequenziale e unilineare. Per
dire insomma che i tempi sono maturi perché del postmoderno si prenda atto,
come non si poteva non prendere atto, nel cinquecento, della scoperta
dell’America.
Potrebbe
dirsi società plurale quella in cui l’eguaglianza non si senta più appagata in
sé stessa ma abbia bisogno del suo contrario, in cui possa ritenersi che il
principio d’eguaglianza abbia svelato la sua parzialità, il suo ruolo
strumentale o abbia dimostrato il bisogno di nuova linfa.
La
società plurale in altre parole sarebbe piuttosto contenibile nell’epoca
postmoderna, laddove essa verrebbe ad attingere un senso diverso da quello che
essa poteva avere in una società uguale. La mera contrapposizione cade laddove
la società si ricostituisca attorno a nuovi nodi psicologici. Non solo dunque
nel postmoderno si trova il nuovo scavando nel vecchio, non solo non vi domina
il progressivo unilineare, che comunque non ne viene espulso; ma la regressione
vede crescere le sue chances. In tutto questo l’egualitarismo si
perpetua, eccome! Ma la Legge
sembra essersi segnalata: come era avvenuto nell’ottocento e nel novecento,
l’eguaglianza oscilla sempre, fra garanzia dall’alto (e dunque troppo regolata)
e psicologia del desiderio (troppo orientata al consumismo e sempre anche
troppo disastrosa).
L’egualitarismo rischia di non cessare di essere
quello della vecchia ghigliottina, che la notte vai a vedere, avvolta nella sua
stessa ombra, quasi mostro dormiente; e lo fai semplicemente, pur di non rimirarti
nella tua ambivalenza.
(da uno scritto del 2003)
Nessun commento:
Posta un commento