Salvare
la libertà dei cittadini: questa la motivazione formale ma
forse la più profonda di Montesquieu, che dà la misura dello spirito con cui
egli pensò la divisione dei poteri - e volutamente io parlo qui di “divisione”
(e divisione "del potere", operazione che si rapporta ad una unità o
concentrazione), invece che di “separazione”; ovvero: «Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il
potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà».
Montesquieu |
Ma è
vero, come aveva sostenuto Halifax nel seicento, che le idee contano per ciò:
che vi sono interessi concreti o poteri costituiti che sostenendole le rendono significative, attribuendo ad esse valore. Nulla dunque, andando alla radice
delle cose, può sostituirsi al fatto e alla evoluzione storica dei fatti. Fermo
restando che anche una valutazione come quella di Halifax ha un valore formale,
o suscettibile di elaborazioni.
La
divisione dei poteri - e in ciò il concetto stesso di potere - è questione moderna - e
ci si metta pure la "secolarizzazione". Fa la sua prima comparsa
negli scritti dei monarcomachi (il De iure regni di Buchanan - dove
fra l’altro si sottolinea l’importanza dell’autonomia della “giurisdizione” - e
l’omologo Vindiciae contra tyrannos - di certo Stephanus
Junius Brutus Celta? - sono
del 1579); si cristallizza in seguito in teoriche più celebrate (Locke e
appunto Montesquieu, che predicava la divisione come antidoto del dispotismo)
per poi approdare al mondo delle rivoluzioni e delle costituzioni scritte:
dall’epopea delle colonie nordamericane alla Rivoluzione francese; dalle carte
“ottriate” (cioè graziosamente concesse dal sovrano ma perché soggetto a
pressioni) della prima metà dell’ottocento, alle costituzioni “lunghe” - più
versate alle garanzie, ai rapporti sociali e ai diritti - del secondo
dopoguerra.
Ma
la questione è moderna per quanto di essa si viene a definire praticamente con
l’uscita dal medioevo: a causa - anche - del patrimonio storico, politico e
giuridico di quell’epoca. Il che a ben riflettere spiega perché i teorici
politici della nuova èra si sarebbero rimessi non poco ai fatti. Il senso
critico di questa storia è segnato dalla riforma e contenimento dei poteri del
monarca. Nei suoi termini iniziali esso è dato dalle grandi contese di
religione (protestanti contro cattolici; abbandono dell’obbedienza passiva nel
pensiero calvinista e luterano, ecc.) ed essenzialmente dal tema del patto
costituzionale: fra Dio e sovrano o fra Dio, popolo e sovrano; laddove il
monarca, appunto, già sostenuto nel medioevo da una buona dottrina giuridica,
negava e sottintendeva allo stesso tempo il moderno principio di sovranità. A
causa di questo principio, destinato a imporsi obiettivamente, la funzione
giurisdizionale avrebbe cessato di appartenere al re (rex judex) e lo
stesso sarebbe accaduto al potere di fare le leggi, meno “centrale” nella
cultura dell’età di mezzo. Ma ciò è vero tanto quanto lo è il fatto che
nell’ottocento vi sarebbero stati ancora privilegi di normazione nelle mani
della monarchia o che i parlamenti, pur evolvendo il ruolo costituzionale del
popolo al parlamentarismo, non avrebbero dovuto legiferare da soli.
In
questo “dare e togliere” (in questo “controllare”) si sarebbe manifestato un
principio, quello appunto di “divisione”, che la dottrina spesso si limita a
porre sul piedestallo costituzionale e ad ammirare; ma che nasconde altro,
rispetto al rassicurante equilibrio e alla pura garanzia.
L’eclissi
della monarchia feudale, venendo a cessare la frammentazione politica e
istituzionale dell’età di mezzo (allontanandosi i poteri d’imperio dalla
società civile: Bognetti) e potendosi riunire in uno le
potestà di legiferare, amministrare e rendere giustizia, fu tale da consentire
tanto all’istituto monarchico di approdare all’assolutismo (princeps legibus
solutus) quanto alla condivisione della sovranità di fare il suo corso.
Non
è dunque la crisi del modello medievale di autorità presa come puro distillato
storico a poter spiegare le cose per come esse sono effettivamente andate; ma
la considerazione delle attitudini assolutistiche della monarchia del patrimonium
principis per come esse si attuarono nell’età moderna e per come
furono allora contrastate dalle nuove classi emergenti. La storia
costituzionale moderna è dunque una storia di conflitti lunga e sofferta, forse
interminabile, ed in ciò la divisione dei poteri si mostra principio tanto
oppositivo quanto organicistico (né Bodin né Hobbes - vien fatto di sospettare
- dissero tutto dello Stato moderno). Sembra che detto principio abbia una
valenza conciliativa e di stabilizzazione politica ma solo nel breve periodo ed
inoltre, come dimostra nella nostra esperienza costituzionale la perpetuazione
dei poteri giurisdizionali nel Senato sabaudo, quella storia, come era iniziata
nel cinquecento, così non sarebbe finita con la crisi della modernità.
Ciò
che ora può sorprendere è proprio questo: che nel conflitto per il giusto patto
costituzionale, trascorsi i secoli, non sono andati persi alcuni tratti
caratteristici di partenza, pur ritenuti superabili o superati, per cui il
ministro “postmoderno” può regredire, sino a identificarvisi, a ministro del
re; il capo di uno Stato repubblicano al rango di monarca costituzionale, ecc.
E in effetti è difficile dire oggi che vi sia in materia soluzione progressiva
od ottimale, o che possa imporsi una volta per tutte una formula tecnicamente
perfetta.
I
concetti di Halifax conservano tuttora il loro valore e la regola che sembra
destinata a prevalere è quella del “miglior” patto possibile, ovvero della
ricerca di equilibri nell’ambito di rapporti di forza. Così, pur perdurando il
mito antichissimo della Legge, i provvedimenti particolari e concreti
dell’esecutivo sono rimasti sempre in radice quelli del re e
del suo Consiglio, in buona misura inattaccabili, perché qui è il punto di
forza o di potere. Così risulta essere inesauribile il conflitto tra esecutivo
e legislativo, o tra esecutivo e giudiziario, e ciò in modo strutturale, ovvero
proprio quando si abbia giuridicamente “intromissione funzionale” (Mortati) o
conflitto di attribuzioni. I poteri dunque - un po’ come accadeva a Chiesa e
Stato nel pensiero di Croce - sono categorie, perennemente in lotta.
Elevabile
a sua volta a categoria trascendentale è il principio stesso di divisione, e lo
è proprio perché non riducibile a puro progetto di pace. Come è ingenuo
ritenere giusto ciò che è prodotto “naturalmente” dalla evoluzione storica,
così si può giungere a considerare come lo Stato moderno, unitamente al
costituzionalismo quale insieme di idee e mezzi risolutivi di problemi legati
all’origine, abbia conservati in sé, con il principio della divisione dei
poteri, quei problemi, quasi fossero germi patogeni, laddove la guarigione,
quasi per un tacito volere della storia, non è mai assicurata. Teorie come
quella del “contratto sociale” esprimono per lo più impossibilità, disagio o
inquietudine; l’esigenza del patto costituzionale implica quella di sempre
nuovi patti; il potere costituente, nascosto nella costituzione materiale e
dunque lontano dalla forma, lo è quale messaggio contenuto in una inscriptio.
A questo
punto allo storico delle istituzioni non resta che considerare come la garanzia
- cui il principio di divisione è riconducibile - sia nel fatto ancor prima che
nel diritto, ovvero nella spinta costituente delle classi emergenti (gli
inossidabili citoyens) e nella formazione di sempre nuovi interessi
e corporazioni attorno a nuove forme di proprietà e di mercato. Il motore è nel
fatto che sempre vi è chi vuole e/o può farsi rappresentare, anche in un clima
come l’attuale in cui fa riflettere il dato che la crisi del principio classico
di rappresentanza abbia già avute chiare enunciazioni.
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