Non credo sia la libertà
la categoria filosofica par excellence. Credo invece che si tratti di una parola (una fra le tante) che non sta in piedi da
sola e ha bisogno di nutrirsi del suo contrario, che è la necessità e in qualche modo di dover
essere da essa distinta, non con facilità.
E aggiungerei che il gioco deve condurlo quest’ultima; la quale a sua volta, se si osservano le cose con un po’ di attenzione, ha un singolare potere liberatorio di concetti e idee. Ovvero: può spiegare più cose di quanto non faccia la libertà; se non altro a causa del suo richiamo alla realtà.
E aggiungerei che il gioco deve condurlo quest’ultima; la quale a sua volta, se si osservano le cose con un po’ di attenzione, ha un singolare potere liberatorio di concetti e idee. Ovvero: può spiegare più cose di quanto non faccia la libertà; se non altro a causa del suo richiamo alla realtà.
Personalmente, è da tempo che vado misurando le cose di pensiero sul
terreno giuridico, nel cui campo, se taluno
(Perlingieri) ha posto la nitida nozione di (o del) giuridicamente
rilevante - e lo ha fatto là dove Mortati aveva incontrato difficoltà
argomentative -, Santi Romano, il primo Santi Romano, poneva la necessità quale nocciolo esplicativo del
rapporto attorno al quale tutto ruota: quello tra diritto e fatto.
Ovvero: com’è possibile che - dov’è il trucco per cui -
in un ordinamento la giuridicità sia già nel fatto (Mortati sembrava quasi
terrorizzato dal contrario) e meglio in quel fatto che poi si tramuterà in
diritto? Ovvero: è possibile che esistano un fatto non giuridico e un fatto giuridico
e a quest’ultimo sia dato poi elevarsi
al di sopra dell’altro? Ma essendo ovvero valendo potenzialmente l’uno quanto
l’altro?
La spiegazione del Romano credo sia semplice; ma nemmeno
tanto consolatoria forse - aggiungerei - se si considera la natura del
problema. E considerando quello che i giuristi chiedono forzandone le
potenzialità di pensiero speculativo al pensiero giuridico, che è il loro
pensiero.
Per il primo Romano il diritto è nella necessità o è necessità, e il nesso logico scatta interpretativamente allorquando
se ne ha la consolidazione. Il diritto è il fatto ma stabilizzatosi giuridicamente
e cioè resosi giuridicamente necessario. Il diritto si forma laddove i fatti
dimostrano che era necessario che esso si formasse.
Ancora: la necessità precede la volontà dello Stato
(teoria cosiddetta volontaristica, cara per così dire agli spiritualisti)
nonché il pensiero razionale.
Di che cosa parliamo, dunque? Di quella «necessità che è
la fonte prima del diritto, di quel diritto che scaturisce immediatamente e
direttamente dalle forze sociali [o «movimento sociale»], in modo così
categorico, esplicito, certo, da non permettere che tra i bisogni sociali
stessi che determinano la norma giuridica e il rinvenimento e la dichiarazione
di quest’ultima si frapponga l’attività razionale degli organi competenti a
questa dichiarazione» (tratto da Osservazioni
preliminari, pp. 236 e ss.).
Ovvero: «La trasformazione del fatto in uno stato
giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed
alle esigenze sociali. Il segno, esteriore se si vuole, ma sicuro che questa
corrispondenza effettivamente esista […] si rinviene nella suscettibilità del
nuovo regime ad acquistare stabilità, a perpetuarsi per un tempo indefinito» (L’instaurazione di fatto, p. 186). Necessità dunque - dicevamo - e stabilità;
l’una che è provata dall’altra.
La necessità è posta così quale “fonte prima” del
diritto. Dal che scaturisce certa dottrina della immediata origine della norma
giuridica (S. Romano, Osservazioni
preliminari, pp. 236 e ss.). Laddove dire che la necessità è fonte del
diritto non è lo stesso che dire che essa è fonte primaria del diritto.
La prima è un’acquisizione della teoria delle fonti e val
bene per questa o quella serie di fattispecie; la seconda chiama a sé anche la Dottrina dello Stato, quella degli
Hobbes, dei Bodin, degli Hegel. E coinvolge la Dottrina della costituzione
(ovvero: che cosa è la costituzione?: essa sarà così solo in parte lo stesso
che lo Stato, se si ha costituzione dello Stato).
Insomma: tale è la forza e la spinta (sociale) della
necessità che il diritto nasce così, o da sé solo, senza alcuna volontà. Vi è
una necessità socialmente fondata (qui vi si legge anche Hauriou) e che in tal
senso si stabilizza, ecco la spiegazione del farsi e strutturarsi della norma
giuridica. Ma si parla così di farsi e strutturarsi finali o successivi; invece
l’architettura avvertiva il bisogno di un qualcosa che spiegasse le cose un po’
più giuridicamente; e così possiamo dire che quelle nozioni instradano al senso
della istituzione.
Bastava dunque girare un po’ la manopola della necessità,
per capire la magia del passaggio dal fatto al diritto - invece di mettere a
nudo certe insicurezze, inscritte forse nell’argomento.
Prima viene lo Stato, poi il diritto; ma lo Stato, se non
è un mero fatto ed è il frutto della necessità, esso è qualcosa che a un certo
punto nasce e si forma si struttura e si organizza. In una parola è
istituzione.
Nella ricostruzione che si fa del pensiero di Romano (e
confesso a questo punto il mio bisogno di rileggerlo) a un certo punto è come
se la necessità quale chiave esplicativa cedesse il passo alla istituzione. La
quale appare più giuridica della necessità.
Ma senza nulla togliere al valore culturale dell’istituzionalismo,
la necessità non è giuridica e proprio per questo mi piace come soluzione. Allo
stesso tempo infatti essa è categoria che trascende e ricomprende il fatto. E la
sua astrattezza la mette al riparo dalle facili obiezioni.
Dunque forse il giurista che ci tiene quanto meno alla
teoria generale potrebbe non esserne soddisfatto … vorrebbe di più per il suo
ambito di competenza. Ed ecco apparire appunto l’istituzione, la cui virtù
consiste nel non identificarsi con la norma, nel non condividere le sue
debolezze e nel costituire risposta alla crisi della onnipotenza del
legislativo e nell’essere per l’appunto qualcosa di quasi giuridico o
catturabile dal giuridico.
L’istituzione romaniana,
nella interpretazione di Spinelli (è dal suo scritto su La costituzione di Santi Romano che traggo spunto), subentra alla
necessità (qualcosa che si svolge o che ha luogo nel momento stesso in cui…) e
pone riparo al suo carattere generale (io direi non giuridico); il discorso si
traspone: prima viene la istituzione, che è come l’anello mancante, poi viene la
norma giuridica; prima lo Stato, poi il diritto. Qualcosa che si stabilisce e
nasce in un modo essenziale, qualcosa che si struttura e organizza da sé: tale
è la istituzione. Ma è qualcosa che ha una sua specificità giuridica.
Non è più la necessità a governare e orientare le cose
nel profondo della realtà; ma la istituzione, ovvero ciò che avviene e si
stabilisce o stabilizza, raggiungendo un certo grado di organizzazione. Da ciò
che è necessario si giunge così a ciò che nasce, si forma in modo stabile,
resistente, come già detto.
Un guadagno, dal punto di vista della scienza giuridica?
Forse, ché istituzione è parola più soddisfacente di fatto, o di forza, o di
necessità. Almeno secondo certa interpretazione.
Ma è veramente così che stanno le cose? E qui la domanda
è un po’ sempre la stessa: v’è tanto o soltanto bisogno di un concetto
giuridico per spiegare il diritto? O è così che sostanzialmente il diritto
tende sempre ad elevarsi a scienza autonoma e innamorata di sé? Pure esso dovrà
sempre chiedere in prestito la forza e il fatto e la violenza, per poi
redimerli e pulirli una volta divenuti giuridici o per farli divenire tali.
Credo a questo punto che tutto sia ammissibile o quasi,
per il pensiero. Proverei comunque a fare il percorso a ritroso e andare dalla
istituzione alla necessità, o quanto meno a confrontarli, ché è qui lo stimolo,
o la leva: se istituzione è concetto giuridico, quello di necessità è un
concetto che trascende e spiega anche il perché dei concetti giuridici. Il
fatto produce il concetto e l’idea anche; a meno che non si sia idealisti nel
senso pieno del vocabolo e si creda che l’idea sia lo spirito (come lo erano
gli spiriti animali nella ironia antihegeliana di Ludwig Feuerbach) che muove
le cose.
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