Il
nazional-socialismo, come ostentava il suo paganesimo, così ammetteva,
facendone un principio - ma questo non era parte delle ostentazioni -, che i vecchi, gl’invalidi, i malati in fase terminale e i criminali, che fossero ritenuti “di peso” alla società, potessero essere
caricati su furgoni, trasportati in luoghi ignoti e lì uccisi e cremati - salvo
poi darne notizia, ma come di una improvvisa inattesa morte, ai congiunti,
mettendo a loro disposizione le ceneri del defunto.
Così,
prima dei campi di sterminio, e spiegandone in parte il senso, fra il 1940 ed
il 1941 furono eliminate in Germania più di settantamila persone e si dice che
Hitler, di fronte alle crescenti proteste dei cittadini tedeschi, presso i
quali le notizie erano trapelate, avrebbe ordinato di sospendere quella pratica
atroce; ma avrebbe ordinato di farlo - appunto - solo apparentemente.
Quella
pratica, fra l’altro, per come essa è andata prendendo piede, si ricollega
all’uso della camera a gas, strumento non dispendioso, a proposito del quale si
è accesa la rivalità, fra Germania nazista e Russia staliniana (qui saremmo nel
1937), su quale delle due potenze avesse per prima adottato in chiave di
eutanasia quella soluzione. Ma anche la
Cina “comunista” - va aggiunto, secondo certe testimonianze -
con i suoi furgoni della morte che attendono all’uscita del tribunale il
condannato a pene gravi per poi eliminarlo, sembra condividere un po’ lo stesso
principio, per cui se il mantenimento del reo costa troppo, è ammissibile che
egli sia subito soppresso.
Inizialmente,
ad imitazione dell’antico costume di Sparta, l’eutanasia riguardava i soli
neonati; in séguito essa si sarebbe estesa agli adulti, laddove prima avrebbe
interessato solo gli ammalati senza speranza, poi gli inabili al lavoro, quindi
chiunque si fosse comunque deciso che doveva essere soppresso.
Il
termine “eutanasia”, con riferimento a questa tristissima storia, dice della
presumibile incoscienza del morituro nei momenti che precedono la morte, e
della liberazione - a lui imposta
- da una vita di sofferenze, e qui è possibile cogliere l’analogia con il
condannato alla pena capitale narrato da Foucault, il quale durante l’inumana
esecuzione, dilaniato nelle carni, invocava unitamente al perdono, la morte come liberazione dagli
atroci supplizi cui era sottoposto. Per dire in generale che la distanza,
rispetto alla pena capitale, laddove è umano che prima della esecuzione il
condannato sia drogato, è davvero minima, fermo restando che un male irreversibile
o una grave invalidità mai possono equivalere - mettiamo - a un delitto contro
la pubblica economia.
Si
può parlare dunque, pensando le tante atrocità commesse dall’autorità nei
confronti e dei più deboli e sfortunati, dei diversi e degli stessi criminali,
di eutanasia politica; ma vi è, come è noto, un’altra forma di
eutanasia, che potremmo definire negoziale, e cioè legata alla libera
volontà del soggetto, alla “libera” disposizione da parte di costui della
propria vita.
Fu
Luis Kutner, nel 1967, a
coniare l’espressione living will, che a noi giunge tematicamente come testamento biologico: chiunque, che sia
nella condizione di disporre per testamento, ma ora di sé come dei suoi beni,
in previsione di una evoluzione della sua malattia, o prevenendo una eventuale
patologia, che gli possano togliere quella capacità, ha il diritto di statuire
sulla propria vita, rectius sul proprio corpo, decidendo ora per
allora.
L’eutanasia
insomma, ben remota in questo dalla strada dell’omicidio di Stato, intraprende
quella dell’autodeterminazione del
paziente o del malato, e tanto è sospettabile data la questione che l’ideazione
non sia perfettamente nuova, quanto è ragionevole ritenere che quella parola,
da sempre polisensa, abbia attinto un significato individualistico in linea con
il principio negoziale, o della volontà, che caratterizza il diritto civile in
quanto tale.
Che
i nemici dell’eutanasia, spesso vestendo abiti da Crociati, ne combattano sia
la forma politica sia - ed in modo più pronunciato - quella negoziale, è un
dato evidente e forse dovrebbe sorprendere il fatto che esse, pur distanti e
quasi antitetiche, possano essere poste su di un piano di parità. La vita
sembra essere un bene da difendere ad ogni costo; la vita trascende la vita; e la
difesa della persona fisica poggia sul principio della superiorità di essa
rispetto agli stati e allo stesso diritto positivo. Ma difendere la vita ad
ogni costo significa contrapporla, sovrapporla a qualsiasi altra cosa, o bene,
o non?
E a
questo punto, che il principio proclamato anche dalla migliore cultura
cattolica in base all’accusa di “ipertrofizzazione della autonomia privata” (De
Bertolis, Elementi di antropologia giuridica, p. 57), risulti essere
troppo astratto è dimostrato dalla contrarietà ai fondamenti del diritto
civile.
Ma
il problema - va soggiunto - sussiste oggettivamente, al di là delle
opinioni e degli schieramenti. Nell’un caso, con l’eutanasia politica, il
diritto è posto come ius vitae ac necis, ovvero s’identifica con la
negazione (necatio) del soggetto giuridico; nell’altro, nell’eutanasia
negoziale, il ius civile sembra invero toccare il suo confine giuridico
per così dire naturale o universalmente dato, ovvero giungere a quel punto nel
quale i rapporti sembrano rovesciarsi: non già il diritto sarebbe messo a
disposizione dell’uomo ma l’uomo sarebbe chiamato a riconoscere in modo
estremo, ponendosi quasi nel nulla, una qualche libertà-e-sovranità del
diritto, sia pure al di fuori e contro qualsiasi fumus di Stato etico;
non già solo il diritto alla vita ma anche il diritto alla morte, che
possa essere ma allo stesso tempo non possa mai esserlo perfettamente, a quello
equiparato. Laddove il limite alla libertà ed autonomia negoziale è da sempre
insito, come norma penale, negli ordinamenti positivi.
E a
questo punto gli aspetti della questione sono due: da una parte il diritto si
specchia nella vita, considera l’essere in vita, il corpo finché è vivente,
come risorsa, presupposto, bene primario da collegare agli altri beni
materiali, secondo quanto è provato fra l’altro dalla successione
testamentaria, o dalla donazione degli organi, dal dover guardare oltre,
con continuità; dall’altra - comunque sia - il diritto (per ciò, che esso non è
morale, non è religione, non è arte, ecc.; proprio perché assimilabile, come
voleva Croce, alla categoria della prassi), non può decidere per tutto l’uomo.
E in
questi aspetti, che restano comunque problematici, s’insinuano, accrescendone
la complessità, le diverse modalità della coscienza morale: se da una parte si
pensa il rapporto fra diritto e uomo in modo terreno, dall’altra
inevitabilmente la cultura “laica” viene a confrontarsi con quella religiosa e
confessionale, in una parola per noi cristiana; ma anche, per quanto detto
sulla continuità e vitalità che si specchiano nell’ordinamento, con chiare
difficoltà di separazione.
Il punctum
saliens, a voler semplificare le cose, è più o meno il seguente: come e
perché derubricare penalmente il suicidio, scriminarlo, traducendolo almeno
parzialmente in diritto alla morte, e se secondo il primo aspetto l’eutanasia
può essere compresa e tollerata, posta sul piano della necessità, mai
però elevata a somma libertà, per il secondo essa resta suicidio, oppure
“omicidio del consenziente” - ed è qui, in questa traduzione del suicidio in
omicidio, che l’ipotesi suicidio si riversa necessariamente. Rivelandosi in
entrambi i casi una certa quale comprensibile reattività degli ordinamenti.
Sennonché
traspare anche, nel secondo caso, come il forzare la contrapposizione del
diritto alla vita a quello alla morte tradisce il senso umano dello stesso
diritto alla vita, facendolo scivolare a causa dell’enfasi che contraddistingue
ogni crociata, come si diceva sul puro piano biologico o di una trascendenza
del trascendentale che va discussa, prima ancora che umano.
E
così ad esempio il puro stato vegetativo irreversibile del malato viene
scambiato con una condizione umana di normalità. Divenendo piuttosto l’uomo
della vita, per quanto ne dicono i nemici più ostinati del diritto alla morte,
macchina o pianta, che non persona, fatta a immagine e somiglianza di Dio. O
comunque sia, emergendo la questione della attribuzione di priorità a questo o
quel valore come una questione non risolvibile, se non saltando sul piano delle
fede.
La
questione eutanasia dunque, come slitta dalla forma omicidio politico alla
libera autodeterminazione del soggetto, così da questa scivola nella
fattispecie omicidio, per la difficoltà insita nella fattispecie suicidio, la
quale appare a questo punto come il vero nocciolo della questione; laddove
l’eutanasia negoziale venendo a toccare sia pure in altro modo la realtà già
devastata da quella politica, sembra sia venuta a dissotterrare qualche cosa,
che ad essa preesisteva, incontrando il medesimo limite di spiegabilità.
Poco
vi è in ciò di pretestuoso; ma è di buona evidenza - credo - che l’ostilità
irriducibile al diritto alla morte evoca in qualche modo, per doverne
osteggiare la dimensione culturale e dunque l’ammissibilità, la libertà dei
pagani di darsi la morte, come gesto supremo, secondo gl’insegnamenti derivanti
ad esempio dalla vita e morte di Seneca e in generale dall’abitudine degli
antichi Romani di decidere moralmente di svenarsi, immergersi in un bagno
caldo, attendendo serenamente il trapasso. Ed anche: decidere di uccidersi per
evitare un disonore, mettiamo per non cadere prigioniero dei nemici;
sacrificarsi eroicamente, per dare l’esempio; oppure per non tradire, essendo
capi, i propri seguaci; e comunque per il bene comune.
Il
cristianesimo sappiamo che avrebbe negato, con la sua forza “rivoluzionaria”,
il diritto morale di fare ciò, confutando virtù ed eroismo; rovesciando i
valori: nessuno può privarsi di un bene che Dio gli ha dato e che Dio soltanto
gli può togliere, il che dev’essere vero e sostenibile, al di sopra delle leggi
degli uomini.
Il
senso contrappositivo è quello che avrebbe il suicidio di Lucrezio Caro, nella
testimonianza di San Girolamo, qualora la notizia non fosse vera. Laddove
colpisce dunque il contrasto: ciò che presso gli Antichi poteva essere
interpretato come virtù, poi sarebbe stato tradotto in peccato.
Nelle
antiche culture - tribali, pagane; ma anche nelle filosofie non prive di
raffinatezza - si legge qui e là, la vita non aveva il valore che essa ora ha.
E questo è certo. Ma in che senso? Il fatto è che sempre meno la si accetta,
sempre meno ci si adatta alla morte; è che sempre più ossessivamente (lo
dimostrano i film “horror”, o pratiche quali l’ibernazione) si vuole una vita
oltre la morte; laddove è stato il materialismo indotto dai progressi
scientifici e dal mito della ricchezza, che comunque producono coscienza laica
e non una cultura spiritualistica, a impiantare il mito della preservazione
della vita a tutti i costi, confondendo in modo incolto fra la vita e il rinvio della morte. Il che fa presumere per riflesso che la letteratura
del tardo medioevo e della prima età moderna, gli scritti di quei tempi,
intitolati alla preparatio mortis, presupponessero l’accettazione della morte, non il suo
rifiuto.
Ma
anche qui bisogna essere chiari: chi dispone della propria vita, per dire della
propria morte, non lo fa perché non ama la vita, e chi rifiuta la morte lo fa
perché attestato su una coscienza e volontà astratte, che non ammettono
eccezioni, che tengono lontana da sé, o rimuovono, la problematica della morte,
e che alla fine non possono non rimettersi alla pura biologia, con la sua
evidenza cieca o con la sua oscurità esistenziale. E a questo bisogna aggiungere - a voler
contrastare i nemici del diritto alla morte - che non si può vivere
scientemente come si fosse immortalati in un cartone animato o in una
emulazione digitale. Ed anche che né la libertà può essere scissa dalla
necessità, altrimenti non sarebbe pensabile né la stessa libertà né diritto
civile; né la responsabilità è tale se essa non viene esercitata mediante
scelte difficili e dolorose.
Ma
la storia rifiutata o rimossa non si ferma al suicidio presso i Romani e alla
possibilità di darsi nell’antichità in generale una morte virtuosa o eroica: la
parola eutanasia ha radici greche e appartiene già a quell’antica cultura. Ma
vi è un aspetto che non dovrebbe sorprendere, in detta cultura, ed è la
distinzione tra morte ed eutanasia. Due cose dunque e non una sola. Laddove gli
dèi presentano debolezze umane e vulnerabilità, lì la morte è un che di
naturale, cui cioè bisogna rassegnarsi; essa non ha valore in sé come momento,
e lì il “dolce morire” si rivela rispetto ad essa concetto autonomo. E questo
aiuta a capire, anche i tempi che viviamo: perché emergono così con chiarezza
una interiorità, per cui la morte è accettata ed è carica di valori ma con
riferimento alla vita, ed una esteriorità, per cui essa è un fatto biologico
certo. Ed anche lì, ad un certo punto, questi due aspetti sono venuti in
contrasto.
Vi è
un significato, attribuito alla filosofia di Platone, per cui l’eutanasia
consiste nel morire dopo avere ben vissuto. Laddove cioè non si ha il
riferimento immediato di quel “eu”, “bene”, alla sofferenza del corpo o alla
paura e coscienza del morire, e laddove invece è il bilancio della vita, e
dunque una certa quale coerenza morale finale rispetto ad essa, ciò che
maggiormente conta.
Ma
perché, bisogna domandarsi, questo guardare indietro, alla vita trascorsa per
come moralmente - e sia pure materialmente - essa è stata vissuta, oltre che
perché in non-contraddizione con essa? Forse la spiegazione è da cercare in un
altro aspetto della filosofia platonica, quello secondo cui si può dimostrare
che l’anima non può morire.
L’insegnamento,
appreso a quanto si dice dal filosofo greco nel suo viaggio in Egitto, è tale,
se si può sì stabilire un legame di coerenza o ragionevolezza fra il valore
della morte quale giudizio morale finale sulla propria vita e l’immortalità; ma
laddove l’immortalità (e i Latini avrebbero parlato di animus, il che
non significa “anima”) sembra essere un corollario, o una conseguenza, di una
esistenza condotta virtuosamente. E a corroborare siffatta lettura può valere
l’importanza - altro aspetto saliente della filosofia di Platone - della teoria
della memoria, che mira alla continuità oltre la vita individuale, nella sua
forte analogia con la metempsicosi.
Apparentemente
questo discorso su Platone e i suoi insegnamenti, è avulso dal discorso del
suicidio dei pagani; ma ciò è vero appunto solo nell’apparenza, perché se può
stabilirsi il legame, allora, posti i termini della questione su un piano di
filosofia morale, è su quel piano che possono essere ricercate le ragioni di
ogni opposizione al diritto alla morte.
Dunque
anche forse nessuna sorpresa, con riferimento alle attuali polemiche, così
tendenti alla semplificazione, se il cristianesimo ammette anche l’immortalità
della carne, anzi la sua finale resurrezione, nella biblica valle di Giosafat. Il
che non può non lasciare perplessi.
Rielaborazione di uno scritto del 2010
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