domenica 4 agosto 2013

Il suicidio e la ... prigione (da alcuni miei colloqui con Armando Rigobello)




Gli dèi sono immortali, nel senso - anche - che essi tutto possono fuorché volere la propria morte. 
Ciò è quanto si trae, a illustrazione della cultura pagana, dalla naturalis historia di Plinio il Vecchio - opera sua o quanto meno da lui iniziata. E qui si profila subito il corollario, paradossale forse: dunque se gli dèi sono immortali, allora essi non sono 'liberi', non lo sono pienamente. Ovvero, per parodiare Sartre, gli dèi non sarebbero condannati a essere liberi. Ed è un contributo ulteriore, questo, a un’antica questione filosofica (si pensi al Cicerone del de natura deorum; ma già prima alla tesi degli intermundia, di Epicuro): come e dove vivono gli dèi, quale il loro pensiero o animo, per dire: quale la loro natura od origine? E perché mai - qui la domanda risulta opportuna - essi 'invidierebbero' i mortali?... 
Sartre diceva esattamente: «l'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa». Due passi appena nella logica dunque e si resta sorpresi dal fatto che creazione e libertà possano divergere nettamente, o quasi, contrapponendosi… Il che fa calare però più di qualche ombra di dubbio sul significato definitivo della seconda parola... Che cosa significa infatti essere «condannato a essere libero»? 
La volontà in generale comunque, sino nella sua celebrata onnipotenza o se si preferisce nella sua verità indiscutibile, appare così un che di successivo, che sta quasi a identificare nella divinità un limite naturale, o costitutivo: quello di essere quello che è. 
Inoltre: non potendo gli dèi rinunciare ad essere, essi non dovrebbero parimenti, potendolo fare (?), "sciogliere" la vita umana. Resta però il fatto che essi non hanno quella potenza o che cosa del volere o decidere che sembra invece insita nella natura dell’uomo, se questi si suicida, come fece esemplarmente Anneo Seneca, nel segno della cultura del suo tempo e di una "libertà" estrema. 
Lucio Anneo Seneca
In che senso allora, a voler muovere il passo successivo, si può ritenere che gli dèi possano solo non volere la morte dell’uomo, segnatamente se procurata? Essi infatti - e ciò è nella evidenza - se non possono volerla non possono impedirla. Così è per le culture pagane, così sembra non potere non essere per qualsiasi ordinamento giuridico ancor prima che per ogni ordine morale. Mentre su questo punto la cultura cristiana si mostra intransigente e chiara e considera il suicidio sempre negativamente o, per dirla con Blumenberg, come un’onta
Un primo svolgimento del thema suicidio è un po’ questo. Ma le proposizioni non vincono i postulati ed è difficile, pur ammettendo la libertà dell’uomo - quanto lo è avere certezze sulla esistenza degli dèi -, stabilire quando si tratta di "libertà" e quando di "necessità", essendo queste categorie indissolubili quanto alle volte difficilmente interpretabili. 
Venendo ora all’epoca moderna, una spiegazione filosofica plausibile del suicidio è che esso accade quando l’esistenza (ma - mettiamo - l'adolescente quando lo fa non lo sa) va a sbattere contro il muro altissimo, divenuto anonimo, buio, angosciante, ostile, del trascendentale. Il quale (trascendentale) è un vanto, è qualcosa, come suggerisce Pascal, che ci rende superiori a ciò che ci dà la morte: una pietra, un bastone, un terremoto, un serpente velenoso. Già; ma  non alla morte, ovvero non solo superiori e anche prigionieri; o forse anche superiori a noi stessi, che pretendiamo catturarlo; ma secondo quale condizione? Dunque il trascendentale che confina con l'infelicità; che ad essa è legato fortemente; o con ciò che è vano... 
Dell’uomo quale roseau pensant il matematico e filosofo francese scriveva nei suoi Pensieri: «Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente». E cioè (così il prof. Rigobello, da me intervistato): io muoio cosciente; ma non lo è, cosciente, il macigno che mi schiaccia. Sennonché questo a sua volta va spiegato; siamo proprio certi insomma che non si tratti di una prigione? 
Emmanuel Mounier
E aggiungerei, poiché mi ci porta il mio amico filosofo: dire Pascal per me significa dire già Mounier il quale nella rivista Esprit avrebbe scritto: «Ogni persona ha un significato tale da non poter essere sostituita nel posto che essa occupa nell'universo delle persone. Tale è la maestosa grandezza della persona che le conferisce la dignità di un universo; e tuttavia la sua piccolezza, in quanto ogni persona è equivalente in questa dignità, e le persone sono più numerose delle stelle» (Il personalismo, p. 81). Ma nello stesso tempo avverto come un riflesso, nell'animo: e se la filosofia di Pascal, adatta per così dire a un protocristiano che si lasci sbranare per la sua fede, ti lasciasse intravvedere il buio del suicidio ma non scoraggiandoti o chiamandolo in altro modo? 
Già, come supplire dunque alla fragilità? Che cosa è in grado di tradurre questa in una maestosa grandezza, restando fermi agli elementi costitutivi della figura umana? E qui forse sorprendentemente ci si para davanti non la categoria del trascendente - con cui i conti sono chiari - ma quella del trascendentale, più vicina al sentimento morale della vita, meno attaccabile. 

La categoria del trascendentale nasce con Kant; ma laddove questi potesse anche indurre al suicidio (episodio, riferitomi dal mio illustre interlocutore, del poeta von Kleist, che dopo avere letto la Critica della ragion pura si suicidò assieme alla moglie), come si sarebbe potuta tradurre quella categoria in forza vitale, così in qualche misura se ne sarebbero potuti individuare esiti opposti. 
Forse allora che la filosofia per eccellenza dell’antisuicidio è il personalismo, filosofia-non filosofia o magari, nella mia ottica, filosofia esegetica assai francese dell'amore di sé? La quale, a differenza dell’esistenzialismo, vuole - e riesce a farlo - teorizzare lo slancio vitale, avversario del nulla («Il nulla non si può dire: noi siamo strutturalmente dentro l’essere», sostiene sempre Rigobello), reinterpretando il pensiero occidentale, cercandovi un cuore. O con la quale se vogliamo l'esistenzialismo - laddove la vitalità è come amore ed è energia positiva - è una cittadella solo momentaneamente espugnata; nella quale il nocciolo di ogni esistenzialismo è come trasceso, spiazzato, quasi nascosto da una luce, che spiega a modo suo la vita. È una filosofia della vita, il personalismo, che chiama a sé il trascendentale epperò lo anima, lo arma dell’unica vitalità cosciente, quella dell’uomo. Ne fa una benefica prigione, ovvero: «condizione universale necessaria […] che è qualcosa in cui siamo come ingabbiati» (Rigobello). Con il che, a mio modo di vedere, si muove verso la convalida della tesi della prigione. 
Ma l’intelligenza del personalismo è vivida ed estesa e non perde mai d'occhio il suo contrario: essa non dimentica la fragilità dell’uomo (la si chiami faiblesse, à la Montaigne, o in altro modo) e parla, sempre con Mounier, di optimisme tragique; che dunque resta una locuzione che lascia pensare - al di là della sua eleganza o della sua intelligenza delle cose - mettiamo sino a una terapia. 
Dunque la filosofia della negazione del suicidio è come fissasse nella sua autodefinizione quel suo contenuto che è dato dal confronto con qualcosa di cui avverte la minaccia costante e di cui ritiene necessario liberarsi, o che meglio vuole trasformato, forse trasfigurato. 
La teoria della morte cosciente non voluta ma inevitabile descritta da Pascal lascia pensare: dunque se io muoio non muore il trascendentale che così è invece rimesso al gioco dell’universo (ciononostante io non posso non amare il trascendentale che è in me, poiché esso è un po’ il mio me stesso acquisito trascendendo me stesso; ma qui è il bivio, ovvero qui è l’inganno). La verità, in quel momento in cui il tragico possa avere smarrito l’ottimismo, è che il trascendentale né muore con me né è salvifico; che il Padre non può soccorrerci, che il suo amore è limitato, o alla fin fine impotente. Quasi Egli ci invitasse a fare da soli. 
Quale miglior prova allora che Egli, il Padre, anche se fosse causa sui non per questo sarebbe causa del mondo e della storia? Le prove in tal senso sovrabbondano (esempio eclatante è il campo di sterminio, raccontato da Eli Diesel, con l’immagine del bambino impiccato, che in quel momento era Dio "appeso") e il difetto di verità è quello stesso che anima l’idealismo tedesco e il suo storicismo (la storia come «affermazione del soggetto assoluto che prende piena coscienza di sé stesso»: Hans Blumenberg, in Blumenberg-Schmitt, L’enigma della modernità, p. 162). Laddove gli intermundia si tramutano nel difetto di una natura perfetta e superano il teorema d'oltralpe della piena incomunicabilità-incommensurabilità fra uomo e Dio. 

È in altre parole il trascendentale che è in noi (che fa di ciascuno - almeno così crediamo - un unicum) e che in qualche modo ci consente di dominare con schemi la realtà, che se da una parte è il sale o il pretesto vitale della esistenza, dall’altra a un certo punto può cessare di essere la molla della vita, o di offrire mille spiegazioni più o meno illusorie (l’avvenire di una illusione è il titolo del saggio freudiano sulla religione) o consolatorie sul senso della stessa. 
Quando non si può più trascendere (trascendentale come «meta da raggiungere, nel cosiddetto trascendimento»: è la sottile osservazione di Rigobello), o andare oltre, o quando si teme o si ha motivo di non poterlo fare più, a causa di una grave malattia che ci condanna, se non si sopporta oltre una condizione d’impotenza e si spegne il fuoco della vitalità, allora ci si suicida o quanto meno sul piano degli effetti (già: ma quante e quali sono le eutanasie?) ci si lascia morire. 
La verità è anche, credo, che il trascendentale ha qualcosa di magico in sé e che su questo piano la posizione occupata dal credente è vantaggiosa: egli riunisce nella sua persona sia la energia biologica (la sua cosiddetta "bioetica" è un po' in questo) sia quella religiosa, sia qualsiasi altra che valga a offrire un pretesto efficace per l’esistenza. Ma può essere che il credente - e così colui che sa di sperare («spero non so in che cosa ma so che spero»: Marcel) ma qui la posizione è più vulnerabile - perda la fede (e la speranza), come può essere che la fede di chi non ha fede decada o cessi; se allora non possono affidarsi al loro slancio vitale, se le energie vanno verso un blocco, costoro si sentono persi. 
Chi è dunque il suicida? È colui che non sa più trascendersi, che non trova più la forza necessaria per farlo con il suo alimentarsi della fede, di qualsiasi, non solo di quella religiosa, dunque nemmeno a livello vitalistico-biologico o di azione pura; che - anche - non fruisce più del magico. Una negazione impulsiva del biologico che ognuno è. 
Oppure, per metterla sul piano della conoscenza, io a un certo punto, vivendo il limite, vengo a sentire o a sapere che non potrò sapere più di ogni sapere possibile, ovvero che non potrò mai sapere, essendo anche profondamente stanco di quel teatrino delle rappresentazioni cui sembra riducibile persino la scienza più rigorosa e geniale; dopo aver raggiunto la massima coscienza smascherando le illusioni, non posso più tornare indietro e riguadagnare le illusioni perse (è la grande stanchezza che mi farà vedere solo sacchi vuoti e vanità d’immagini): questa grosso modo ritengo possa essere la condizione mentale del suicida. 
Come si vede, ci troviamo ad avere guadagnato ora una posizione che traduce il limite degli dèi pagani nella impotenza del Padre, o del Dio cristiano, che non ci potrà salvare - laddove il fedele abbracciando inconsapevolmente posizioni pagane (il cristiano diviene qui stranamente fatalista) forse si attende l’intervento di una forza superiore: il miracolo, suprema volontà e cioè suprema casualità e così una certa idea poco storica forse di Provvidenza. 
Che l’esistenzialismo sia un personalismo impoverito, o che il personalismo sia un esistenzialismo arricchito? Siamo dunque a vite parallele e siamo sulla falsariga di un mio articolo precedente. Con un ulteriore approfondimento, però.

«Io non mi sono suicidato», afferma istintivamente il professor Rigobello sorridendo e meglio sorridendomi, e la prova più convincente di un’affermazione tutt’altro che ovvia è nel dato di fatto: che se la vita continua io non posso conoscere la sua negazione, o meglio ancora non posso aver calcato i campi di una negazione dell’essere che può solo dirsi negazione dell’essere - ed è questa in fondo la mia filosofia. 
Allora io gli dico, provocatoriamente: «Professore, non crede, a fronte della condanna del suicida da parte del cristianesimo, che i primi cristiani volessero il martirio e che quello fosse suicidio, motivato da una vita oltre la vita?» (Già, magari - mi dico - nemmeno una sorta di suicide altruiste, per stare alle tabelle di un Durkheim?). «Non credo», mi risponde lui, con decisione; ma io penso, e non gliene faccio mistero, al fatto che quanto meno uno possa lasciarsi morire, stanco di ogni tentativo di restare in vita e/o non sapendo del tempo esatto di vita a lui assegnato dal cosiddetto "destino". Che chiunque possa non avere più la follia sufficiente per proseguire nella sua esperienza della unicità di sé stesso - e che unicità forse - a causa della profonda diversità delle esperienze - è anche quella del finire. 
Allora: la irriducibilità della coscienza in Pascal come la irriducibilità del trascendentale, non esprimono forse una forza biologica universale? È l’universo - certo anche per mano dell'uomo - che mi uccide; ovvero: quante piante o quanti animali si danno la morte o si lasciano morire? O quanti potrebbero negare che l’uomo è ciò che di lui sempre vive o sopravvive? 
Allora io controbatto che ci sono modi in cui uno si lascia morire magari negli anni accettando i rischi di una malattia mortale e che sono anche queste in fondo forme (tendenzialmente impercettibili) di suicidio. E lì il colloquio si arresta: forse ho detto qualcosa che non avrei dovuto. E non ho parlato dell'eroe, del guerriero appunto incosciente il cui estremo vitalismo altro non è che la traduzione della paura nel suo opposto, ché egli combattendo mette in gioco la sua vita. E qui è l'attimo, la negazione del tempo, ciò che conta. Ed è lì che tanta filosofia insiste sulla vita, non senza ostinazione... 

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