Agli
inizi - non so quanto ... simpaticamente - il popolo l’aveva battezzata Louisette,
o Petite-Louise, dal nome di Antoine Louis, segretario perpetuo
dell’Accademia francese di Medicina; il quale - come chiunque fosse valso ad
immortalare uno strumento di morte - mostrò subito di “non gradire”. Essa sarebbe anche stata battezzata glaive de la liberté, hasche populaire; ma il suo
nome definitivo, per volere della stampa dell’epoca, sarebbe stato Guillotine,
un po’ per vendetta nei confronti di Joseph-Ignace Guillotin, deputato
dell’Assemblea nazionale e uomo - si dice - dal brutto carattere; un po’ a
causa della rima con machine, che avrebbe consentito la composizione di
epigrammi e canti popolari.
Ma - mi domando - era solo questione di rima? Qualora si possa in qualche modo supporre, o addirittura dimostrare, che la storia politica e giuridica si è potuta mescolare - non senza una qualche singolarità nonché retorica - con la storia delle macchine?; la cui ideazione possa sempre aiutare a comprendere lo spirito di un’epoca?
Da una parte non era una novità, per la storia e natura del nostro diritto criminale, che l’esecuzione o la tortura necessitassero di dispositivi di vario genere; e peraltro l’Inghilterra di fine duecento aveva già conosciuto il “patibolo di Halifax”, in tutto o quasi simile alla ghigliottina, e strumento analogo si trova raffigurato in una stampa irlandese del primo trecento; dall’altra si può ritenere che durantela Rivoluzione francese
anche il diritto criminale - si pensi alle molte pagine dedicate nella Encyclopédie
a dispositivi semplici e complessi - subisse ma in un modo non più episodico il
segreto potere della macchina. La quale, per essere chiamata a dare
direttamente la morte, doveva essere semplice, efficace, impeccabile, in grado
di sostituirsi alla mano dell’uomo che è pur sempre fallibile, e di accelerare
il “lavoro”.
Il boia - lo scrisse per sua esperienza personale l’allora giustiziere di Parigi, Charles-Henry Sanson, in una lettera al ministro della giustizia, Duport-Dutertre - ha la mano malferma?, il suo può non risultare un lavoro “pulito” rischiando invece di tradursi in bassa macelleria? Insomma la mannaia propriamente detta (: manuaria e cioè scure a due mani), alquanto rudimentale (o “troppo umana”), non rendeva pieno onore all’arte della decollazione? La soluzione poteva essere un macchinario, in grado di far saltare al condannato “la testa in un batter d’occhio”, senza peraltro recargli sofferenza: il condannato, all’atto della decapitazione, avrebbe percepito nulla più che un “gradevole” soffio sul collo. Un lavoro insomma pulito e per giunta … indolore: minor pena nella pena, per il condannato.
Quando il dottor Guillotin, che non ne fu l’inventore, presentò la prima volta più o meno in questi termini (almeno a leggere la stampa di allora) la nuova idea, egli suscitò - e la cosa lo mandò su tutte le furie - l’ilarità dell’Assemblea nazionale e dei cronisti presenti.
Ma
come la macchina è la macchina, così il destino è il destino; e come il
progetto iniziale di codice penale prevedeva l’abolizione della pena capitale
mentre invece Robespierre avrebbe ampiamente esercitato, per non rinnegare la Rivoluzione , il
diritto della repubblica a dare la morte, così la ghigliottina, strumento moderno
ed efficace, avrebbe non solo simboleggiato la Rivoluzione dell’ ‘89
- ché l’eguaglianza della macchina punitiva avrebbe ricondotto gli
aristocratici e finanche i monarchi ad una legge comune - ma sarebbe ad essa
sopravvissuta, per essere adottata, sia pure con qualche variante tecnica,
negli stati della Restaurazione.
Ed ancora: dopo lo smacco subito da Guillotin, il progetto della nuova macchina di morte fu ripreso ma per essere affidato ad Antoine Louis, mentre la materiale costruzione fu appannaggio di certo Schmidt, clavicebalista prussiano amico di Sanson. Pare anche - ecco ancora affacciarsi il destino - che fosse lo stesso Luigi XVI (siamo nel 1792) a suggerire, con certo quale zelo tecnico, l’adozione della lama obliqua, in luogo di quella ricurva, per garantire una maggiore efficacia nel taglio. Il re mai avrebbe potuto immaginare di contribuire alla progettazione - e discorso analogo va fatto con riferimento al suo uso politico per Robespierre - di quella stessa macchina, che circa nove mesi dopo gli avrebbe tagliato la testa.
Il destino appunto è il destino ed esso si nutre della volontà umana quanto degli strumenti, che quella volontà realizza e mette a punto, restituendo punti al destino. La machine era nata nello spirito di una trasformazione del diritto penale: Guillotin, prima dello smacco di cui si è detto, aveva presentato in data 9 ottobre 1789 un progetto di legge in sei articoli, nel quale si stabiliva fra l’altro che le pene sarebbero state identiche per tutti, a prescindere dalla classe sociale del condannato (art. 1), e che in caso di condanna a morte, il trattamento sarebbe stato lo stesso indipendentemente dal crimine commesso, e sarebbe consistito nella decapitazione (art. 2), non già nella impiccagione (che pure aveva i suoi sostenitori), secondo quanto sarebbe stato poi sancito nel codice penale del 1791: “ogni condannato a morte avrà tagliata la testa”.
L’evoluzione dei fatti dunque appare significativa: non solo l’egualitarismo rivoluzionario avrebbe vieppiù avuto (si pensi all’evoluzione della rivoluzione stessa, che sarebbe sfociata nel Terrore) nella ghigliottina il suo strumento ideale, il suo simbolo, laddove essa avrebbe reso effettivo un diritto all’eguale morte per condanna; ma ciò sarebbe accaduto entro un ordine delle cose per cui il diritto penale dové essere riformato legislativamente.
La machine dunque faceva un tutt’uno, per volontà politica, o per volontà degli uomini, con la riforma della pena capitale, nel senso anche e che ad essa tanto il diritto criminale quanto la politica sarebbero stati affidati e che comunque in essa si era insinuata la raison.
Anche qui, sembra, non fu solo questione di rima. Se è vero che volendo cambiare lo Stato bisognava cambiare il ius puniendi, è difficile stabilire, attenendosi a tale profilo, se fosse maggiore e più energica la riforma legislativa o la rappresentazione e percezione popolare del diritto penale e dello Stato.
Inizialmente (la prima esecuzione è del 25 aprile 1792, giorno in cui fu giustiziato Nicolas Pelletier, bandito da strada) la folla restò delusa dalla ghigliottina: essa, con la sua rapidità, disumanizzava in certo modo (o come si dice “laicizzava”) l’esecuzione, non tanto perché sollevava il boia dalla sua tradizionale prestazione manuale quanto piuttosto perché non concedeva più alla gente lo spettacolo (assai violento e raccapricciante) del reo che, “giustamente” punito - se non altro per sua ammissione -, confessasse pentendosi il suo delitto ed invocasse - alla fine guadagnandoli per le sofferenze patite nel supplizio - la misericordia divina nonché il perdono degli uomini.
I tempi della esecuzione, e in questo come detto consisteva l’utile della macchina, erano molto più celeri e l’immagine del reo, non potendo egli durante il supplizio riconoscere pubblicamente la sua colpa e non avendo il tempo di guadagnarsi il perdono, sarebbe apparsa in totale balia della volontà generale e della repubblica (“Santa Ghigliottina, terrore degli aristocratici proteggeteci./ Macchina amabile, abbiate pietà di noi.”, diceva una litania).
La macchina insomma, divenuta macchina “di governo”, modificava nel senso comune, togliendo la spettacolarità della esecuzione capitale cui i tradizionali supplizi indulgevano, la rappresentazione e della reità e della pena.
Comunque fosse, era dunque destino che la ghigliottina fosse chiamata a dimostrare, in quanto macchina, che la legge è uguale per tutti. Ed in questo che i principi e diritti naturali chiedono sangue, non perdono né conciliazione; ma a questo punto il discorso si presta a una sottigliezza: che l’eguaglianza di fronte alla legge rischia di essere assorbita troppo dal fatto che anche se non tutti sono eguali di fronte a Dio e agli uomini, essi lo sono, lo debbono essere, di fronte alla morte; ovvero che se non è possibile l’eguaglianza nella vita dev’esserlo quella nella morte. Laddove la seconda rischia di giustificare la prima.
Così la machine, disciogliendosi l’iniziale mito dell’eguaglianza che essa era valsa a corredare e dimostrare possibile, sarebbe sopravvissuta: ai Lavoisier, ai Danton, ai Robespierre. Essa sarebbe stata immortalata come simbolo; ma tale essa doveva essere, per cui monarchia e repubblica, per dire i rispettivi più autorevoli interpreti, avrebbero subito alla fine lo stesso trattamento degli altri condannati, così come ad assassini e grassatori si erano allineati in quanto alla pena i nemici politici.
La macchina insomma si sarebbe imposta, alienando l’uomo in una condizione di morte, in una sorta di eguaglianza “a prescindere”. Laddove già a quel tempo l’eguaglianza mostrava di non poter non percorrere la sua parabola, essendo riducibile, come dimostrarono gli stati della Restaurazione, ad un semplice meccanismo, per dare la morte.
Ma alla macchina e alla pena sarebbe sopravvissuto qualcosa di più forte di entrambe, e cioè la reductio ad unum che esse rappresentavano, la semplificazione, la razionalizzazione dello Stato. E lì sarebbe emerso lo spirito della storia. La macchina infatti era anche la raison, o un suo momento giuridicamente rilevante, ed in quanto tale essa liberava, a dispetto delle circa 15 mila esecuzioni, la stessa Ragione. Insomma chi vuole legare Cartesio alla Rivoluzione francese non sbaglia, o non sbaglia del tutto, se si tiene a distanza dalle precipitose identificazioni.
Sarebbe dunque dovuto cambiare lo Stato, e tanto era importante la razionalizzazione della pena capitale a vantaggio della res publica, a dispetto di certa bassa sensibilità popolare e di certi rituali, connubio tra ignoranza e religione/superstizione, quanto si spiega che Beccaria avesse già scritto contro la pena di morte.
Scossa, sotto un aspetto particolare del diritto pubblico, la superstizione popolare, chiamata da sempre ad assistere agli spettacoli, ora in un clima di laicismo - come dimostrava Beccaria - anchela
Ragione avrebbe dovuto e potuto dire la sua.
Ma - mi domando - era solo questione di rima? Qualora si possa in qualche modo supporre, o addirittura dimostrare, che la storia politica e giuridica si è potuta mescolare - non senza una qualche singolarità nonché retorica - con la storia delle macchine?; la cui ideazione possa sempre aiutare a comprendere lo spirito di un’epoca?
Da una parte non era una novità, per la storia e natura del nostro diritto criminale, che l’esecuzione o la tortura necessitassero di dispositivi di vario genere; e peraltro l’Inghilterra di fine duecento aveva già conosciuto il “patibolo di Halifax”, in tutto o quasi simile alla ghigliottina, e strumento analogo si trova raffigurato in una stampa irlandese del primo trecento; dall’altra si può ritenere che durante
Il boia - lo scrisse per sua esperienza personale l’allora giustiziere di Parigi, Charles-Henry Sanson, in una lettera al ministro della giustizia, Duport-Dutertre - ha la mano malferma?, il suo può non risultare un lavoro “pulito” rischiando invece di tradursi in bassa macelleria? Insomma la mannaia propriamente detta (: manuaria e cioè scure a due mani), alquanto rudimentale (o “troppo umana”), non rendeva pieno onore all’arte della decollazione? La soluzione poteva essere un macchinario, in grado di far saltare al condannato “la testa in un batter d’occhio”, senza peraltro recargli sofferenza: il condannato, all’atto della decapitazione, avrebbe percepito nulla più che un “gradevole” soffio sul collo. Un lavoro insomma pulito e per giunta … indolore: minor pena nella pena, per il condannato.
Quando il dottor Guillotin, che non ne fu l’inventore, presentò la prima volta più o meno in questi termini (almeno a leggere la stampa di allora) la nuova idea, egli suscitò - e la cosa lo mandò su tutte le furie - l’ilarità dell’Assemblea nazionale e dei cronisti presenti.
Esecuzione capitale di Luigi XVI |
Ed ancora: dopo lo smacco subito da Guillotin, il progetto della nuova macchina di morte fu ripreso ma per essere affidato ad Antoine Louis, mentre la materiale costruzione fu appannaggio di certo Schmidt, clavicebalista prussiano amico di Sanson. Pare anche - ecco ancora affacciarsi il destino - che fosse lo stesso Luigi XVI (siamo nel 1792) a suggerire, con certo quale zelo tecnico, l’adozione della lama obliqua, in luogo di quella ricurva, per garantire una maggiore efficacia nel taglio. Il re mai avrebbe potuto immaginare di contribuire alla progettazione - e discorso analogo va fatto con riferimento al suo uso politico per Robespierre - di quella stessa macchina, che circa nove mesi dopo gli avrebbe tagliato la testa.
Il destino appunto è il destino ed esso si nutre della volontà umana quanto degli strumenti, che quella volontà realizza e mette a punto, restituendo punti al destino. La machine era nata nello spirito di una trasformazione del diritto penale: Guillotin, prima dello smacco di cui si è detto, aveva presentato in data 9 ottobre 1789 un progetto di legge in sei articoli, nel quale si stabiliva fra l’altro che le pene sarebbero state identiche per tutti, a prescindere dalla classe sociale del condannato (art. 1), e che in caso di condanna a morte, il trattamento sarebbe stato lo stesso indipendentemente dal crimine commesso, e sarebbe consistito nella decapitazione (art. 2), non già nella impiccagione (che pure aveva i suoi sostenitori), secondo quanto sarebbe stato poi sancito nel codice penale del 1791: “ogni condannato a morte avrà tagliata la testa”.
L’evoluzione dei fatti dunque appare significativa: non solo l’egualitarismo rivoluzionario avrebbe vieppiù avuto (si pensi all’evoluzione della rivoluzione stessa, che sarebbe sfociata nel Terrore) nella ghigliottina il suo strumento ideale, il suo simbolo, laddove essa avrebbe reso effettivo un diritto all’eguale morte per condanna; ma ciò sarebbe accaduto entro un ordine delle cose per cui il diritto penale dové essere riformato legislativamente.
La machine dunque faceva un tutt’uno, per volontà politica, o per volontà degli uomini, con la riforma della pena capitale, nel senso anche e che ad essa tanto il diritto criminale quanto la politica sarebbero stati affidati e che comunque in essa si era insinuata la raison.
Anche qui, sembra, non fu solo questione di rima. Se è vero che volendo cambiare lo Stato bisognava cambiare il ius puniendi, è difficile stabilire, attenendosi a tale profilo, se fosse maggiore e più energica la riforma legislativa o la rappresentazione e percezione popolare del diritto penale e dello Stato.
Inizialmente (la prima esecuzione è del 25 aprile 1792, giorno in cui fu giustiziato Nicolas Pelletier, bandito da strada) la folla restò delusa dalla ghigliottina: essa, con la sua rapidità, disumanizzava in certo modo (o come si dice “laicizzava”) l’esecuzione, non tanto perché sollevava il boia dalla sua tradizionale prestazione manuale quanto piuttosto perché non concedeva più alla gente lo spettacolo (assai violento e raccapricciante) del reo che, “giustamente” punito - se non altro per sua ammissione -, confessasse pentendosi il suo delitto ed invocasse - alla fine guadagnandoli per le sofferenze patite nel supplizio - la misericordia divina nonché il perdono degli uomini.
I tempi della esecuzione, e in questo come detto consisteva l’utile della macchina, erano molto più celeri e l’immagine del reo, non potendo egli durante il supplizio riconoscere pubblicamente la sua colpa e non avendo il tempo di guadagnarsi il perdono, sarebbe apparsa in totale balia della volontà generale e della repubblica (“Santa Ghigliottina, terrore degli aristocratici proteggeteci./ Macchina amabile, abbiate pietà di noi.”, diceva una litania).
La macchina insomma, divenuta macchina “di governo”, modificava nel senso comune, togliendo la spettacolarità della esecuzione capitale cui i tradizionali supplizi indulgevano, la rappresentazione e della reità e della pena.
Comunque fosse, era dunque destino che la ghigliottina fosse chiamata a dimostrare, in quanto macchina, che la legge è uguale per tutti. Ed in questo che i principi e diritti naturali chiedono sangue, non perdono né conciliazione; ma a questo punto il discorso si presta a una sottigliezza: che l’eguaglianza di fronte alla legge rischia di essere assorbita troppo dal fatto che anche se non tutti sono eguali di fronte a Dio e agli uomini, essi lo sono, lo debbono essere, di fronte alla morte; ovvero che se non è possibile l’eguaglianza nella vita dev’esserlo quella nella morte. Laddove la seconda rischia di giustificare la prima.
Così la machine, disciogliendosi l’iniziale mito dell’eguaglianza che essa era valsa a corredare e dimostrare possibile, sarebbe sopravvissuta: ai Lavoisier, ai Danton, ai Robespierre. Essa sarebbe stata immortalata come simbolo; ma tale essa doveva essere, per cui monarchia e repubblica, per dire i rispettivi più autorevoli interpreti, avrebbero subito alla fine lo stesso trattamento degli altri condannati, così come ad assassini e grassatori si erano allineati in quanto alla pena i nemici politici.
La macchina insomma si sarebbe imposta, alienando l’uomo in una condizione di morte, in una sorta di eguaglianza “a prescindere”. Laddove già a quel tempo l’eguaglianza mostrava di non poter non percorrere la sua parabola, essendo riducibile, come dimostrarono gli stati della Restaurazione, ad un semplice meccanismo, per dare la morte.
Ma alla macchina e alla pena sarebbe sopravvissuto qualcosa di più forte di entrambe, e cioè la reductio ad unum che esse rappresentavano, la semplificazione, la razionalizzazione dello Stato. E lì sarebbe emerso lo spirito della storia. La macchina infatti era anche la raison, o un suo momento giuridicamente rilevante, ed in quanto tale essa liberava, a dispetto delle circa 15 mila esecuzioni, la stessa Ragione. Insomma chi vuole legare Cartesio alla Rivoluzione francese non sbaglia, o non sbaglia del tutto, se si tiene a distanza dalle precipitose identificazioni.
Sarebbe dunque dovuto cambiare lo Stato, e tanto era importante la razionalizzazione della pena capitale a vantaggio della res publica, a dispetto di certa bassa sensibilità popolare e di certi rituali, connubio tra ignoranza e religione/superstizione, quanto si spiega che Beccaria avesse già scritto contro la pena di morte.
Scossa, sotto un aspetto particolare del diritto pubblico, la superstizione popolare, chiamata da sempre ad assistere agli spettacoli, ora in un clima di laicismo - come dimostrava Beccaria - anche
(scritto nel 2010)
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