Leggevo, tempo fa, un breve
contributo - a cura dei Quaderni della rassegna dell’ordine degli avvocati di
Napoli - sulla personalità criminale.
Il mio approccio alla lettura e
alla questione era determinato da una forte curiosità e meglio da una curiosità
“di sempre”: capire una volta per tutte se detta “personalità” è l’eccezione
che conferma la regola o non piuttosto un che di naturale; se essa fa parte
dell’errore o se essa è umana come lo sono il parlare, l’avere due orecchie e
un naso, il nutrirsi, ecc. Perché la personalità in tal senso non è certo
compiuta, rotonda, evidente; essa vieppiù è qualcosa che sorprende, ché si
annida nell’essere umano determinandolo in certi momenti o condizioni, che poi,
non senza rendere onore al positivismo, si possano dire specifici. E questo
per non chiedermi, ma essendo comunque la cosa per così dire velata, che cosa
pensa il criminale di sé stesso, prima ancora che della sua condotta. Egli
sente di agire per il bene o per il male?
Il punto di vista che si chiedeva
alla parte di me non-giurista, non-criminologo, era nel non voler essere
determinato da due poli pregiudiziali, entrambi aventi patria nella sensibilità
comune: né da quello che risolve ogni questione con la facile severità, spesso
retorica, rassicurante, delle condotte reattive cosiddette “maschie”, o “muscolari”,
della cosiddetta Zero Tolerance e della invocazione della pena “esemplare”; né
da quello della pretestuosità “ideologica” e meglio politica della suddetta
personalità, stile definito (nel contributo in questione) frettolosamente -
credo - come congeniale al “Sessantotto” (quasi W. Reich, con la sua teoria
psicoanalitica della trasmissione della condotta criminale, fosse poco più che un re degli hot dogs) ma alla quale va riconosciuta comunque la veridicità
sociologica della possibile identificazione del criminale o del terrorista con
il povero e l’oppresso.
Cesare Lombroso |
Se ho ben compreso,
non solo è difficile stabilire una volta per tutte sino a che punto la
personalità criminale sia eguale a sé stessa, inscritta nella natura dell’uomo
prima ancora che solo di certi uomini (il vecchio e mai troppo invecchiato -
nella lode o nel vituperio - discorso lombrosiano); ma è difficile definire in
modo inattaccabile il concetto di personalità. Innanzitutto: è interiorità o
esteriorità?
A questo riguardo, il
più classico dei contributi può essere ritenuto pur sempre quello freudiano e
cioè la tripartizione della natura umana in “ego”, “super-ego”, “es” o “id”,
che gli Autori riprendono unitamente ad altri contributi storici, ma invitando,
almeno me per quello che è il mio modo di sentire e pensare, a una
considerazione estremamente pessimistica. Se lo “es” è quel territorio della
libido che versa in una condizione tale per cui l’“ego” non esiste se non
governato dal “super-ego”, e cioè dal modello effettivamente agente ed
inconfessato, allora la personalità è davvero la pura maschera e l’uomo è un
contenitore animato di risorse (per così dire) mai determinate dall’individuo.
Il problema della
personalità, assecondando certe ricostruzioni - e questo soltanto mi ha spinto
a pensare in termini di definizione ultima -, sarebbe nell’ambiente, in un che
di esteriore e non d’interiore, da ricollegare al comportamento; ma
aggiungerei: ambiente in ogni senso: familiare, di giuochi, umano, politico,
generalmente fattuale, economicamente dato, sanitariamente inteso, ecc., a
voler rispettare la sua complessità. Ma ciò a sua volta richiede una
dimostrazione quasi impossibile sui presupposti, non però sul senso della cosa,
e cioè: la criminalità si combatte comunque “migliorando” l’ambiente e cioè ciò
che è esterno, che è ogni qualsiasi condizione esistenziale. E tutto questo se
è vero che ciò che è dentro è perché è fuori, nel linguaggio espresso e nelle
azioni. Ma, considerando assai seriamente come l’ambiente e l’esteriorità
quanto meno da un secolo a questa parte abbiano preso per così dire “il largo”,
è sempre e solo così? Tutto si può risolvere in questa necessaria soluzione? O
vi è dell’altro, vi è la pura e semplice follia, la genesi comunque interiore,
l’indemoniamento, che repentinamente esplode, il corpo sano che
sorprendentemente è invaso, posseduto, dallo spirito maligno? Che anche le
libertà borghesi e la società dei diritti purtroppo possono alimentare?
Sigmund Freud |
Tutto - credo - deve
in qualche misura essere pensato per dire mai dimenticato, mai rimosso, anche
ciò che l’esorcismo può dimostrare, se si vuole dare prova d’intelligenza, o di
volontà di capire. E il problema potrebbe essere a questo punto addirittura il
Male, come entità, ma entità dominante, non d’eccezione; presenza che ti
prende, e piace, attrae, ammalia; ma in questo buia, oscura. E parimenti si
potrebbe tornare su Rousseau con le sue scritture alle volte inquietanti, e
pensare al fatto che l’uomo è sì buono per sua natura ma tanto quanto nasce
libero. Affermazione, io credo, che a questo punto può dare più di qualche
sospetto: libero sì; ma di fare che cosa, (magari) pur di rompere i vincoli, in
generale? E potrebbe addirittura non doversi escludere, come alcuni da sempre
propugnano, che nella stessa libertà si abbia il focolaio delle condotte
criminali. Pensiero questo che se fosse conclusivo allora allontanerebbe dalla
natura stessa del problema.
Ma quale - mi domando
- la motivazione reale dello scritto in esame? Almeno per ciò che ne ho saputo
trarre? Ed ecco forse una indicazione alquanto concreta: ne emerge il valore
della questione giovanile, più di quanto la stessa testualità
giuridico-letteraria non dica. Perché se si argomenta di norma penale e di
crimine lo si fa pensando il futuro, per quello che ne emerge già nel presente
(il futuro è la realtà). E il futuro è ciò che le nuove generazioni un po’ sono
e un po’ immaginano come tale.
L’impressione
allora è la seguente: se non si comprende la questione giovanile non si
comprende nemmeno la questione criminale; bisognerebbe abbandonare il punto di
vista adulto e un po’ sempre patriarcale, facilmente limitativo. Forse - mi
sono detto a un certo punto - quel contributo sulla personalità criminale è
stato scritto perché è la questione minorile o ciò che parlandone inquieta al
di là dello specifico, che spinge e cioè la questione del modo come si forma la personalità e in essa la parte
criminale, in un mondo che incessantemente e caoticamente cambia ambiente e
testa.
Secondo
un diritto e filosofia penali non più ancorati a una ideologia adulta (e anche
forse “al maschile”), i minori, dal punto di vista dello studio e
dell’osservazione criminologica, cessano di essere l’eccezione, per rivelarsi
la regola. Questo è interessante: lo scritto parla della questione minorile
quasi fosse un’aggiunta o un’appendice della questione criminale in sé; ma in
realtà si deve supporre che sia la questione minorile a motivare e non poco
tutto lo scritto. Ed è a questo riguardo che risulta essere di stimolo per la
riflessione l’indagine sulle cause, avvolte per così dire nella esteriorità,
nell’ambiente e nella sempre supponibile interiorità. Interiorità, direi, che
se non è riducibile ad ambiente e condizioni economiche non è nemmeno
riducibile per il medesimo principio a materia, ovverosia cervello, sistema
nervoso, ecc. Ma che se va cercata anche nell’ambiente e nelle condizioni
economiche di vita, allora va cercata anche nel cervello.
E la
mente va subito alla codificazione e alla moderna certezza del diritto o
sovranità della legge: i codici penali non erano attrezzati per diagnosticare,
sotto il profilo della fattispecie determinata e della sanzione, sul
capitalismo che non propriamente li conteneva ma che del successo delle
borghesie nazionali e dei diritti avrebbe costituito lo sviluppo storicamente
“necessario”.
Non si
tratta dunque di criminalizzare i giovani, come non si tratta di criminalizzare
il sociale, i poveri, o lo straniero; ma ciò che si richiede è tutt’altra cosa,
e cioè ottenere la coscienza - il che non è una novità - così della
trasformazione perenne della personalità come del carattere sempre
necessariamente giovanile della personalità criminale. Come non è necessario
essere poveri per commettere un omicidio, o un furto, anzi, così non è
necessario essere adulti per farlo, se la criminalità in certo senso è sempre giovane,
imprevedibile, in una società dei diritti e libertà selvaggi. Bisogna
innanzitutto superare i tabù, o infrangerli, qualunque sia l'etichetta di
origine delle idee-tabù, per avere speranza.
È come
insomma se il diritto penale dovesse scrollarsi di dosso certo quale
determinismo, fermandosi a ipotesi del passato quasi esse attestassero
un’autorità divina e accostarsi ai meccanismi sociali e prima ancora
antropologici della vita: come sono in certo senso i giovani e cioè l’uomo
nuovo prima ancora che l’adulto il primo locus del crimine,
non la sua fonte, essendo il giovane la società stessa che cambia testa e gambe
e pancia, così è la normalità presunta da una cultura penale che muove da una
psicologia adulta a nascondere la criminalità, come ampiamente provato dalla
condotta del border-line, o dall’exploit di furia pluriomicida nella condotta
della persona “per bene”, o dal veder soffrire l’altro soprattutto se inerme
come fonte di piacere.
Questa
legge per così dire è unitaria, non sono due leggi in una; nel senso che ancora
molto si confonde, a quanto mi è dato comprendere, tra maggiore età,
imputabilità e questione criminale.
È chiaro
il limite interpretativo insito nel modello penale adulto, come non ci si può
nascondere, per quanto riguarda la letteratura filosofica classica (e alludo a
quella rousseauiana come fosse lo stesso che hobbesiana), che ci vuole un altro
essere umano per parlare di crimine.
Ma anche
qui, per dirla un po’ parodiando Carneade: dov’è e che cosa è l’essere umano?
se il ragazzo sogna di uccidere il padre e lo fa con indifferenza, se la
sorella quattordicenne uccide ferocemente il fratellino a coltellate per poi
essere vista giocare sorridente con le amichette? Se un uomo uccide la compagna
della vita e/o i figli e poi ci si suicida? Odio e amore e forse meglio neanche
odio ma per assurdo amore assoluto, il che equivale così a fragilità come a
potestà assoluta.
Non basta
nemmeno dire che la normalità è la maschera. Meglio: anche se lo è, essa -
ovvero le abitudini, il comportamento -, quando incorre nella diversità o nella
stranezza (comportamenti ieri comunemente ritenuti assurdi che oggi sono
comunemente accettati), è tollerata, come libertà del carattere. Dunque la spia
c’è e la mia sociologia non si deve fermare a sé stessa.
Perché a
quel punto è mostruoso ma ammissibile, realistico, che l’oltre-uomo
nietzscheano tragga necessariamente dal delitto la prova della propria
esistenza, oltre che la sua unica legge. È ammissibile, mutando la normalità,
che il rimosso o l’inibito muti a sua volta, nel tempo e nel modo.
Diceva
una donna di mezza età - credo croata - in una intervista televisiva,
ricordando gli incredibili eccidi perpetrati nei territori della ex Jugoslavia:
strano, per trent’anni non mi sono certo sentita odiata; non sono così scema…
E parimenti
mi confidava un ebreo romano, reduce dal campo di sterminio di Birkenau: quello
che non capirò mai è l’accanimento delle donne kapò soprattutto nei confronti
dei bambini. I bambini - ora comprendo - e cioè il corpo del cambiamento, del progresso
la cui innocenza come futuro può turbare.
Che cosa
pensare allora? Forse che la criminologia sia chiamata a teorizzare un tempo perenne
di sempre possibili atti di guerra?
(articolo del 2009)
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