Il professor Paolo Grossi, storico del diritto, attualmente membro della Corte costituzionale, in una
lezione dottorale del giugno 2013, inquadrava la nostra Carta fondamentale del
1948 nella cosiddetta età “postmoderna” (o “pos-moderna”, come egli preferisce
dire). Laddove l’idea critica che scorre sotto il postulato è l’astratto
individualismo delle costituzioni borghesi. Ma si tratta di una esatta cornice o non piuttosto di un contesto?
Ciò per cui l'insigne giurista viene a parlare di postmoderno è la fine della modernità quale individualismo delle
carte dei diritti, quelle americane e francesi del settecento per intenderci, e il fatto, in
ciò, che mai, come durante l’epoca di cui da tempo si celebra la fine, «si è
avuta una separazione tanto netta e una distanza tanto estesa tra Stato e
società. La società era concepita come il regno della irrilevanza giuridica
nella sua ripugnante magmaticità fattuale, una sorta di basamento amorfo
sepolto ben al di sotto dell’apparato statuale e ad esso estraneo nella sua
imprescindibile materialità; una materialità socio-economica che, agli occhi del
giurista moderno, non aveva qualità differenti da una struttura
geografico-fisica o geologica» (La
costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno,
in Riv. trim. dir. pubblico, n.
3/2013, p. 609).
Dunque si aveva in
quelle carte il «lucido progetto giuridico borghese», ovvero: «la concezione di
un diritto voluto in alto e che dall’alto piove sulla società» (ivi). L’uomo
dei diritti, il moderno soggetto giuridico, era in quelle carte presente/immaginabile
solo in un uno stato di natura a-storico,
non era il pover’uomo «in carne ed ossa», o il povero cristiano, lasciato solo con
sé stesso nelle pene e nelle pieghe della vita quotidiana, ecc. ecc.
Caratteristiche, quelle
di tale costituzionalismo, che non si sarebbero ripetute nella nostra Costituzione
repubblicana - ai cui lavori preparatori il professore fa specifico riferimento in modo incoraggiante -, secondo la quale, per riprendere le parole di Giorgio La Pira, «esiste una anteriorità dell’uomo rispetto allo Stato; l’uomo ha
valore di fine e non di mezzo» (ivi, p. 615).
Lavori dell'Assemblea Costituente |
Se vogliamo, sul
piano delle differenze in quanto all’oggetto delle disposizioni della Carta, una
siffatta impostazione ci riparla della differenza specifica tra costituzioni
brevi e costituzioni lunghe: aspetto anche questo di una evidenza generale acquisita. Ma è
la componente della storicità, l’aver
voluto i costituenti rispettare quel determinato momento storico, che il professore
tiene a sottolineare (ivi, p. 618), che mi ha incuriosito. Ovverosia: una
Costituzione in senso personalista e/o personalista-e-sociale, può dirsi postmoderna? In altre parole: un Togliatti quanto poteva comprendere del postmoderno: non aveva forse egli
a che fare con il capitalismo classico?
Di più, mi domando ora sulla
base delle mie letture: quando si ha nella cultura occidentale la percezione
del tramonto della modernità (ne scriveva Vattimo anni or sono con riferimento
alle arti figurative, all'architettura e alla letteratura in un libro divenuto un classico - ed eravamo negli
anni ottanta)? Quando s’inizia a ritenere, da parte di pensatori insospettabili, che Nietzsche
avesse ragione, su tante cose? E ancora: quando il capitalismo, per come esso si sarebbe sviluppato nell'ottocento, iniziò la sua parabola discendente, ovvero quando si sentì
che esso non era più lo stesso, o sé stesso? Quando si avvertì l’insufficienza
sul piano interpretativo della idea di progresso, o si fece eco alla celebre locuzione «fine
della storia»? O quando l’idea di superamento
di matrice hegeliana fu investita da una critica robusta, non infondata? Perché si poterono imputare a
Cartesio e agli illuministi addirittura i campi di sterminio, come ha fatto la
scuola di Francoforte? Da quando - ancora - si ebbe la sensazione di certi ritorni
storici del o al medioevo, con la teoria ad esempio del New Medievalism? Tutti tratti che sono quelli, raccogliendo le
testimonianze di filosofia, sociologia ed economia, caratteristici del
postmoderno?
Sembra, alla luce di
queste domande, che il postmoderno sia piuttosto alieno che non congeniale alla nostra Costituzione
repubblicana. Postmoderno è l’exploit, la spinta fornita dal neoliberismo, anche se questo aspetto va colto nel suo forte contrasto con
una cresciuta coscienza universale dei diritti dell’uomo: questa che dice di quello. Postmoderno (ma già
hitleriano prima che neoliberista o volgarmente liberale) è l'abbattimento del
principio di solidarietà. Postmoderna
può ritenersi la debolezza degli stati nazionali nati col romanticismo
ottocentesco, a fronte di un sociale, che però non ha nulla di una totalità lineare, e che non necessariamente esprime un che di positivo. Ma - mi domando - è tale
debolezza scambiabile facilmente con un diritto personalista, se le forze che
mettono a morte la persona e l’individuo sono quelle stesse che sottraggono potenza agli
stati nazionali? Insomma: i totalitarismi europei del novecento, che Ernst Nolte
volle riunire in un famoso volume - su i
tre volti del fascismo -, sono già o sanno già di postmoderno? O il fatto che
gli stati forti avessero negato l’individuo nelle sue libertà ed esistenza tentando
di sterminarlo depone decisamente in senso contrario?
Dunque pur non nascondendomi qualche dubbio
sul conto delle tesi del professor Grossi, sono convinto che egli abbia il merito di averci ricordato che la diagnostica del
postmoderno è tuttora incompiuta. Essa si è soffermata piuttosto su alcuni tratti nuovi, non esaltandoli come positivi; ma parimenti bisogna rilevare, come dimostrano Häberle da una parte e la revisione della teoria delle fonti dall'altra, che è il diritto a necessitare di una sua definizione più confacente all'èra postindustriale. Una sua rilettura, anche filosofica. Magari un diritto per così dire "schierato"?
E qui entra in gioco la
possibile immagine del postmoderno come lotta, contrasto fra il bene e il male. Cose
vecchie e cose nuove messe assieme ma che confliggono; a meno che non si vogliano
forzare un po’ le definizioni, per approdare a una interpretazione voluta (un
appello, un impegno morale) del postmoderno quale anche epoca del sociale e dell'umano di contro alla immoralità-antigiuridicità del potere costituito, meglio incessantemente costituentesi. Dunque una immagine di conflitto, anche violento, non
facilmente analizzabile, tra forze contrapposte. Laddove se ci si schiera dalla parte del bene, il problema è sempre
quello di dove collocare l’irrazionalismo postmoderno del pensiero e delle potenze
economiche che si dice lo contraddistinguono.
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