Le bonnes
mœurs «sont les habitudes,
les usages conformes à la moralité, à la religion et
à la culture d'un pays ou d'un peuple.
Elles
constituent un ensemble de normes, le plus souvent coutumières, en partie formulées dans les traités de civilité et
dans les règles de droit civil et pénal. Elles varient selon les peuples et
les époques, et constituent l'un des objets d'étude de l'ethnologie et
de la sociologie comparative historique».
Definizione complessa, non v’è dubbio, questa che mi è dato trarre da Wikipedia; e così dev’essere, perché ogni ordinamento giuridico avrà le sue lacune fino a quando vi sarà qualcosa nella morale che il diritto non riuscirà mai a prendere, così come accade all'evento che esso sia irriducibile a fattispecie.
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica.
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.
La questione è tale per cui se essa è morale allora è giuridica.
Come tale essa fu posta nel code civil napoleonico, nel suo clima formativo, laddove si trattava di salvaguardare congiuntamente, secondo la Présentation di Portalis (cfr. G. Terlizzi, Il contratto immorale tra regole giuridiche e regole sociali, Napoli 2012, p. 19), morale e legislazione. E bisognerebbe capire bene dove si giunga con quel “congiuntamente”.
Prima la
clausola «buoni costumi e ordine pubblico», riferita ai contratti, era apparsa nella Encyclopédie, alla voce Convention: dunque doveva trattarsi di un
prodotto o cammino di razionalizzazione.
In tal senso, da una parte non ci si deve stancare
di notare come il principio delle bonnes mœurs, meglio della non contrarietà ai buoni costumi, sia stato pensato in
contrapposizione al potere e arbitrio dei giudici, al loro rigido moralismo e/o
spirito settario. I giudici erano la corporazione protettiva della monarchia - e della
cultura giuridica medievale - e se erano ritenuti intrisi di moralismo religioso,
ciò va posto in relazione col fatto che essi erano uno dei grandi ostacoli all’affermazione
prima illuministica poi rivoluzionaria del primato delle leggi sugli uomini e
così della laicità dello Stato sul suo carattere confessionale; laddove l’un
effetto era insomma destinato a travolgere l’altro.
Ma dall'altra parte è anche vero: il contratto, l’obbligazione, sono parte
integrante del sociale nel diritto. Il diritto pubblico come la politica non
debbono essere pensati troppo remotamente rispetto alla dottrina e disciplina dei
contratti, laddove le obbligazioni hanno sempre pesato nel rapporto tra le classi sociali (si pensi alla vicenda romano-antica dei patrizi e plebei).
Già,
la politica. Sul tema in generale la spiegazione di Napoleone credo sia la più
eloquente: non vi sono buoni costumi se non in subordine all’ordine pubblico;
perché in certo senso sono solo il diritto e lo Stato a poter garantire. E Téophile
Huc, epigono o quasi della scuola della esegesi, riteneva le bonnes mœurs inutili come categoria per sé stante
e che comunque esse fossero valide «en tant qu’elles sont
protégées ou déterminées par le droit positife» (Commentaire théorique et pratique du code civil).
Ma la questione non si sarebbe conclusa lì e il progressivo allentamento nel tempo della presa rivoluzionaria, il riflusso insomma (: romanticismo, storicismo, positivismo), spiega alcune posizioni, di giuristi, che ritengo interessanti.
Che cosa dire, in un modo più incisivo del formalismo e tecnicismo giuridici, delle bonnes mœurs? Nell’orientamento sociologico di René Demogue, la identificazione di un siffatto criterio valutativo della giuridicità di un atto o della legittimità di un contratto è rimessa alla non condannabilità da parte dell’opinione pubblica: «seront donc valables des actes en eux-mêmes à desapprouver si l’opinion publique ne les condanne pas»; ovvero: «Les bonnes mœurs ne se déterminent pas d'après un idéal religieux ou philosophique, mais d'après les faits et l'opinion commune» (Traité des obligations en géneral, Sources des obligations, t. 1, p. 30).
Siamo
nel primissimo novecento e il posivitismo del prof. Demogue poggia sulla pretesa
inidoneità e della ragione (ma esiste anche una raison cristiana) e della verità religiosa a decidere della
moralità o immoralità di un contratto. Ciò che sarebbe dovuto contare, in sede
di giudizio civile, era dunque la morale corrente, la pubblica opinione: non vi
sarebbero dovute essere interferenze né dell’autorità religiosa né dei razionalisti.
Così sarebbe stato ad esempio anche per il prof. Beudant (Cours de droit civil) ed è bene prendere nota delle analoghe
posizioni assunte in Italia da Filippo Longo e Francesco Ferrara (Il contratto immorale, pp. 40 e
ss.), i quali tenevano a sottolineare i cambiamenti della morale corrente e
insomma il suo carattere evolutivo. Già:
più evolutivo o più instabile?
E qui
la prima domanda che si pone è la seguente: e se l’opinione pubblica o la
morale popolare fossero corrotte e/o ammettessero o fossero inclini a perdonare questo e quel delitto, che cosa si otterrebbe? Una legge ingiusta è sempre possibile, secondo
l’insegnamento cristiano e non solo; ma fino a che punto è pensabile una
legislazione positiva integrata da norme non scritte immorali? Esse invece
dovrebbero sempre essere morali, per
definitionem; la morale dovrebbe essere sempre eguale a sé stessa; e
allora? Presumibilmente quei contratti che alcuni riterrebbero morali, dovrebbero
esservi necessariamente altri che li ritenessero immorali: solo in questi
termini si potrebbe versare nel dubbio, che il diritto in fondo vuole, sulla
legittimità di un contratto. Dunque credo, per usare una immagine, che al nostro tavolo manchi una
gamba.
Alla
sociologia nel nostro caso va riconosciuto non so se il merito di avere tentato
di emancipare il giudizio e dall’autoritarismo religioso e dal confessionismo giuridico, ancor prima forse che dalla morale;
essa però incontra il limite, ché è ad essa che si affida, della morale
popolare reale, che è a sua volta, nella sua complessità strutturale, psicologica,
mutevole, religiosa e/o superstiziosa.
Il limite
della sociologia è in ciò, che essa allontana dalla essenza dei problemi, che
chiedono razionalità: nella specie, se un popolo è corrotto, esso lo è sia di
fronte a Dio sia di fronte a una morale
razionale, segnatamente se questa si è sviluppata in senso universale. Eppoi
qualsiasi condotta per avere rilevanza giuridica va sempre pensata, o tradotta
teoricamente.
Se
oggi, per stare al diritto delle obbligazioni, da una parte si segnalano
conquiste civili quali il cosiddetto «contratto del consumatore», o la tutela
della parte contrattualmente debole, dall’altra vi è dietro l’angolo una psicologia popolare la quale può essere vista come fragile, oscillatoria,
insicura, troppo emotiva, inaffidabile, pretestuosa. Una cosa insomma è il
popolo se con questa parola s’identifica un criterio che si vuole popolare per
dire generale, o come riferimento alla ragione e al buon senso, altra il popolo
reale, grigio, immediato, impulsivo del «crucifige!». E la sociologia se non è
a quest’ultimo che sembra volersi rimettere in modo totale, nella sua ricerca
della immediatezza allenta un po’ i legami assai forti fra morale e diritto. Sociologia
che alle volte richiama la demagogia.
Alla
teoria di Demogue, che alla fine sarebbe prevalsa nella opinione - e dovremmo
domandarci come questo sia potuto avvenire, anche pensando alla sociologia
giuridica italiana -, si sarebbero contrapposte le tesi di Georges Ripert (La régle morale dans les obligations civiles; cfr. Il contratto immorale, cit., alle pp. 31 e s.), favorevole a una positivizzazione giuridica dei principi della
tradizione cristiana (il libro, alle pagine 51 e ss., parla della vicenda del
Québec), consolidata e portatrice di virtù (così sarebbe stato anche da noi nelle valutazioni di Stefano Trabucchi: ivi, pp. 45 e ss.). La regola morale, per penetrare
nelle obbligazioni, sarebbe dovuta consistere in qualcosa non di mutevole ma di
consolidato e affermato, universalmente condivisibile, dotato di una sua rigidità. Perché il popolo ha sempre
avuto una visione egoistica - per non dire, aggiungo io, antigiuridica - del
diritto, noncurante del valore dell’altro da sé. Il popolo non ama l’altruità
come fonte di doveri e diritti e giustifica per lo più gli atti egoistici, il personalismo,
dei quali il suo sentimento (anti)giuridico è impastato.
Georges Ripert |
Da
una parte dunque è forte il sospetto che una visione sociologica delle bonnes mœurs tolga qualcosa al costrutto
morale che sempre dovrebbe alimentare il diritto positivo (se non proprio scongiurare, secondo quanto riteneva Ripert, che la regola morale s'imponga al mondo giuridico); dall’altra è che la
rigida imposizione di una morale religiosa potesse e possa fare torto alla
partecipazione del popolo alla vita e crescita giuridica in senso sociale di
una nazione. Dunque le risposte sono sempre politiche; fanno parte del
linguaggio favorevole al potere.
Opportunamente
recita un titoletto del libro in questione: «teoria idealista di Ripert», come
dire: teoria ingenua; che a me personalmente ricorda quella di un ex direttore
di banca, persona squisita, mite e sincera, che asseriva candidamente che la
banca lavora perché il denaro collimi con il bene dell’umanità.
E allora il punto è: se Ripert accusa la
teoria sociologica della moralità dei contratti di debolezza, allora che dire
del suo pensiero, che si fa forte (a questo punto direi realisticamente) della tradizione e dunque è debole in certa
sua quale difficoltà di elaborazione teorica? La quale consiste sostanzialmente
nel confessare la impossibilità di una morale
razionale e di una morale razionale
universale? Questioni e limiti di pensiero presumibilmente soggettivi, però,
se furono altri cattolici francesi di fine ottocento a fondare una disciplina
chiamata diritto internazionale o se il
personalismo filosofico ammette e sostiene il valore di una moralità razionale,
razionale secondo i principi della
ragione universale (e necessaria), della ragione in sé, di contro a morali
parziali (Rigobello).
Ma è poi la omogeneità lì per lì
insospettabile delle due teorie contrapposte a colpire l’attenzione. Perché
l’elemento comune è il popolo che comunque resta tale. Il popolo dei gretti egoismi
personali, lontano da quel senso del dovere che è fondamento di ogni morale e alimento
di ogni diritto. Ma è anche il popolo per dire la difficoltà di progressi
teorici accettati e di non so quale concezione del diritto, segnatamente penale.
Persino un popolo di diavoli secondo Kant si sarebbe potuto governare bene con
la forma repubblicana di Stato ma soprattutto in questo con buone leggi. E
dunque? Giocarsi il popolo ai dadi?
Il discorso quindi inevitabilmente (ma la
cosa è fondata, altrimenti perché Napoleone avrebbe parlato di ordre public quale fonte delle bonnes mœurs?) trascorre dal tema dei buoni costumi in quanto a causa del contratto a quello dell’ordinamento giuridico. E investe, poiché
diritto civile e diritto pubblico si dimostrano inscindibili per lo meno
qualora si argomenti di diritto e morale, questioni che si presentano con una
frequenza maggiore di quanto superficialmente non si veda.
Ciò che è in discussione nel confronto fra gli
orientamenti sociologico e confessionale forse è più l’elemento popolo che non
quello del - per così definirlo - confessionismo giuridico. Perché ad esempio -
mi domando - il popolo plaudiva alle esecuzioni capitali in piazza e credeva poiché le tollerava a
ciò che vedeva?
Perché per la stessa rivoluzione francese il
nesso popolo-potere trovò il suo luogo e rito simbolici nelle esecuzioni e nel
carattere innovativo della ghigliottina? Una prima risposta al quesito è: il
popolo ama ciò di cui ha paura, sino a trarne simpatiche sofferte filastrocche
- è il caso lampante della ghigliottina. E già questo non ne fa forse un buono
strumento di valutazione.
Inoltre: perché quello stesso popolo che
applica rigorosamente e rispetta le leggi democratiche si innamorò di Hitler? E potrà amare sempre nuovi tiranni?
È insomma il popolo della Hitlerjugend o il popolo mistico-romantico
di una grande nazione che ama fare guerre "umanitarie", o il popolo dei referendum ciò che la sociologia consiglia
al diritto? O non si tratta magari di una mediocre politologia? O non è ancora che ci si aggrappa alla idea che usi comuni possano essere disapprovati dalla psicologia popolare (Coviello), quasi questo potesse sistemare le cose una volta per tutte?
Se il popolo dunque come criterio giuridico può lasciare perplessi, allora bisognerà trarre altrove le fonti della morale quale
criterio integrativo della giuridicità. Anzi direi che la questione del
fondamento della giuridicità del negozio qui passa quasi in second’ordine,
rispetto a quella di una giustificazione di ordine pubblico.
Oggi se la questione della moralità e/o giuridicità
dei contratti e della lex mercatoria
è questione assai scottante, forse decisiva, ciò va interpretato nel senso che
quella contrattualistica ha esiti nel diritto costituzionale e in quello penale
e contabile. Dunque se spostiamo l’attenzione dal confronto Demogue-Ripert a
quello più generale e meno tecnico del rapporto vivo fra diritto privato e
diritto pubblico siamo nel tema.
Mi domando dunque conclusivamente: è
ammissibile dire che un popolo è fonte di criteri morali solo perché popolo (la
dottrina canonica del populus Dei
sembra meno rigida)? È ammissibile dire che il popolo è immorale e se sì in forza
di quali principi? E ancora: se lo è, è possibile che si abbia un diritto
immorale? ecc. E anche, alla base di tutto questo: che cosa si ottiene
svuotando con zelo positivistico la morale di ogni sentimento umano-sociale o
caritatevole per consegnarla alla sua equivalenza con il costume? Perché a quel
punto si ha nuovamente ma solo come pregiudizio ciò che si era voluto negare perché
contenuto religioso; chi infatti ci dice esattamente in che cosa alla luce
della migliore sociologia la religione si differenzia dal pregiudizio o dalla
superstizione?
Personalmente credo, per semplificare, che
ogni diritto oggettivo sia sempre in parte morale in parte immorale; e che le
dosi rispettive varino, ché nulla è perfetto. Credo per connessione che tale
sia la provvidenza giuridica per cui ciò che è pensato come regola per i molti
o per i più valga a condannare e sanzionare i pochi o i singoli che siano stati
autori di delitti, quasi nel diritto scritto il bene morale fosse non
azzerabile.
Potrei dire a questo punto, pensando
alla elaborazione dei contenuti giuridici, che credo negli illuminati, anche
nel cattolicesimo illuminato, se non fosse che l’affermazione andrebbe a
cozzare contro le immagini mentali sia di quei populisti che non fanno mistero di
esserlo, sia di quelli che invece per difendersi accusano gli altri di esserlo.
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