Il conflitto di attribuzioni fra i poteri
dello Stato - ad esempio fra esecutivo e giudiziario, fra legislativo e
giudiziario, fra lo Stato e certe sue riconosciute, volute articolazioni
territoriali che però ambiscano a una certa quale autonomia legislativa - forse
è un modo elegante, colto, per esprimere qualcosa che appartiene alla natura
dell’uomo: è una realtà ineludibile, che fa parte non solo dell’ordine
giuridico - e per meglio dire giuridico-costituzionale - evoluto ma anche
dell’ordine sociale naturale delle cose. Che in qualche modo le tiene
legate, in un modo anche - bisogna riconoscerlo - non tranquillizzante.
È la
storia che lo dice, e più precisamente la storia costituzionale, la quale lo è realiter
dei rapporti di forza fra poteri, o stati, o territori, o classi: il re unitamente
al suo Consiglio contro il Senato, i parlamenti o le assemblee legislative rivoluzionarie contro i re, per dire però
anche, in un modo più oggettivo e guardando alla economia e al sociale, i
borghesi contro i nobili, o contro il clero; il clero povero contro quello
ricco; il proletariato contro la borghesia. Ed è in generale nel contesto di
tali conflitti, per quanto provato da quel compendio storico che è la storia
della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica ma non solo, che le
costituzioni s’impongono, quali patti
(e comunque condizioni scritte, dettate) intervenuti tra quelle forze o poteri
(se vi sono stati patti, allora sempre potranno esservi conflitti). O quali
strumenti adoperati da alcuni contro gli altri.
Ora,
ciò che, quale sua condizione, fa la salute di uno Stato è che il suddetto
ordine sociale naturale, in quelle che si pongono come questioni assai
rilevanti per la generalità dei cittadini, non incida troppo, sminuendolo,
sull’ordine giuridico; che questo, quale Stato di diritto, riconosca i
conflitti, li ipotizzi e preveda quale fattispecie ma nel preordinarne la
soluzione; che insomma li disciplini (così la nostra Carta del 1948 si occupa della
questione all’art. 134 comma 3, laddove si parla della Corte costituzionale),
per non esserne travolto.
“Una
società bene ordinata - così Paul Ricoeur ricordava una espressione di Hannah
Arendt - non è quella in cui non ci sono conflitti, ma quella in cui ci sono
regole per dirimerli; in questa prospettiva consenso e conflitto possono
coesistere” (L’idea di giustizia, in Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche).
In
altre parole, e vorrei tornare brevissimamente sul pensiero di Thomas Hobbes ma
dovrei anche ricordare l’immagine kantiana dello “Stato di angeli, popolo di
diavoli”, ogni Stato per essere tale deve
tendere alla pacificazione sociale; ed è così condizione di un ordinamento
giuridico sano ed equilibrato - con la sua separazione dei poteri
e i suoi checks and balances - che una norma suprema garantisca, prevedendolo,
che in caso di “conflitto tra” quelli che sono riconosciuti come organi
costituzionali vi sia comunque la soluzione decisionale, giuridica, la quale
faccia salvo, dicendo autorevolmente: “questo è ammissibile”, “questo no”, lo
Stato nella sua solidità. Che insomma detti conflitti facciano parte
dell’ordinamento costituzionale stesso, in modo necessario, e dunque per
organizzarlo, farlo funzionare, confermarlo, non per indebolirlo. Che i poteri
anche economico-finanziari, per corollario, e parimenti i partiti politici, se è all'ordine giuridico e alla pace sociale che affermano di mirare, debbano dimostrare una coscienza e responsabilità costituzionale e legalitaria.
Si
prevedono così, per quanto riguarda il nostro ordinamento, conflitti di
attribuzioni sollevati come tali, in modo diretto (“spettava all’organo X e non
all’organo Y decidere relativamente a …”, oppure “legificare relativamente a
…”), e ve ne sono di impliciti o indiretti, che assumono la forma di questioni
di costituzionalità cosiddette “in via principale”, nei quali l’oggetto vuole
essere la legittimità di una norma positiva ma lo è sempre in qualche modo
l’attribuzione, nel caso specifico, dell’autorità che l’ha emanata. Laddove
però gli uni e gli altri debbono valere ad alimentare o se si preferisce a
“ripristinare” con continuità - per dire secondo l’ordinario corretto flusso
istituzionale - l’ordine costituzionale, non a fiaccarlo.
Sennonché,
e questa situazione non avrebbe potuto essere disciplinata dai nostri padri
costituenti, vi è un terzo modo di essere del conflitto di attribuzioni e/o di
poteri ed è nel fatto che si possa fare di esso qualcosa di
tendenzialmente non sanabile, che faccia leva sugli istinti della gente in nome
di libertà naturali e selvagge; risolvibile sì ma solo provvisoriamente,
ipocritamente; usando gli strumenti offerti dall’ordinamento costituzionale
attuale; laddove si sappia solo lasciare intravvedere la eventualità che
cambiando le regole attualmente poste dalla Carta quei conflitti - e la loro
supposta cattiva incidenza sulle sorti politiche - possano essere evitati,
ovvero sanati preventivamente in radice. Può accadere che non tanto si
chieda alla nostra Consulta di decidere quanto s’intenda tenere in apprensione
o sotto pressione, mostrandone lo squilibrio, non l’equilibrio, l’assetto
costituzionale vigente; fissando il dualismo, suggerito presso di noi da teorie
del tipo “costituzione materiale”: fra iter risolutivo e procedura previsti
dall’ordinamento e realtà “pratica” e meglio: paese reale; soprattutto se è il
peggior pratico che assume il comando.
È
evidente che i nostri costituenti non avrebbero potuto prevedere (ovviamente nell'animus e) nei suoi
termini storici questa condizione, proprio perché essi l’avevano prevista, e meglio:
l’avevano data per implicita, con perfetta sensibilità storica, e cioè per
negativum, nel tessuto
normativo costituzionale e per averne - così affermandola e negandola allo
stesso tempo - fornita, secondo un chiaro principio di tolleranza e per lo stesso principio di forma, la soluzione.
Ed è altrettanto evidente che chiunque intenda risospingere le costituzioni
scritte, pur predicandone il rispetto, verso condizioni immediatamente
precedenti il momento pattizio o convenzionale (trasformare la costituzione “materiale”
per poi cambiare quella “formale”, come era stato fatto osservare da un nostro parlamentare), può sempre ricondurre sempre tutto al fatto
che vi sia patto laddove vi siano rapporti di forza; ma delegittimando in
questo modo le norme positive. Ponendo il fatto di contro al diritto.
Un ritorno
alla cultura hobbesiana, o a un modo interpretativo del ius naturae? Sia pure; ma è vero che il pensiero della natura
pattizia può atteggiarsi non solo al modo di Hobbes e per così dire sino di
Darwin ma anche al modo di Grotius o di Kant. Per dire in generale che esso può
condurre su lidi opposti l’un l’altro, a seconda di come s’interpreti il patto
costituente. Se nel senso di un contratto civile (contratto sociale,
civilmente definito) e della legge, che sia posta al di sopra delle teste e
degli egoismi degli uomini (e anche qui bisognerà vedere sempre bene quanto e
come) o della legge del più forte, più o meno ingentilita con retorica
rassicurante. Sta di fatto, in altre parole, che il ricondurre tutto
all’origine sembra essere un dato obiettivo, storico, prima ancora che
arbitrario. Nel quale contesto i conflitti sono ricondotti sul piano essenziale
della storia per la spinta prodotta da vecchie classi che si trasformano o da
nuove emergenti; ma in questo a causa di condizioni storiche nuove, dettate
prevalentemente dalla economia e meglio dagli interessi e dagli affari. E anzi
sembra, su questo punto, che le interpretazioni - che si moltiplicano - siano
tutte insufficienti e parziali, prima ancora che rassicuranti, rispetto a
un’antropologia imprevedibile (quale si ravvisa ad esempio nella evoluzione
delle psicopatologie e del crimine) e a una realtà storico-oggettiva che
comunque avanza.
Questo
terzo modo di essere dei conflitti di rilievo costituzionale è riconoscibile,
anche, ogniqualvolta non si faccia questione di costituzionalità di una norma,
non si ricorra cioè al verdetto della Corte costituzionale e invece s’instauri
una prassi diversa, si identifichi molto ciò che è normativo in ciò che
è materiale, si novellino articoli di codici, di leggi importanti (e meglio
fondamentali, come quella del lavoro) o di regolamenti (come quelli
parlamentari), si producano con procedura ordinaria (la procedura è importante
e la democrazia è nella procedura) disposizioni normative che avrebbero
richiesto, per incidere su materie costituzionali, una procedura aggravata, e
si cerchi in questo giocando anche d’anticipo sulle distrazioni dei giuristi,
di contribuire alla trasformazione della costituzione cosiddetta “materiale”,
per consentire lo sviluppo di quella prassi.
Bisogna
così ammettere, per quanto suggerisce l’esperienza attuale del nostro Paese,
l’esistenza di due partiti e/o movimenti: quello delle soluzioni nel rispetto
della costituzione e quello dei conflitti di fatto, selvaggi, irresponsabili
istituzionalmente, il quale ultimo si contraddistingue per voler cambiare la
forma di governo invece che la forma di Stato; ma laddove non si escluda che la
prima possa equivalere all’altra, al di là delle definizioni e delle
distinzioni dottrinali.
Vengono
allora a formarsi nello Stato due stati (e per meglio dire due partiti o
fazioni): uno di fatto (Hobbes, Darwin; ma anche Schmitt) e uno di diritto
(Grotius, Kant; ma anche Kelsen), che riescono però a coesistere, laddove
nessuno dei due, non riuscendo a spacciare la sua ideologia per ideologia della
generalità, riesca a prevalere veramente; che addirittura a causa di ciò
possono risultare a tratti intercambiabili o confondibili. È un processo
sottile, insidioso, complesso, che nella sostanza sfugge ai molti, o forse ai
più, non a coloro che hanno autentiche sensibilità e cultura giuridiche e in
questo cultura morale; ma che al di là dell’autentica coscienza giuridica
debbono essere ragionatori per principio, o addirittura free-thinkers. E
la condizione generale (: civile, politica ed economica) è tale, per cui si può
anche vivere e governare in parallelo, per prassi appunto, rispetto allo
Stato di diritto, facendo credere con utili e teatrali scimmiottamenti, instaurando
un regime di similitudini, immagini, approssimazione e confusione, che si versa
in pieno Rechtsstaat e in democrazia,
che ce n’è per tutti (ed è la scaltrezza che sarà così premiata) e che solo per
questo si possa avere e richiedere - ma cambiando gli equilibri
dell’ordinamento - più democrazia.
Paradossalmente,
la debolezza del cosiddetto “partito dei conflitti di fatto” si mostra
allorquando esso attacca la città fortificata del diritto frontalmente,
pubblicamente. Mentre la sua forza consiste nel fatto che essa non tanto cinga
d’assedio la città e civiltà giuridica ma che vi stia già dentro con il suo
cavallo di Troia (quella mutazione, quella prassi, ovvero quelle leggi e quei
regolamenti da novellare e addirittura da produrre ex novo, di cui si
diceva), inoculando virus per infettare e mettere nella patologia -
espandendola o minacciandone l’espansione - un organismo apparentemente sano;
cercando di sostituire alla fisiologia la patologia dei conflitti.
E
dunque a chi non si avveda, non scorgendone la portata storica, del gioco sottile,
fatto ora di chiasso ora di silenzi, spesso di opportunismi, molto d’immagini e
di realismo mediatico, molto d’inquinamenti della scienza politica tali quali
il togliere con l’immagine la libertà alla vita reale, a chi non percepisca di
vivere fuori dalle regole e meglio del valore dell’altrui, dall’impegno della
cultura giuridica, dagli equilibri e dalla ragionevole morale, si sostituiscono
i veri rappresentanti di quella città, preferibilmente i membri dell’organo
maggiormente assediato, aggredito, sul piano dei suoi rapporti con gli altri
organi costituzionali.
Da
noi la vicenda è tale per cui l’organo assediato è la magistratura, per cui
cioè il conflitto alla fin fine è nell’attacco condotto dall’esecutivo nei
confronti sì del legislativo e del valore democratico tuttora insito nel
principio del suffragio universale, finanche nei confronti della presidenza
della Repubblica; ma in primis del giudiziario. E la partita è tale, per
cui si ha a tratti la sensazione di essere tornati alla monarchia; ma le cose
dopo si può comprendere che non sono poi così semplici e lineari e che
molteplici e di varia profondità storica sono le condizioni che possono essere
evocate.
In
questo modo il paese reale è indotto a distaccarsi da quello legale; ma ciò
accade nel momento stesso in cui il paese reale - e come dimenticare per ciò
che essa sempre significherà la storia italiana postunitaria del non
expedit e quanto ad essa ha fatto séguito? - è diviso ma tenuto alla coesistenza e ad esso non è dato
più usare il suffragio per puntellare in modo partecipato la legalità e le
sorti della res publica.
In
tutto ciò il diritto e il bene pubblico naturalmente ne risentono, laddove a quanto
accade all’ordine costituzionale corrisponde necessariamente qualcosa che
accade al diritto civile o al diritto penale.
Laddove
se si è risospinti verso forme pregresse e ritenute superate di rapporti di
potere, verso vecchi istituti, allora si può parlare dal punto di vista storico
di regressione giuridica. Che ha le sue cause di giustificazione, i suoi
motti: a mali estremi estremi rimedi, se la criminalità si espande ci vogliono
leggi esemplari, e per fare tutto questo ci vogliono pieni poteri a favore
dell’esecutivo.
Gli
interpreti della regressione ricorrono così al canone trito, povero, ignorante
del cosiddetto realismo o della concretezza o della pura azione; che
tanto non può essere bocciata in modo assoluto quanto va valutata nel singolo
contesto, muovendo dal principio che il realismo provocando regressione non si
mostra amico della cultura e del progresso.
Il
diritto, sia come diritto oggettivo, sia come scientia iuris, così ne
soffre, inevitabilmente; esso deve pur sempre fare i conti con la politica,
come arte del potere; e si fa strada nuovamente, come questione, quella di cui
negli anni novecentosettanta Francesco Mercadante si occupava, con chiaro intuito, nel suo libro
sulla Democrazia plebiscitaria, ripensando l’esperienza del fascismo e
parlando dei regimi à la De Gaulle, i ncontrando sempre la difficoltà, di stabilire un
confine chiaro fra dispotismo e democrazia, o repubblica.
Evidentemente
dunque la questione resta, ciò che sembrava sepolto riaffiora, e il ri-pensare
equivale al vero pensare. Il fatto cioè che l’esecutivo combatta il legislativo
o il giudiziario, non appartiene a un’epoca superata, isolabile e facilmente
masticabile, digeribile, attraverso la politologia; esso fa parte invece della
stessa natura degli uomini che, riuniti in gruppi, debbano stabilire delle
regole, garantendone l’osservanza.
E
viene in mente a riguardo del nostro tema qualcosa che può sembrare ad esso
estraneo, ma è parte invece di quella natura. Ed è che, pur trattandosi di
regressione, a uno stadio storico assai difficilmente si potrebbe tornare, e
cioè a quello augusteo, laddove Ottaviano in certo senso aveva fornito dei
conflitti fra istituzioni la sua personale soluzione, che recideva alla radice
il problema: giungendo a riunire in sé attraverso l’imperium i poteri
esecutivo, legislativo e militare e ottenendo attraverso la tribunicia
potestas di controllare mediante il diritto di veto le deliberazioni del
senato. Ma tutto questo, attraverso la condizione delle armi, avrebbe richiesto
un animo eroico.
(articolo del 2009)
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