Che in questi ultimi
anni ci si sia discostati vieppiù, in tema di responsabilità civile, dallo
schema strettamente patrimonialistico (il danno inteso solo
come danno “patrimoniale”; il guadagno come “parametro del danno alla persona”:
Gentile, 1962) e parimenti dal nesso fra danno non patrimoniale e lesione
penale - ex art. 2059 c.c. -, è provato dal fatto che s’incontrano oggi, nello
spazio argomentativo e linguistico del giurista, espressioni quali “abitudini
di vita”, “vita di relazione” (distinta addirittura da taluno dalla dimensione
strettamente esistenziale), “libera e piena esplicazione delle attività
realizzatrici della persona umana”, “progetto di vita”, “colloquialità con le
persone e con le cose”; laddove ricorrono le parole vita e persona.
Negli ultimi tempi il
diritto - e segnatamente i contenuti della giurisprudenza - si è accostato alla psicologia e alle scienze medica e chimica (si pensi al mobbing, alle fattispecie di
inquinamento, alla salubrità ma non solo dell’ambiente di lavoro e, appunto, in
generale a problematiche del danno sempre più inerenti alla persona); ma fra
gli aspetti innovativi della cosa è e non è questo ciò che qui voglio qui
evidenziare. Nelle nuove tipologie di danno non patrimoniale, che mettono a
dura prova la tenuta del sistema aquiliano classico, vanno ricompresi valori
inerenti alle disposizioni costituzionali - nel nostro caso l’art. 2 (“La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità […]”) e
anche l’art. 32 comma 1 (“La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività […]”,
attenti al principio personalistico) - alla norma civilistica, alla regola
morale che sottintende, in parte la occupa e/o corregge quella giuridica, al
comune modo di sentire, ed è in questo contesto che si è considerato in positivo il contributo giuridico
delle suddette scienze. Ma a mio giudizio in questi aspetti, pur sempre
necessariamente compresenti in sede di giudizio, ora non può più dirsi risolta
l’essenza della questione.
Ciò che risulta
manifesto, nella evoluzione della fattispecie risarcitoria (e forse ci si
potrebbe domandare perché prima non era così), è che nella storia della economia
del danno, nel mentre il diritto si è radicato nella persona (sino a tramutare
in diritto il to be let alone della privacy, o il darsi-farsi dare
la morte della eutanasia) il corpo, come personalità e come sofferenza in
generale, si è aggiunto, affiancato, sostituito alla ricchezza patrimoniale,
quasi a installare una immagine difensiva o di sofferenza. E questo è avvenuto
seguendo un indirizzo generale dei tempi, nei quali sempre più il corpo come
bene, quale persona non solo fisica ma anche morale, è venuto alla ribalta,
non sic et simpliciter sotto il profilo della
medicina e delle patologie (danno biologico) ma di più sotto quello della
condizione esistenziale della vita.
Su questa strada, nel
clima rinnovantesi di valutazione dell’illecito civile, dopo che il danno
“biologico” ha per così dire aperto il varco - vi è chi ha parlato di
“archetipo” e chi continuerà a parlare di “contenitore” - e ad esso hanno fatto
séguito il danno “alla salute” e quello “psichico”, ed ora anche quello -
controverso ma significativo - “da lesione dell’interesse d’affezione”, figura
“estrema” per dire anche riassuntiva è il danno cosiddetto esistenziale. Ovverosia: è giusto
che paghi chi si è reso responsabile di un fatto lesivo che ha inciso
negativamente, e cioè procurando sofferenza, disagio e difficoltà, sulla
esistenza dell’offeso; è giusto che paghi chi si è reso responsabile di un
fatto lesivo che ha inciso negativamente sulla esistenza dell’offeso e di
quanti vivano in relazione (comunanza di vita e/o di affetti) con lui, ecc.
Il bene tutelato - se
l’esistenza, per quelle che ne sono le condizioni, cambia in peggio - è ora il
“sistema di vita” quale condizione materiale e morale, vita fatta di relazione
e dunque, se anche biologica, non strettamente biologica; ma appunto tale
cambiamento va apprezzato per quanto esso dipenda dall’incidenza prodotta
nell’animo ovvero nella mente/psiche del soggetto, danneggiato nel suo essere
persona (fisica, sensibile, morale, normale) tanto quanto nel suo essere
soggetto più direttamente giuridico, titolare di situazioni giuridiche.
Si tratta dunque
essenzialmente in questi termini di disagio esistenziale, che viene
prodotto, che giuridicamente va ad arricchire nella casistica - se vogliamo - il frame “lucro cessante-danno
emergente”. E va subito aggiunto, storicamente e sociologicamente: in un mondo
in cui comunque per i più il disagio è esperienza di vita. Il che se è
sostenibile - ma lo è - spiega le resistenze opposte alla nuova figura da certa
giurisprudenza e in ciò in qualche misura dall’ordinamento giuridico stesso,
con un atteggiamento comprensibilmente conservatore.
Le cause e le
fattispecie concrete evidenziate dai giudizi nel merito (la cattiva
informazione nei servizi pubblici di trasporto di persone, la mancata diagnosi
di malformazioni fetali, la ritardata attivazione di un servizio telefonico, la
sottoposizione ad immissioni acustiche intollerabili, la perdita del feto in
conseguenza delle lesioni subite a seguito di sinistro stradale nel quale sia
rimasta coinvolta la gestante, la lesione dell’identità personale, ecc.),
peraltro necessariamente affetti da oscillazioni e le valutazioni della
dottrina, in cui all’autonomia della nuova ipotesi viene opposta ora l’arduità
del profilo risarcitorio (filosofia in fondo riduttiva della “duplicazione
risarcitoria”) ora la riconducibilità di ciò che appare esistenziale a quanto
vi è di sostanzialmente biologico (probabilmente la ricollegabilità alla
valutazione del medico funge anche da argine contro il nuovo diritto), proprio perché
dicono - tentando un’opera di assimilazione al danno morale soggettivo e a
quello biologico -, del grado d’ingresso del nuovo tipo di danno nel nostro
sistema, non ne negano il diritto di cittadinanza e nello stesso tempo, data la
varietà delle ipotesi, valgono a dare una misura della consistenza della
questione, che mostra di essere effettiva e non immaginaria.
La quaestio juris - per riprendere
nomenclature care alla duecentesca Scuola bolognese - attiene alla persona e ai
diritti della personalità, laddove la persona, costituzionalmente protetta,
tanto è apprezzabile socialmente e psichicamente quanto la valutazione non si
ferma né al danno in sé, né a una intervenuta nuova patologia procurata o
indotta, né alla sofferenza fisica o allo stress, né a una dignità lesa
da ingiuria o diffamazione, né a un danno da esaminare sotto il solo profilo
sociale, né alla sussistenza di un fatto costituente reato.
Ovvero il male procurato
dev’essere risarcito, è giusto che lo sia; ma non perché il danno sia fermo al
concetto di danno, né quindi quale solo danno alle condizioni e sistema della
vita, o al corpo o alla psiche o al bene della dignità; ma in quanto offesa
alla personalità vivente considerata
prevalentemente sotto il profilo della condizione esistenziale, personalità che
- con le sue paure ed ansie ed inquietudini - in certo modo non è più quella di
una volta.
Incuriosisce in tutto
questo e induce a pensare, e ha spinto la giurisprudenza a resistere sino alla
quasi-vittoria negando l’autonomia al danno esistenziale, l’aria di
psicologismo che così sembra essersi insinuata nel corpo stesso del diritto; fa
riflettere, di più, certa quale caduta della separazione o contrapposizione
culturale tra anima e corpo (ciò che la dottrina non ha mancato di segnalare);
ma incuriosisce ancor più, perché sembra che qui scorra la linea di confine tra
danno psichico o biologico e danno esistenziale, l’aria vera e propria di esistenzialismo (esistenza socialmente
misurabile, certo, ma “esistenzialismo”, nell’accezione filosofica della
parola, riguardante il soggetto che è lì, l’ “esserci”, la cui nascita è
associata all’angoscia, al problema del tempo e della morte) che così sembra
voler penetrare nell’area strettamente, propriamente giuridica, volta a
valutazioni orientate all’effetto, dilatando, rendendo più ampia e discutibile,
la natura della prova e del nesso eziologico; e sembra in questo poter invadere
il diritto dei giuristi. Da cui nulla però in fondo - venendo ad essere ogni
cosa fatto o persona oggetto - è separabile.
In altre parole: si pone
il dubbio se con l’ingresso nel nostro ordinamento del danno esistenziale il
diritto, conservando peraltro e difendendo (alle volte salomonicamente) certe
sue posizioni e istituti classici, abbia voluto intraprendere la strada di
certo quale “esistenzialismo giuridico”.
Incuriosisce, anche, il
fatto singolare che ci si trovi così al cospetto di una necessaria conseguenza
di quelle stesse fraseologie costituzionalistiche o più semplicemente di quello
stesso costituzionalismo, che avevano aperto in tempi storici diversi varchi di
legittimazione e ai ceti borghesi emergenti della Rivoluzione francese e ai
diritti inviolabili dell’uomo e della donna, in primis al diritto alla vita. Se
dunque si argomenta di danno esistenziale quale oltrepassamento del confine del
valore periziale classico o superamento di un connubio diritto-medicina da
ritenersi comunque tradizionale, necessariamente si argomenta del confine del
fatto giuridicamente rilevante; ovvero se dovesse imporsi il danno
esistenziale, allora si potrebbe dire che il diritto non finisce mai di
sorprendere, soprattutto oggi in una temperie in cui la sua capacità pur
connaturata di assimilazione di valori non giuridici sembra accentuata.
Ma tale è il danno
identificabile, quale il disagio, che prescinde in certo modo dal danno; che
dunque non dipende strettamente o in modo determinato da condotte
giuridicamente rilevanti, come in un rapporto di causa ed effetto. Sembra che
il diritto, per il fatto elementare di essere volto al mondo, di doverne
tradurre realtà, situazioni e trasformazione nel suo linguaggio, quasi di
esserne copia normativa, risenta di fattori esterni, e parimenti tanto del
progresso della scienza quanto della mutazione del soggetto, che è, o è tornato
ad essere, il soggetto del disagio e dei conflitti perenni tra persone.
(rielaborazione di
quanto già pubblicato in D&G, nell’anno 2002)
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