Dire lo Stato di diritto non basta, perché tale locuzione vale a mettere insieme, a non voler appiattire il diritto nel fatto, due forze contrapposte e destinate a combattersi: lo Stato - appunto - e il
diritto. Nulla di pacifico pertanto o di scontato, nonostante i molti sognino da
sempre una vita calma e ordinata.
Tale è la questione ad esempio per cui essa si pone ogniqualvolta una persona che ricopra una carica istituzionale commetta un
illecito; e i suoi termini sono pressappoco i seguenti: se egli resta impunito,
e/o se non rassegna le dimissioni, ciò che cosa sta a significare? Ovvero anche: tale è la questione per cui da sempre si può parlare di una legge ingiusta, di un'Amministrazione che danneggia i cittadini, opprime i più deboli, non paga i suoi debiti.
Più in generale, il dato eloquente e il più dimostrativo
al riguardo può essere colto qua e là ma come illustrativo della sostanza: ad esempio esistevano
anticamente il fiscus principis e il fas - a legittimazione del ruolo sacro
dei re; una volta il principe era grosso modo lo Stato, oppure egli era ritenuto
legibus solutus, sciolto cioè dai
vincoli della legge umana. Esisteva quale regola nell’età di mezzo e non solo
in occidente il diritto divino del re e nell’età moderna si ebbero le monarchie
assolute: si tramanda che un giorno - era il 13 aprile del 1655 - Luigi XIV
di Francia, il “re Sole”, avrebbe detto, al cospetto del parlamento di Parigi, l’état c’est moi!
Ora io mi domando anche: se lo Stato è stato immaginato dal
pensiero come Behemoth, o come Leviathan (sono i titoli di due opere di Hobbes), che ne viene? Non è forse allora la scelta
stessa dell’immagine a parlare? Proprio a favore di una mostruosità che va
accettata pur sapendola tale; o se vogliamo di un mondo che conserva in sé ancora del selvaggio,
nel quale però l’indigeno modernizzato nemmeno più bastona il suo totem, perché non è quello il suo
padrone?
Una raffigurazione del Leviatano |
La lezione che ne viene è dunque la seguente: lo Stato per sua natura
tende all’assolutismo e allo strapotere; esso non sembra disposto a recedere
dalla propria sacralità, sia essa religiosa (omnis
potestas a Deo) sia psicologica e strutturale, sino nelle democrazie, rivelando così il suo vero
volto; e su tale piano sono poste le sorti di popolo e cittadini, se esso non è
frenato, condizionato nelle sue regole di amministrazione e funzionamento e de facto nell’opera di coloro che avendo munus publicum con
esso s’identificano. E il percorso storico-evolutivo se vogliamo linearizzarlo è
un po’ quello, illustrato dalla sociologia: dallo Stato cosiddetto “monoclasse”
allo Stato cosiddetto “pluriclasse”. Per non dire della teoria della persistenza dello Stato "di classe".
È errata quindi la presunzione che lo Stato sia per sua natura “di
diritto”, o giuridico, come invece comunemente s’immagina che sia, in un modo
consolatorio, senza che giunga un pensiero a fare chiarezza; soprattutto nella
condotta di quanti sono solo abituati - non per virtù - a obbedire e chinare
la testa, i cittadini che pagano le tasse, gli “umili” del Manzoni, i deboli e gl’indifesi
cosiddetti di ogni tempo e luogo, vessati dalla legge del più forte, accettata e subita pur se manifestamente ingiusta.
A mitigare questo dato ma confermandolo sarebbero state certe teorie cosiddette “pattizie” sull’origine dello Stato: il popolo e il re
avrebbero stretto un patto, o vi sarebbe stato un contratto originario fra gli
uomini (Rousseau), onde evitare il conflitto perenne (Hobbes).
Un giorno però a rendere le cose più concrete sarebbero
nate le costituzioni scritte, allorquando i nuovi borghesi, colti e
professionali, o i ceti commerciali, avrebbero alzato la testa, e ne sarebbero scaturite
le rivoluzioni, o le dichiarazioni d'indipendenza. Eppoi sarebbero venuti gli operai e i contadini a reclamare i
loro diritti: anch’essi che stavano dalla parte della cultura giuridica per dire
che avrebbero contribuito a farla crescere.
Lo Stato dunque non è per sua natura “di diritto” ma lo
diviene per contrasto. Oltretutto nel linguaggio corrente Stato è una parola
come Dio, Bene, Bello, ecc..; nel senso che ognuna di queste parole può essere
proferita con sentimento improprio o sbagliato.
Tutt’al più si potrebbe ritenere che la giuridicità non sia univoca e che ve ne
sia una che è sinonimo di affermazione di una
regola nel tempo attraverso il fatto, altra che è sinonimo di rispetto di una lex generalis. La prima
che forse è più debole come concezione, qualora si ammetta che il diritto alberga nel
sentimento e nella ragione e non è solo esteriorità data.
Dire lo Stato di diritto equivale però, ché qui si parla di conflitto, anche al
dire che lo Stato, che è potestas, ente
potestativo per eccellenza, che sono posizioni di potere, è tenuto a rispettare
la Legge, la cui sostanza sia la generalità (degli interessi, dei bisogni, dei destinatari
della norma giuridica pensati come popolo o cittadini) e che dev’essere eguale per tutti
(principio di eguaglianza) - altrimenti saremmo al ius singulare, cui siano aperte tutte le possibilità, a danno dei più. Lo Stato-amministrazione dunque è importantissimo, ché dalla sua
buona organizzazione dipende la bontà dello Stato. Problema che si posero e in
parte ebbero a risolvere gl’illuministi nel settecento.
Ma non è solo l’amministrazione buona o cattiva il problema. La locuzione
ius singulare mi sembra assai
esplicativa, venendo a significare l’ombra e di più l’azione abusiva del
privato che s’impone dietro la forma Stato, il quale perché male organizzato viene così piegato nel suo
funzionamento agl’interessi di persone e gruppi che hanno il potere economico;
al che bisognerà capire, se si vuole svolgere una buona analisi politica, quali
forze e gruppi detengano quel potere, invece di fermarsi ai semplici modelli e
forme.
Insomma Stato e privato si attraggono naturalmente l’un
l’altro, più di quanto non avvenga fra Stato e pubblico o società nel suo
complesso. Accade spesso in altre parole che quando si dice pubblico si parla del privato, pur senza nominarlo e concentrare
su di esso l’attenzione.
Se lo Stato non s’immedesima eo ipso col diritto, allora è lotta di contrasto e così è: da una
parte vi è lo Stato come potestas e in
esso inevitabilmente la minaccia della presenza del privato, che valga ad accentuare
il carattere potestativo (come accade nella tirannide, nella dittatura e in
generale nelle autocrazie), che così lo possa usare e che tenda a far emanare
le leggi che crede; dall’altra vi è la lex
generalis e un sentimento giuridico maturo, una cultura, una civiltà giuridica. E quindi le possibilità estreme sono
due: o vi è la legge del sovrano (persona fisica o entità amministrativa che
sia) e di quanti beneficiati lo hanno sostenuto o ne hanno preso il posto nelle
repubbliche, oppure la lex generalis
è sovrana. E la lotta fra le due polarità è costante, è fatta di guerre civili,
coups d'état,
rivoluzioni, ovvero difficili equilibri.
La storia della giurisprudenza spiega bene questi aspetti
problematici, laddove si possa far parola sempre da taluno del cosiddetto
arbitrio della sentenza. Ma laddove un potere autonomo tende ad applicare la
legge e a smascherare le molte ombre degl’interessi privati e di business, che si addensano dietro lo
Stato, procreatore instancabile di affarismi e privilegi (la legge come fonte
di profitto). E certo è che la magistratura non può determinare la riforma
dello Stato ma solo soccorrerne gli aspetti d’interesse pubblico lesi dagli
interessi privati.
E val bene a spiegare le cose anche la storia costituzionale;
laddove una legge superiore, più alta, la lex
fundamentalis, ora introduce il primo limite allo strapotere del monarca, ora
prevede più poteri pubblici ordinandone la coesistenza, in forza di princìpi
che si deve ritenere abbiano un senso se posti al di sopra delle teste. Nasce
ed evolve così la legge fondamentale dello Stato, senza la quale difficilmente
si potrebbe pensare seriamente il principio di legalità.
Ad esempio il principio della separazione dei poteri o di checks
and balances è impensabile, a quanto mi è dato comprendere - nella specie rileggendo
qualcosa sulla GrundGesetz tedesca - senza
un principio di legalità ma appunto
superiore (una semplice legalità ordinaria non dice tutto sulla questione che
si pone); senza il primato riconosciuto del diritto nei confronti dello Stato e
del privato che vi annida.
Ed ecco due corollari: dunque lo Stato lasciato a sé
dimostra di non essere né giuridico né legale; e dunque la condotta del privato il
quale la giustifichi in base al bene pubblico e alla forma Stato è
tendenzialmente criminale.
Dunque infine a spiegare le cose può essere fatta valere
la storia del diritto criminale, laddove si abbia che ad essere minacciati sono
i diritti umani o i diritti fondamentali dell’uomo; la quale categoria, resa in
positivo viene espressa nelle forme scritte del diritto nazionale ma non tarda
a pretendere uno statuto internazionale. Vanno colti in tal senso gli auspici di
un più esteso ed efficace diritto penale internazionale: vi sono ancora troppe
cose che sfuggono al diritto; ma soprattutto il moltiplicarsi delle possibilità
di delinquere - crisi o non crisi dello Stato nazionale - spiega a fortiori la lotta di cui qui si è
parlato.
Nessun commento:
Posta un commento