Il “partito giudiziario”,
donde poi l’altra locuzione: “democrazia giudiziaria”, in Italia, nel cosiddetto “ventennio
berlusconiano” e non solo, sembra avere preso il posto, in quanto a funzione - anche se è qualcosa di più o di diverso -, di un
auspicabile quanto mancante partito di opposizione e ciò a causa del formarsi della cd. "casta": la classe dei rappresentanti nemica di quella dei rappresentati...
Nei fatti, esso si è sostituito - mai dimenticare peraltro che esso origina dal tempo cosiddetto di "mani pulite" - a una ipotetica 'sinistra' (epperò direi: non necessariamente "sinistra") democratica e riformista; meglio ancora: si tratta in fondo del partito della legalità, la quale è stata messa a dura prova dalle classi politiche e di governo, maggioranze e opposizioni - e ancor più: 'partito' o che altro, custode della moralità inscritta nella legislazione e oggettivata, e/o della legalità costituzionalmente orientata...
Pure, il 'vuoto politico' è rimasto e non sarebbe potuto accadere diversamente: come avrebbe potuto quel singolare “partito”, nonostante l'effetto democratizzante e di giustizia risanatrice, espletare davvero la funzione propriamente riformistica e/o di opposizione 'politica', dal momento che esso era chiamato essenzialmente all'applicazione della legge e in questo ad attribuzioni determinate, nonché all'appagamento del sentimento punitivo popolare, rispondente a un principio generalizzato d’imputazione? Ovvero a quel desiderio oltremillenario di vedere i politici, pur essendo magari sempre disposti a baciarne il lembo della veste, in prigione? Effetto antico dunque e non direttamente politico, e... 'ambivalenza emotiva'?
Nei fatti, esso si è sostituito - mai dimenticare peraltro che esso origina dal tempo cosiddetto di "mani pulite" - a una ipotetica 'sinistra' (epperò direi: non necessariamente "sinistra") democratica e riformista; meglio ancora: si tratta in fondo del partito della legalità, la quale è stata messa a dura prova dalle classi politiche e di governo, maggioranze e opposizioni - e ancor più: 'partito' o che altro, custode della moralità inscritta nella legislazione e oggettivata, e/o della legalità costituzionalmente orientata...
Pure, il 'vuoto politico' è rimasto e non sarebbe potuto accadere diversamente: come avrebbe potuto quel singolare “partito”, nonostante l'effetto democratizzante e di giustizia risanatrice, espletare davvero la funzione propriamente riformistica e/o di opposizione 'politica', dal momento che esso era chiamato essenzialmente all'applicazione della legge e in questo ad attribuzioni determinate, nonché all'appagamento del sentimento punitivo popolare, rispondente a un principio generalizzato d’imputazione? Ovvero a quel desiderio oltremillenario di vedere i politici, pur essendo magari sempre disposti a baciarne il lembo della veste, in prigione? Effetto antico dunque e non direttamente politico, e... 'ambivalenza emotiva'?
Era nel trascorso ventennio che la repubblica stessa secundum
legem si opponeva a una praeter
legem, tutelata la prima nel suo lavoro dal principio di legalità e da quello della separazione
dei poteri, meglio della 'divisione del potere'. E in questo nei fatti qualcuno ha voluto vedere che un organo
costituzionale dello Stato era divenuto come un partito, garante dell’ordine
giuridico, costituzionale e democratico. Ma perché - mi domando - una siffatta
anomalia? Perché - cosa non frequente - la corruzione e la elusione della costituzione si erano
materializzati in un partito, che governava; ma certo non si può escludere in un altro, che si sarebbe dovuto opporre e la cui funzione appariva invece sempre più integrativa di un sistema. E perché in questo singolare teatrale 'bipolarismo', si stava costituendo - a voler semplificare - una sorta di anti-Stato nel cuore stesso dello Stato...
La procura di Palermo |
Ma vi è dell’altro, che merita di essere sottolineato, per ottenere una spiegazione; qualcosa di meno specifico
della realtà italiana, ed è che secondo le teorie del realismo giuridico,
segnatamente scandinavo, il giudice è (prima ancora di esserlo divenuto) legislatore. Il che non
dovrebbe sorprendere più di tanto, ché si riallaccia in fondo agli insegnamenti
del diritto di Common Law.
Obiettivamente così la magistratura in Italia (paese di Civil Law) sembra essere andata, almeno per certa sua parte (la cosa non si può dire interessi l'intero potere giudiziario), oltre
le sue attribuzioni. Ma non è tutta qui la questione ed è piuttosto che la legalità è
stata aggredita, da parte di quanti ritenessero, una volta saliti al governo, che bastasse
confezionare leggi truccate e ad personam o ad personas o ignorare il dettato costituzionale, per non smuovere nulla che meritasse di essere smosso.
Comunque, ciò che chiede una riflessione credo sia la realtà storico-obiettiva
e cioè che l’epoca che continuiamo a vivere nel nostro Paese è tale per cui la cosiddetta
“opposizione”, sia pure non programmatica, in una democrazia rappresentativa
ammalata è data dagli interpreti ed esecutori - non direttamente politici - del principio di legalità, perché
appunto è lì che la democrazia dello Stato di diritto è stata colpita. La quale legalità a sua volta -
e in questo può essere colto un accrescimento o un guadagno della coscienza
civile - non deve più essere pensata solo quale primato della legge
parlamentare (la legge formale ordinaria, per il sistema delle fonti) su tutto e tutti (e certo non può essere così, allorquando il
parlamento non è nella condizione di funzionare liberamente) ma quale
interpretazione delle leggi costituzionalmente orientata o quanto meno
integrata da una cultura costituzionale e del dover-essere giuridico. Non più peraltro come coscienza di una sola nazione, soprattutto
considerando quei principi formalizzati nelle carte fondamentali degli stati
che abbiano dimostrato di saper migrare oltre la lettera delle costituzioni
formali, in termini di diritti fondamentali o di diritti umani.
Se la costituzione formale è parte dell’ordinamento giuridico, allora
essa per sua natura illumina le norme legislative e cioè la interpretazione ma
non limitatamente a questo o a quell’ordinamento nazionale. Tutto ciò almeno è quanto
ci è trasmesso da parte autorevole della dottrina, dagli Häberle ai
Perlingieri. Pure esso sarebbe dovuto essere qualcosa di ovvio e conseguente,
se si pensa alla causa delle costituzioni scritte.
Tenendo per fermi questi termini, la realtà storico-obiettiva ci
suggerisce che la teoria del giudice legislatore non tanto trova riscontro
nella figura inaspettata del partito giudiziario quanto piuttosto ad essa si
assomma. Una cosa è che il legislativo si sia indebolito rispetto
all’esecutivo, altra che manchi un vero partito di opposizione. Ma se si assomma è anche perché il legame sussiste. Infatti in codesta duplicità di aspetti un nesso forse lo si può cogliere:
che la funzionalità della separazione dei poteri - o della “divisione del
potere”, per dirla con Montesquieu - si sia sostituita negli ordinamenti
repubblicani a quella di un pluralismo partitico la cui configurazione sia tale
da consentire il formarsi di una maggioranza (di governo) e di una opposizione
(parlamentare). Laddove l’elemento unificatore è dato dalla interpretazione e cioè dal fatto che
l’applicazione della legge non è meno importante della legge stessa. Ovvero che
la norma non è da confondere con la disposizione: questa è il segno, la
scrittura, la sintassi delle proposizioni (e infatti si parla propriamente di
“proposizioni normative”), quella è la regola concreta che necessariamente
succede alla interpretazione.
L’epoca cultural-filosofica per giunta è quella della ermeneutica, anche
sul piano giuridico laddove essa non è caratterizzata da quelle restrizioni che
la école de l’exegèse aveva poste con
riguardo all’applicazione del code
Napoléon. E bisognerebbe forse anche interrogarsi storicamente sulla
eccezionalità del primato del potere legislativo, idealmente democratico ma
riducibile - sempre idealmente - alla temperie della rivoluzione francese e già
prima al dispotismo illuminato che l’aveva preceduta. Ma oltre a questo, che
cosa sarebbe potuta essere la lex lasciata a sé stessa per imporsi, se non la
volontà del principe e non già del popolo, o della nazione? Come potrebbe
insomma il legislatore, mosso dall’esecutivo, imporre riformandolo la sua
volontà a un potere dello Stato e in ciò a una realtà dimostratasi necessaria
oggettivamente? Nessuna classe politica dovrebbe commettere questa leggerezza,
quasi si trattasse di colpevolizzare il giudice.
Rielaborazione di quanto già pubblicano in raccolta in Europa Giovani il 23 dicembre 2013
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