§ 1.- Cartesio per me è significativo, nel mondo e storia
della filosofia, per avere dato alle macchine, avendone constatata la effettiva
possibile autonomia nel funzionamento e certa complessità e variabilità nella
organizzazione, la dignità di oggetto del pensiero.
Ovvero io ritengo che attraverso Cartesio la filosofia abbia
contribuito efficacemente a riconoscere alle macchine, certo non meno che
storicamente, quella dignità che a esse era mancata per lunghissima umana tradizione.
Che mancava ad esempio nella opinione di un Archimede, per il quale la tecnica
non era una nobile occupazione (il che comunque non vale a escludere che la
filosofia se ne occupasse e se ne occupi); o in generale di quanti, nelle varie
epoche, avessero ritenuto la natura non imitabile (mediante l’artificio), o
considerato le macchine - e gli strumenti della tecnica in generale -, atte
semplicemente ad opere servili, o ai divertimenti.
Cultura questa, della distinzione e gerarchia fra arti liberali
(nobili) e arti meccaniche (servili), che è stata consacrata scolasticamente -
come si sa - dal medioevo; ma che non può ritenersi, sic et simpliciter,
cultura medievale, ché si è trascinata anche successivamente, nei preconcetti.
Ritengo inoltre, in questo mio modo di riflettere, che quella virtù che voglio
ravvisare nella filosofia di Cartesio possa essere ricollegata tanto a un’epoca
specifica - che egli è chiamato a rappresentare nella nostra memoria
soprattutto simbolica - la quale va dalla seconda metà del cinquecento al primo
settecento, quanto alla natura stessa del suo pensiero.
Nel
quale, in fondo, che cosa avvenne? Avvenne, in un modo singolare e storicamente
importante, che il mondo
“esterno”, il mondo delle cose, crebbe parallelamente alla crescita del mondo
interiore, venendosi a costituire entrambi, nel loro sviluppo, come mondi
osservabili, e come res. E
ciò fu possibile (anche) perché l’interiorità messa in luce, positivizzata,
esposta al mondo, iniziò un suo cammino di esteriorità.
Il che significa: il cosiddetto “dualismo” (cartesiano) fra anima
e corpo può essere interpretato costruttivamente prima ancora che
gerarchicamente (schema, in fondo abbastanza agevole, della superiorità
dell’anima sul corpo) o in termini di negazione, dell’una nei confronti
dell’altro.
Cartesio, si sa, non ideò quel dualismo, che risaliva invece alla
filosofia degli Antichi laddove aveva raggiunto livelli notevoli di
elaborazione; egli piuttosto ebbe a porlo, e a svilupparlo, mettendolo nella
condizione di dare frutti scientifici positivi - che si possa dire o non, come
è stato detto, che quel dualismo ha mostrato assai presto il suo fallimento.
In altre parole: il dualismo fra
anima e corpo, con Cartesio, si pone in un modo filosofico tale per cui esso
viene contestualmente a incidere sull’ordine scientifico delle cose. Ciò per
cui insomma, raccogliendo le impressioni, la filosofia stessa entra nel
circuito scientifico positivo. Presentandosi invece, le soluzioni date da altri
filosofi al problema, ad esempio da Malebranche o da Spinoza, come non inerenti
in modo diretto agli sviluppi della scienza fisica.
Questo significa, ancora, che proprio a quel processo di
disincarnazione del pensiero, che Cartesio condusse nelle sue riflessioni e sul
quale c’intratterremo, va ricollegata la possibile sensibilizzazione del
pensiero occidentale al valore delle scienze positive ed alla realtà fisica (o)
esterna in generale. Che proprio nel contesto di quel processo, legato
profondamente a una mentalità matematica e anatomica, può essere riconosciuta
una prima liberazione di spazi culturali in favore delle macchine, segnatamente
quelle dotate di organizzazione, e in ciò liberazione della tecnica.
§ 2. - Il fatto che con Cartesio ciò che è macchina venisse ad acquisire dignità filosofica può essere ricollegato a motivi (A) di ordine storico e a motivi (B) di ordine filosofico - che qui intendo considerare, per quanto ciò si renda possibile, separatamente.
(A) Proverei a sintetizzare i
primi nell’immagine generale, da associare quasi in termini definitori all’età
moderna, dell’incontro culturale dell’anima (occidentale, che si stava
rifondando o comunque trasformando, in un suo nesso di contemporaneità con la
nascita della metafisica moderna) con la macchina. Avvio cioè di un comune
possibile percorso e di possibili convergenze, tra la fondazione della moderna
metafisica dell’essenza e la teoria meccanicistica della realtà,
ovvero di tutto ciò che sia osservabile e misurabile come esteriore, secondo
quanto si ha nelle opere cartesiane.
Questo incontro può essere giudicato
significativo, dal punto di vista storico, perché in fondo qualsiasi strumento
è macchina e la macchina, si sa, è antica - e quando dico questo penso alla
leva, allo sviluppo che essa ebbe presso gli Egizi; al carro; ai dispositivi
bellici - .
Antichi sono anche gli automi (autòmata,
ovvero macchine “che s’istruiscono da sé”, “si muovono da sé”), come dimostrano
il sistema per l’apertura del tempio, ideato da Erone Alessandrino, o la raganella (plataghè) musicale
e la colomba in legno in grado di volare che il filosofo Archita avrebbe
costruite, come si narra, per amore dei bambini[1].
Oppure gli orologi idromeccanici del medico Ctesibio. - Penso anche, in
generale, al valore degli automi greci, provato - fra l'altro - dal loro
influsso sulla tecnica degli Arabi. -
La macchina dunque è antica, e lo è,
parimenti, l’intuizione del legame che unisce la matematica e la meccanica, o
la meccanica alla natura; e la raffigurazione del mondo come una grande
macchina (così era ad esempio per Vitruvio Pollione, il quale nel De
architectura sosteneva che la natura stessa contiene i principi della
meccanica, insegnandoli agli uomini), immagine che siamo usi associare in un
modo caratteristico al materialismo settecentesco (a Cartesio, appunto, come al
matematico De Monantheuil); che, evidentemente, non risale a questa epoca ma
che in questa trova un significativo sviluppo culturale.
Questa antichità, nella esistenza,
si spiega con una certa istintività della macchina, ovvero con un suo
fondamento naturale. Istintività o fondamento naturale significa che da sempre
la macchina, in quanto artefatto, è chiamata a compensare i limiti umani,
essenzialmente nell’applicare la forza (o il pensiero, in generale) agli
oggetti (io penso così ancora alla leva, per il rapporto che in essa si ha: fra
l’efficacia e la semplicità); perché da sempre l’uomo vi ha trasposto il corpo
o l’intelletto, in varia misura, per quelle che sono le radici della umanità
stessa della cultura tecnica.
Da una parte dunque si può ritenere
che la macchina è antica per le medesime ragioni per cui essa è medievale o
moderna. Essa lo è in quanto non-inessenziale, ovvero in quanto prossima
all’uomo, essendo inscritta nella sfera dei bisogni; dunque per un fatto quasi
naturale. Ma dall’altra parte essa è moderna per le medesime ragioni per cui
moderno - per quanto avvenne a decorrere dalla fine del cinquecento - può
essere considerato il riconoscimento dell’importanza scientifica, economica,
sociale (ed il deciso sviluppo ed affinamento, nella prassi) degli strumenti per
le misurazioni ed il calcolo. Oppure il tentativo di riabilitazione sociale
degli inventori o meccanici e delle loro opere (lo fece l’abate Baldi nella
“Premessa” alla sua traduzione dello scritto di Erone sulle Machine Se
Moventi, pubblicato sul finire del cinquecento). Oppure l’avvio di una
sensibilizzazione senza precedenti nei confronti, soprattutto, degli automi.
Ovvero per la diversità che è - secondo gl’insegnamenti della storia - nel
fatto.
Moderno quindi nella macchina è
qualcosa che appartiene e non appartiene alla macchina, ovvero, oltre la
prossimità all’uomo, la diversità del fatto di per sé stesso; ed in ciò, nel
nostro caso, pesa molto il dato nuovo, cinquecentesco: di un rinnovato costume
del calcolo, con la sua necessità ed i suoi effetti.
Il calcolo in generale, si sa,
prende piede, nella vita quotidiana, nella società, del
cinquecento, allorquando vengono vinte le remore legate alla utilizzazione dei
numeri romani, al calcolo mostratisi non congeniali per la loro scarsa
praticità; ovvero allorquando si avverte l’insufficienza dell’àbaco.
Ed è importante, con riferimento
sempre a quell’epoca, il legame e meglio la corrispondenza fra la matematica,
che diviene modello per la riforma del pensiero (tale è l’interpretazione
ricorrente del Discorso sul metodo) ché essa sola dà certezza, e
quella che è l’affermazione, sociale, della matematica, la quale allora
“cominciava ad entrare [era meglio entrata] nella vita della gente”. Essa
allora usciva dall’ombra, “Non era il mistero esoterico che era stato prima del
decimo secolo in Occidente [...] né riservata in esclusiva a dotti molto
specializzati come nei secoli che seguirono Gerberto”[2].
Tutto questo può significare più
cose: a causa o nei termini - se così si preferisce dire - di quella
corrispondenza. Significa in generale che con l’età moderna, con l’abbattimento
- per così dire - dell’àbaco, il calcolo entra nella vita del pensiero,
nella sua economia vivente. Il pensiero si scopre calcolante - come ha
insegnato efficacemente Hobbes; tanto quanto il pensiero come tale entra, più
profondamente di quanto non fosse mai accaduto prima, nella tecnica, organizza
un suo discorso sulla tecnica, in quello che potrebbe essere ritenuto (anche)
come un destino, per il pensiero stesso.
Questo avviene - anche e cioè non
separatamente rispetto alla importanza del calcolo - perché storicamente in
quell’epoca della quale si parla sorgono nessi significativi fra macchina e
pensiero. Ovvero perché questi nuovi legami si possono spiegare con
l’invenzione ed uso di dispositivi o macchine che possono dirsi significativi,
che entrano nel circuito della vita. Fra i quali nessi meritano di essere posti
all’attenzione quelli emersi con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e
quelli avutisi sul piano della navigazione e dei commerci.
Da una parte la espansione
dell’attività di calcolo può essere osservata - e questo costituisce ora più
che una mera supposizione e dovrebbe essere trattato alla stregua di un
importante argomento da approfondire - come una evoluzione del segno grafico (la
lettera dell’alfabeto, i numeri, ecc.), del carattere e del suo simbolismo
costitutivo, che muovendo dalla invenzione della stampa giunge gradualmente
sino ai valori algebrici. Essa per certi versi può essere così ricollegata al
fatto, alla teoria del fatto, che sia stata la macchina per la stampa a
produrre una condizione favorevole alla numerazione, o alla rappresentazione
simbolica del pensiero.
Sotto questo profilo si può cogliere
un legame: fra la nascita dell’epoca cosiddetta “gutenberghiana”, la quale per
definitionem ha introdotto la potenzialità ripetitiva della tecnica ed
in questo la “omogeneizzazione visiva” dell’esperienza, l’attività - il lavoro
per così dire dell’animo, o il bisogno - di numerazione e la meccanizzazione[3].
Dall’altra parte il nesso: tra
numero e macchina, matematica e macchina, emerge in una maniera
significativa con la intensificazione dei traffici marittimi commerciali,
laddove viene in luce nel cinquecento, in relazione alla stima del cosiddetto
“punto nave”, l’importanza della strumentazione di bordo: nascita, in ciò,
della cosiddetta “navigazione aritmetica”[4].
Quel nesso, nell’epoca
che andiamo considerando, giunge all’approfondimento ed alla sintesi. Dice la
cronologia: fu allora che Gunter ideò il regolo logaritmico, Schickard il suo
“orologio calcolatore”, Pascal la sua addizionatrice (la cosiddetta
“pascalina”), Leibniz formulò i suoi progetti di macchine, con ruote dentate e
pulegge, in grado di dividere e moltiplicare, oltre che di addizionare e
sottrarre[5].
La macchina "aritmetica" di Leibniz |
[1] Cfr. Archita, ne I presocratici, a
cura di H. Diels - W. Kranz - trad.
it. - Milano 1991, p. 505 nt.
[2] V. Pratt, Macchine pensanti. L’evoluzione
dell’intelligenza artificiale - trad. it. -, Bologna 1990, p. 55. Le parole fra parentesi
quadre sono mie.
[3] M. McLuhan: Dall’occhio all’orecchio
- trad. it., Roma 1986 -, p. 37, e La galassia Gutenberg - trad. it. -,
Roma 1995, pp. 37 e 211.
[4] Pratt, Macchine pensanti, pp. 42 e ss.
[5] Per una storia
evolutiva delle macchine si veda in generale il libro di Pratt.
Il filosofo dunque fa parte del pubblico, ovvero:
ottenendo il suo pubblico, così, la macchina ottiene la condizione per il suo
effetto filosofico. Essa può essere, su questo piano, oggetto di osservazione,
o valore di riferimento e anche modello, per il pensiero: poté esserlo
per Cartesio, come si verrà esponendo, ed anche per Hobbes.
§ 3. - “Moderna” per quanto si coglie nella diversità del
fatto, è inoltre la sensibilizzazione a favore delle macchine, e meglio
a favore degli automi, di un pubblico.
Ovvero: non si ha sotto gli occhi semplicemente
l’abitudine degl’inventori e costruttori, di esibire sui campanili delle
chiese, o nei giardini più importanti delle città, le loro opere - che fossero
complessi ad orologeria o fontane -, oppure a fare dimostrazione di automi[1]
dotati del sembiante di animali o persone (automi per così dire
“naturalistici”); abitudine quanto meno già sorgente in epoca medievale. Ma il
fatto proprio che venga a formarsi, in questo mostrarsi, ma al di là di tutto
ciò, un pubblico.
Si può dire dunque che agli automi, in quella che qui
si considera epoca di Cartesio, viene dato, illuministicamente (cioè
anticipando una idea illuministica, la temperie illuminista), un pubblico.
Ovvero in primo luogo: (a) presso le “genti
grosse” gli automi suscitavano meraviglia per risultare a quelle il principio
del moto in modo insensibile: “Nel carro, e nel molino, i motori sono
manifesti, onde veduti da tutti non può cadere altrui nel animo che quelle
macchine per se stesse si muovano; il che non avviene in queste se moventi,
nelle quali il principio del moto che è il contrapeso, se ne stà nascosto, e
non veduto da niuno”[2].
In queste parole, dell’abate Baldi, si conia un po’
una teoria del motore occulto; e si avvia storicamente, sul finire del
cinquecento, la prima riflessione moderna sul valore intellettuale della
tecnica. Riflettere, come egli fa, sulla meraviglia provocata dalle macchine
semoventi, significa riflettere sul fatto che l’arte, “la quale è principio
estrinseco, dia à le cose inanimate un moto intrinseco, e simile à quello, che
à le cose naturali de la natura medesima”[3].
La riflessione dunque investe il rapporto fra l’automa
e il pubblico, dice a noi in qualche modo che cosa significa "pubblico",
promuovendo l’unità. In ciò essa investe il rapporto fra ciò che è nobile e ciò
che è servile o puramente dilettevole, testimoniando in generale la
trasformazione, moderna, del rapporto fra ciò che è interiore e ciò che è
esteriore. Servile sì; ma accettabile, accettato proprio per questo.
Sempre secondo un siffatto tenore della riflessione il pubblico è
colpito dal non vedere, ma forse anche è importante il gusto analogico quale si
ha sul piano del sentimento delle arti. Nel quale è tale, l’evoluzione, per cui
è come se la scultura si traducesse in meccanica. Preludio, questo, alla
traducibilità del corpo in meccanismo ad orologeria. Imitazione di un principio
di animazione secondo quella che ad esempio è la filosofia del movimento delle
membra.
L'automa cavaliere, di Leonardo |
Negli automi naturalistici la sensibilità coglie
dunque la trasformazione delle sculture in figure che si muovono o che sono
animate. Coglie la differenza fra le statue classiche, nella loro staticità, e
l'animazione. La prima cosa che accade, nella esteriorità, la prima cosa che
dice il fascino della macchina, è che ciò che s'immagina fermo invece si muova:
Cellini, che con un espediente mobilizza una statua in argento di Giove
facendola sospingere da un fanciullo verso il re, Francesco I, dà il senso di
quella differenza e di quella trasformazione[4].
Si apre in questo modo alla fusione dell’arte
meccanica con l’arte figurativa, alla sintesi, possibile, di ciò che è organico
con ciò che è meccanico, perché è animato.
In secondo luogo (b) sensibilizzazione di un
pubblico in senso moderno significa circolarità del pensiero e stimolazione
filosofica, ovvero anche: grande fu, in generale, nell’età di Cartesio, la
curiosità del pensiero per le potenzialità degli automi, soprattutto per quelli
ad orologeria: “Né l’automa greco né quello magico si trovano sulle principali
linee di sviluppo della macchina moderna, né sembrano avere avuto molta influenza
sul pensiero filosofico. Ben diversa è la situazione per l’automa a orologeria.
Questa idea ha svolto una funzione molto importante e originale agli inizi
della filosofia moderna [...]”[5].
Nel seicento, così, Dio poteva essere paragonato ad un Orologiaio (oppure si
poteva dire, con De Monantheuil, in modo corrispondente, che Dio fosse sia
“mechanikòs”, sia “mechanopoios”[6])
.
Il "Turco che gioca a scacchi", di von Kempelen, 1770. |
Il quale paragona, nell’introdurre il Leviatano,
l’uomo ad una macchina, il cuore umano ad una molla, i nervi a ruote,
sottolineando in generale il valore di vita artificiale (dunque di
autonoma vitalità) degli automi, “macchine [nella sua definizione]
semoventi per mezzo di molle e di ruote, come un orologio”[7].
E soprattutto, infine, per Lamettrie.
Si ha in questo provocazione di nuova filosofia ovvero
si ha come filosofia vivente, perché questi fenomeni investono,
materializzandone gli oggetti, il discorso filosofico stesso. Inducono nuova
riflessione, o meditazione, sull’umanità dell’uomo, avvicinano il pensiero al
senso trasformativo insito nelle realizzazioni della tecnica. Ponendosi, o in
un modo critico, o in un modo costruttivo, sul terreno dell’origine della metafisica
moderna.
§ 4. - Parlando di “vita artificiale”, artificial life, Hobbes si riferisce al movimento
delle membra.
E di fatto, sotto il profilo storico, con riferimento
agli strumenti per il calcolo e agli automi, considerando il loro valore funzionale,
il loro valore esteriore piuttosto che interiore, si potrebbe parlare -
a volersi esprimere con una formula usata nel nostro tempo - di artificializzazione
del corpo.
Ma il senso della cosa è tale per cui è vero che è
difficile dimostrare che l’artificializzazione non fa parte del modo come il
corpo viene vissuto: quale complesso di organi ovvero, secondo l’etimo, di
strumenti, e dunque che essa, nel senso, non è la naturale prosecuzione di
qualcosa che già esiste e ci è dato.
Le macchine in altre parole - in questo si ha anche la
prossimità all’uomo - possono essere ritenute strumenti perché esse altro non
sono che nuovi ulteriori organi di una realtà, quale il corpo, vissuta
dall’uomo, nella storia e nell’esistenza, in un modo strumentale: concezione
aristotelica, ad esempio, della mano come strumento degli strumenti,
ricordata significativamente da Zschimmer agli inizi del nostro secolo nella
sua Filosofia della tecnica[8].
Anche per un qualche suo legame con la teoria di Kapp[9],
detta “della proiezione degli organi”, per la quale ogni strumento prima della
sua realizzazione è stato prima vissuto dall’uomo in modo naturalistico
essenziale.
La considerazione di Hobbes sulla vita artificiale -
il che significa: le considerazioni che lo stesso Cartesio svolge sulla
macchina del corpo - si riallaccia dunque ad un contesto di riflessione
naturale sulla tecnica. Per cui se si parla di artificializzazione del corpo lo
si fa perché il corpo è stato, è, vissuto (anche) artificialmente.
Si potrebbe dire anzi essere questo il nocciolo del
problema, per cui sempre è in piedi, è presente, il sentimento
dell’artificialità del corpo, per come esso, quale esteriorità, realtà, è
vissuto rispetto a una interiorità. Nel che si ha in fondo il valore dello
schema dualistico in relazione al discorso sulle macchine.
E anche, di séguito: la vita artificiale, di cui parla
Hobbes, è omogenea in fondo con qualcosa che avviene nel rapporto con il corpo
e consiste in ciò nello stesso sempre maggiore - storico, necessitato -
arricchimento strumentale del nostro rapporto con la realtà[10].
Ciò ha un qualche suo riscontro, su un piano
oggettivo, con la teoria della “estensione”, enunciata nel nostro tempo dalla
sociologia o psicologia della comunicazione. In cui per così dire il passo
ulteriore rispetto alle tematizzazioni seicentesche consiste nel riconoscere
negli oggetti strumentali prodotti dalla industria umana estensioni (o
traduzioni) di specifici organi del nostro corpo. La ruota così ad esempio,
secondo McLuhan, prende il posto, sviluppa, estende, velocizza il piede;
l’indumento estende la pelle, ecc. Così la macchina è - semplificando -
estensione del corpo e segue in questo le regole della evoluzione organica e
il principio per cui ogni estensione genera nuove estensioni[11].
Ma, se è vero che l’artificializzazione di cui parla
Hobbes è omogenea con qualcosa che da sempre avviene nel rapporto con il corpo,
è anche vero che la questione nell’epoca di Cartesio si pone in termini
diversi.
Qualcosa viene come rovesciato: non s’impone più un
modello naturalistico ad un mondo artificiale, ma si fa il contrario. Così ad
esempio Cartesio sostiene che gli animali sono automi.
§ 5.- (B) Proverei a sintetizzare il secondo ordine
di motivi nell’immagine della
costruzione filosofica di una (nuova) casa per l’uomo; che può essere definita
come “autoconoscenza” oppure - per quella che è la nostra prospettiva - artificializzazione
della mente - includendo, nella mente, l’attività del pensiero in generale.
E meglio: disincarnazione del pensiero e sua artificializzazione.
È ragionevole ricordare Cartesio e la sua epoca
(considerata qui essenzialmente come sei-settecento; ed avrei potuto
dire anche “Leibniz e la sua epoca”; ma la cosa avrebbe assunto forse un altro
significato, volto maggiormente ad una finalizzazione), la quale è come se da
Cartesio prendesse l’avvio per non poter essere pensata indipendentemente da
lui, perché a quel tempo l’anima ebbe bisogno per così dire di una nuova
costituzione; epoca detta solitamente moderna, che dunque forse può
definirsi come tale perché in essa l’anima (vita, o conoscenza, o memoria,
ecc., problematicamente) dovette ricostruirsi e (nuovamente) riconoscersi.
Si può dire così: l’anima razionale, post-copernicana,
per non sentirsi più al centro del cosmo scruta in sé o comunque in qualche
modo si riconosce. Ma ciò, in quale modo? Con quale maggiore profondità, rispetto alle parole?
Ovvero: nella nostra età moderna,
contemporaneamente alla evoluzione e valorizzazione delle macchine - che voglio
ricondurre, pur nella loro “esteriorità”, al profilo dell’anima razionale -,
prende l’avvio un lavoro filosofico importante - vari motivi del quale sono presenti nello stesso
pensiero cartesiano - che mira all’autoconoscenza
non solo in una chiave definitoria generale ma anche nei termini della
filosoficità del simbolismo e del calcolo.
Qui, trattandosi di profili
interni della filosofia, bisogna riparlare di quel concetto centrale
dell’ingresso del calcolo nel pensiero. E si potrebbe aggiungere: ingresso del
calcolo secondo la sua essenza nella sfera morale dell’utile.
Ciò avviene nell’epoca alla quale
si fa riferimento in un modo tale per cui con il calcolo si astrae: rispetto a
questo o quell’oggetto, rispetto a questa o quella specifica attività umana
(commercianti, ispettori, geografi, navigatori, astronomi, ecc.) unificandole,
e rispetto allo stretto uso matematico.
Si pongono su questo piano - in generale -, le
intuizioni di Hobbes, secondo cui l’uomo, pensando, calcola (egli sottrae e
addiziona, cioè, ma si può dire che questo egli faccia, anche quando egli non
sembra farlo) e secondo cui il simbolismo corrisponde alla universalità del
calcolo. Ovvero: “Quando una persona ragiona, non fa altro che concepire
una somma totale risultante dall’addizione di parti o un resto derivante
dalla sottrazione di una somma da un’altra. Fare la stessa cosa con le
parole significa concepire in successione conseguente i nomi di tutte le parti
fino al nome dell’intero oppure il nome dell’intero e di una parte fino al nome
dell’altra parte. Anche se, relativamente a certi oggetti (come i numeri), oltre
all’addizione e alla sottrazione, si parla di altre operazioni,
quali il moltiplicare e il dividere, queste sono la stessa
cosa, perché la moltiplicazione non è altro che addizionare insieme cose
uguali e la divisione non è altro che sottrarre una cosa tante volte quante è
possibile. Queste operazioni non riguardano soltanto i numeri ma ogni specie
di oggetti che possano essere addizionati e sottratti gli uni dagli altri.
Come gli aritmetici insegnano l’addizione e la sottrazione con riferimento ai numeri
così i geometri insegnano la stessa cosa in ordine alle linee, alle figure
(solide e piane), agli angoli, alle proporzioni, ai tempi,
ai gradi di velocità, di forza, di potenza, e così via; lo
stesso insegnano i logici a proposito della successione dei termini,
addizionando due nomi per ottenere un’affermazione, due
affermazioni per ottenere un sillogismo e più sillogismi per
formare una dimostrazione; dalla somma o dalla conclusione
di un sillogismo sottraggono una proposizione per trovare l’altra”[12].
Laddove al centro delle attenzioni si pone ogni anima,
per così dire, non più protetta da pregiudizi.
Sono noti, sempre in tal senso - di aversi in
quell’epoca con il calcolo un’attività di astrazione, e di finzione per la
mente -, gl’interessi di Leibniz per il sistema matematico binario, ed in
generale i suoi studi in tema di “caratteri” o simboli (cosiddette ars
combinatoria e ars characteristica), laddove il filosofo analizza il
valore convenzionale del linguaggio, dei numeri e dei segni: per studiare la
mente umana[13].
E sarebbe meglio dire: per studiare l’anima razionale.
Tale lavoro filosofico sembra possedere questa
caratteristica: che esso non necessariamente è volto direttamente alla
creazione ed affinamento di macchine, ma esso è siffatto per cui in qualche
modo comunque vi si riconduce. Se gli studi leibniziani sono diretti alla
realizzazione di calcolatori (progetto, ovvero “sogno”, in fondo in qualche
modo avveratosi, di una cosiddetta “meccanizzazione della ragione”), con
Cartesio (il quale - è stato osservato - non è riuscito a vedere come il
pensiero possa essere meccanico[14])
quel lavoro non prende le mosse dal legame - essenzialmente di riproducibilità
- fra mente calcolante e macchine e reca in sé, profondo, il segno del dualismo
considerando in ciò il lato - non per questo non pensato, anzi ritenuto degno
di grande crescente complessità - della esteriorità.
L’analisi della conoscenza e della mente si svolge in
Descartes, contrariamente a quanto accade a Leibniz, all’infuori della
progettazione di macchine da calcolo; dunque l’epoca, che potremmo definire dei
filosofi-scienziati, e la questione erano tali per cui anche il fatto di voler
meccanizzare il calcolo non dissipava il dualismo (fra l’anima e il corpo) e
per cui certe differenze nella sostanza rilevavano e non, e cioè: il pensiero
che non fosse volto direttamente alla creazione o all’affinamento delle macchine
si rendeva obiettivamente e storicamente complice di sempre possibili
creazioni ed affinamenti di automi per il fatto stesso di osservare
l’intelletto umano. Sono state ritenute infatti favorevoli al mondo delle
macchine la critica di Locke delle idee innate, la sua teoria della tabula
rasa e la sua critica del sillogismo[15].
E ancora - secondo quanto ora accennato e come si vedrà meglio in séguito -
anche l’idea di un Cartesio “anticibernetico della mente” è inscrivibile nella
storia della cibernetica. Essendo che il difetto cartesiano consiste in una
teorizzazione non diretta, non in una in senso contrario, rispetto a Hobbes;
ovvero l’asserita debolezza filosofica della tesi della ghiandola pineale - se
ciò anche fosse - non indebolisce il discorso né le incisioni che esso ha sulla
teoria dell’anima in generale. Che dire?: l’osservazione ha sempre i suoi
limiti ma non per questo va necessariamente contro la imitazione.
Certe complicità del lavoro filosofico con
l’evoluzione moderna delle macchine, al pari del legame che unisce gli automi
ai semplici strumenti per il calcolo, sono state messe in rilievo dalla
storiografia (contemporanea) delle macchine “pensanti”. E sono riconoscibili,
quanto all’aspetto rappresentazionale, quasi come regola naturale, per cui si
potrebbe sostenere, ad esempio, che l’uomo “Imparando ad allontanare da sé
l’occorrenza fisica diretta del mondo fenomenico, la sua inevitabile
compresenza spazio-temporale, mediando e sostituendo questo rapporto con
modelli, artefatti, “rappresentazioni”, ha intrapreso quel lungo cammino che
lo ha portato alle odierne conquiste tecnologiche”[16].
Si potrebbe dire quindi di una quasi-naturalezza tecnologica
che è insita nel moderno simbolismo rappresentativo, ovvero nella logica
simbolica. O di una migrazione,
importante, dal segno grafico come segno esteriore (: visibile,
scrivibile, supportabile, realistico) al segno mentale, simbolico.
Ciò che prende rilievo e valore è dunque
sostanzialmente, nell’epoca, la rappresentazione. Ma essa non deve far
dimenticare l’utile (economico, morale, culturale) del calcolo.
L’esteriorizzarsi - secondo le riflessioni di Hobbes - o il positivizzarsi, di
un segreto meccanismo del cervello.
[1] Per quanto
riguarda la storia degli automi si rimanda, oltre che al libro di M.G. Losano, Storie di automi, Torino 1990, a testi quali I
robot nel mito e nella scienza (di J. Cohen)
o I falsi adami. Storia e mito degli automi (di G.P. Ceserani).
[2] Considerazioni
del Baldi proposte in Losano, Storie
di automi, pp. 6 e s.
[3] Ivi, p. 7.
[4] Episodio
riferito da H. Bredekamp: Nostalgia
dell’antico e fascino della macchina, trad. it., Milano 1996, pp. 11-12).
[5]
Il brano di
N. Wiener, comparso in una delle
edizioni del suo Cybernetics, è tratto dal libro di G. L. Linguiti intitolato Macchine e
pensiero (Milano 1980), p. 84.
[6] H. De
Monantheuil, Aristotelis mechanica, emendata, Latina facta, et
Commentariis illustrata, Paris 1599.
[7] Th. Hobbes, Leviatano, Introduzione
(consultato nella trad. it., Bari 1989), p. 5. Le parole fra parentesi quadre
sono mie.
Cfr. inoltre il primo capitolo del testo di J. Hooper e D. Teresi, L’universo della mente - trad. it. -, Milano
1987, pp. 21 e s.
[8] E. Zschimmer, Philosophie der Technick,
Berlin 1917 (consultata nella traduzione parziale in italiano in AAVV, Tecnica
e cultura, Milano 1987: pp. 214 e s.).
[9] E. Kapp, Grundlinien einer Philosophie
der Technick, Braunscweig 1877.
[10] Cfr. l’articolo
di T. Maldonado dal titolo Corpo
tecnologico e scienza, in aa.vv.,
Il corpo tecnologico, Bologna 1994, p. 79.
[11] Cfr. McLuhan,
Gli strumenti del comunicare (trad. it. di Understanding Media),
Milano 1995 (ad es. le pp. 182 e ss.; 129 e ss.).
[12] Hobbes, Leviatano, cap. V: “La
ragione e la scienza” (trad. it. cit., p. 35). Si veda anche Pratt, Macchine pensanti,
p. 92.
[13] Ad esempio: G.
W. Leibniz, Dissertazione sull’arte
combinatoria (1666), Elementi di filosofia (1675), Cosa è un’idea
(1678), Elementi di calcolo (1679).
[14] P. Churchland, in Hooper-Teresi, L’universo della mente,
p. 28.
Il che però, a ben riflettere, sarebbe dovuto o potuto
emergere - soprattutto in Cartesio - in forza di una regola di reciprocità, per
cui se il pensiero pensa il suo oggetto come meccanismo, allora...
[15] Cfr. Wiener, Introduzione alla
cibernetica - trad. it. -, Torino 1982, pp. 93 e s.
Per
quanto riguarda J. Locke, si
vedano il “Secondo abbozzo” del Saggio sull’intelligenza umana (trad.
it., Bari 1968) ed il Saggio sull’intelletto umano (trad. it., Torino
1971).
[16] P. L. Capucci, Il trionfo del corpo, in aa.vv., Il corpo tecnologico, p.
33.
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