lunedì 28 gennaio 2013

La costituzione in senso "materiale"



Potrebbe non trattarsi di un paralogismo; ma il non dover trascurare, perché di mero fatto, gli elementi che entrano nella giuridicità (secondo il rimprovero mosso da Mortati al Burckardt) non è detto che equivalga al dover considerare il fatto come giuridico in sé.
Una difficoltà che sembra insormontabile, tanto il cammino intrapreso è rischioso, e che non può allontanare il sospetto che il giurista, sostenendo - mettiamo - che lo Stato non preesiste al diritto, o che la positività sia “elemento intrinseco del concetto di diritto”, possa solo ingannarsi sul conto dell’antica verità, che sempre ritorna: che il diritto lo è del più forte; ovvero, per quanto ribadito da Hobbes: auctoritas non veritas facit legem
Per restare al tema che qui ci occupa e cioè: nascita e legittimazione della costituzione dello Stato - ed è il caso specifico dello scritto sulla costituzione in senso materiale di Costantino Mortati -, la problematicità della questione per dire probabilmente il suo limite, è in ciò, che essa rimanda a quella del rapporto tra il fatto e il diritto. Bisognava, all’epoca, fare i conti con certo realismo giuridico, il realismo se vogliamo à la Schmitt, e l’impresa non era facile. 
Forse, vien fatto di osservare, in questo se la sono cavata meglio i filosofi, rispetto ai giuristi: le costituzioni, meglio gli stati, nascono da un contratto o da un patto originario; e più in generale esse se non sono concesse (ottriate, secondo quanto era nello stile dei luigi di Francia e non solo) allora sono pattizie; o i fautori dell’autorità come investitura divina; o i populisti per così dirli di ogni epoca e grado (ammesso che nel medioevo ve ne potessero essere veramente): il potere passa inevitabilmente attraverso il consenso popolare. 
Costantino Mortati
Ma negli anni trenta e quaranta (la prima edizione del libro di Mortati è del 1940 e dunque il tema comincia ad occuparlo prima), almeno da noi, tanto era lontano sensibilmente il contrattualismo (vi è un quid pluris, rileva il Fioravanti ne Le dottrine della costituzione, “che lega e vincola gli individui ben più di qualsiasi contratto”, ovvero, a voler anche riprendere la lezione del Savigny: “un insieme d’individui può darsi uno Stato solo se è già un popolo, ovvero se già è in sé ordinato”), tanto anacronistiche se pure da meditare le dottrine medievali, tanto era problematico lo Stato, quanto la filosofia, dopo la crisi dell’idealismo assolutistico tedesco, sembrava cedere il passo alla dottrina giuridica; e di allentamento culturale, con molte probabilità, dové trattarsi, essendo che i veri giuristi poco erano e sono versati alla filosofia, nonché al pensiero storico.
Mortati, nel tentativo non tanto di offrire un’alternativa al realismo giuridico scandinavo o comportamentista ma di mitigare sotto il profilo del diritto costituzionale ogni possibile riduzione del diritto al fatto, sembra innanzi tutto fornire sviluppi in positivo a ciò che Santi Romano agli inizi del novecento sentiva come nuovo, incerto e - suppongo - allarmante, dandogli così in qualche modo ragione. Laddove il nodo da sciogliere non sembra quello del ripensamento dello Stato ed invece quello delle forme d’inserimento della società nello Stato. E come non apprezzare dunque su questo punto la valutazione offerta dal Pinna, secondo il quale “La nuova realtà dello stato è stata rappresentata come costituzione in senso materiale da Mortati”, la cui teoria corrisponderebbe alla “condizione nella quale gli interessi e la strutturazione sociali sono usciti dall’ambito apolitico della società civile e si sono organizzati politicamente nei partiti” (P. Pinna, Il costituzionalismo inclusivo)? Nel che, a pensarci bene, si sarebbe bene aperta la porta al sospetto dei due stati in uno; del partito (sociale) più forte dello Stato; o dello Stato come mezzo.
E vi è anche che Mortati nel suo argomentare sembra condividere (La costituzione in senso materiale, pp. 20 e ss.) non le conclusioni ma le premesse del Kelsen, aspetto non banale e che invece fa riflettere; e così mi domando: perché a un certo punto quel suo ritrarsi per così dire di fronte alle conseguenze logiche, che andassero in ben altra direzione rispetto a quella di una kelseniana Norma Suprema ideale? Forse perché egli temeva il limite ontologico del diritto? E perché farsi belli della effettività; in considerazione ad esempio del fatto, rilevato dal Cotta, che la dottrina giuridica realistica non fornisce alcuna giustificazione della validità della regola ma solo una spiegazione della obbedienza che ad essa si presta?
Sembra proprio, come dicevo, che Mortati si riallacciasse nolens volens alla lezione del Romano; ma ora ciò che serviva, nella mente del nostro giurista, era una spiegazione soggettiva e dinamica della costituzione materiale; bisognava identificare il protagonista materiale dei mutamenti costituzionali. Ed ecco allora profilarsi, per pareggiare i conti con la tesi schmittiana della decisione politica fondamentale identificandone il decisore - Mortati rimproverava a Schmitt di avere confuso tra il “momento esistenziale decisionistico/politico e quello normativo” (C. Galli) -, la teoria delle forze sociali organizzate - sociali sì ma non considerate per sé, non lasciate ai fattori “puramente sociologici” (La costituzione in senso mat., p. 32), non puramente empiriche - e cioè del partito politico che s’imponga, come istituzione e quale soggetto da cui la norma “emana” (ivi, p. 23) e con la norma l’ideologia, condivisa o condivisibile.
“Questa forza, risultante dall’organizzazione di un gruppo sociale che si differenzi dagli altri, in quanto riesca, trionfando su gruppi antagonistici portatori di interessi diversi e orientati verso un diverso modo di intendere l’unità politica, a far valere effettivamente la forma particolare di ordine, da essa affermata, offre il contenuto della costituzione originaria, fondamentale” (ivi, p. 63).
Ovvero: “È […] il particolare modo di intendere i sentimenti, i bisogni, gli interessi, propri di una consociazione, che, presiedendo alla scelta e alla graduazione di quelli fra di essi da soddisfare, determinando il modo della loro soddisfazione, imprimendo la struttura adeguata a realizzarli, riesce precisamente a ordinare e ricondurre ad unità l’insieme delle attività, le quali quindi si pongono come mezzi rispetto ad essi. //E ciò […] può essere opera non della comunità indifferenziata, ma solo del gruppo, che assume in essa la funzione attiva necessaria per estrarre dall’indistinto, dal vago, dal molteplice degli interessi comuni quegli orientamenti ritenuti necessari per la comunità stessa, o eventualmente per imporne altri, non sentiti immediatamente dai consociati, e che imprime agli orientamenti stessi i caratteri della obbiettività, della riconoscibilità, della determinatezza, necessari perché essi assumano la funzione normativa giuridica, nel senso qui sostenuto” (ivi, p. 137); ovvero: “il popolo preso nella sua generalità, se anche elabora una serie di convinzioni giuridiche intorno a rapporti particolari, non può fornire il principio generale di unificazione, che valga a comporre gli interessi contrastanti e ad avviare lo Stato verso una meta determinata” (ivi, p. 138).
Per riassumere le cose, insomma: “Perché la volontà dello Stato non sia intesa come primaria rispetto al diritto, ma giuridica fin dal suo sorgere, sembra non vi sia […] altra via se non inserire nella sfera di esso, considerandola omogenea al suo ordine, la forza sociale organizzata e il fine di cui essa è portatrice” (ivi, p. 76).
Non so, a questo punto, se si trattasse più di un tentativo di spiegazione politica o di uno di spiegazione giuridica; o se non si auspicasse semplicemente un modello da seguire. Ma la sensazione è duplice: (a) che idealmente si volesse tradurre l’immagine di un partito che conquista il potere con qualsiasi mezzo in quella di un partito che invece per una qualche virtù sia legittimato a farlo; e i partiti unici e non solo è questo che fecero nel novecento, dando in certo senso ragione a Mortati. E (b) che il partito nello stesso tempo - venendosi a parlare in relazione ad esso di fonti e norme, di ideologia - fosse meno soggettivo di quanto non si credesse, e già era più la classe sociale ed economica che non il partito.
Comunque sia, il problema restava: quale la fonte prima, il fatto o il diritto? E se è il diritto, come dimostrarlo?
E la perplessità permane, tanto quanto l’altra, sulla idealizzazione dei partiti, e l’altra ancora, sul privilegio della politica - nemmeno quella delle istituzioni in quanto tali - sul sociale e sull’economico, in primis sul mondo del lavoro, sui rapporti sociali di produzione, ecc.
Se è tutt’altro che scontato che i valori politici (non solo partitici) e quelli sociali versino in una condizione di omogeneità, allora al diritto politicamente declinabile non resterebbe che l’efficacia del fatto. E mi domando anche: quanto certa teoria della costituzione potrebbe dirsi distante dalla politologia di un Michels, che dà ragione al capo e al suo chàrisma?
Dunque negli intenti e nelle ansie di Mortati la costituzione materiale non può/deve essere ridotta al fatto; non può riferirsi a una diversità dal diritto (“la positività non è pura condizione di fatto, ma elemento intrinseco del concetto di diritto, senza del quale esso non si differenzierebbe da un ordine puramente ideale” ivi, p. 76), tanto quanto non può fermarsi alla sua origine sociale, pur ardendone sempre la fiammella; e qui può anche ammettersi che si abbia subito un orientamento d’indagine giuridica, istituzionale; una direzione chiara, una volontà, per ciò che si confà a un certo grado di raggiunta modernità.
Ma quando si legge che la costituzione materiale va spiegata nei termini di affermazione del partito politico, a causa del fatto che le idee di questo si traducono in principi giuridici, in norme e in istituzioni - e appunto si nota come il partito attinga al suo essere istituzione -, e che in tutto ciò vi è la sua (stessa, istantanea) giuridicità, ciò significa che non si è mai abbandonato, nonostante le dichiarazioni contrarie, il senso schmittiano delle cose, ovvero il sentimento politico comunque autoritario, se appunto nell’ente che media fra il meramente sociale e il giuridico-costituzionale non è dell’aspetto commerciale o economico che si viene a discutere, né si ha vera interazione e confronto fra il giuridico e il politico come fra due mondi distinti ma non esenti dal reciproco influsso, né tanto meno si profila nulla che sappia per così dire del diritto giusto.
E il risultato alla fine è anche politologia, di un certo tipo, che sembra essersi installata nel diritto, pur essendo il “politico” categoria asseritamente avversa per il nostro giurista. 
A proposito di Schmitt, vorrei ricordare due sue proposizioni: che ogni diritto è diritto applicabile ad una situazione (Situationsrecht: Teologia politica) ovvero un diritto che è tale poiché “non si legittima a partire da una norma che lo preceda e lo fondi” (C. Bocchini); e che ciò che esiste come entità politica è - giuridicamente considerato - meritevole di esistere giuridicamente (Dottrina della costituzione, p. 40).
Con il che non semplicemente si viene a dire che il diritto è autonomo rispetto alla morale, né che esso riproduce aderendovi la realtà, e nemmeno solamente che qualsiasi costituzione scritta può essere riformata; ma si esprime la verità che ogni diritto scritto, e dunque il diritto, per essere la meritevolezza giuridica di ciò che esiste, vale la sua negazione, è in sostanza eguale a sé per esserlo al suo contrario; ché è come se la natura del diritto non fosse giuridica.
Una visione che tanto può privilegiare il giudizio rispetto alla legge, quanto relativizzare e destabilizzare; nichilistica a suo modo rispetto a questo o a quell’ordinamento - per cui molto viene rimesso evidentemente e alla interpretazione e all’uso della forza, o agli eventi.
Ed è qui la radice del problema: sul tema costituzione materiale non può dirsi vi fossero due scuole di pensiero, e non perché per i normativisti la questione non si poneva nemmeno; ma perché essa era la opposizione a qualsiasi normativismo.
Se per Kelsen, secondo il Fioravanti, “non c’era più […] alcuna ‘comunità’, alcun ‘popolo’, dotato in senso materiale della sua ‘costituzione’, e l’unica costituzione possibile era […] quella che gli attori sociali e politici erano capaci di esprimere attraverso il compromesso e la mediazione parlamentare; per Schmitt, al contrario, non solo esisteva la costituzione in senso materiale, ma questa era raffigurabile - per lo meno in certe situazioni storiche come quella tedesca dei primi decenni del novecento - come la ‘vera’ costituzione, da imporre, anche con lo strumento della dittatura [sia pure transitoriamente, secondo la necessità oggettiva espressa nel diritto romano; e l’allusione è appunto allo scritto Die Diktatur], quando quella formale fosse degenerata, perché dominata dalla dinamica distruttiva degli interessi frazionali” (Fioravanti, Le dottrine della costituzione in senso materiale, p. 28).
Concetti chiarissimi, direi: da una parte la evoluzione giuridica nel senso del contrattualismo borghese colto, del parlamentarismo o di qualcosa che ne ereditasse il valore positivo (nel che pure qualcosa si trascura e qualcosa senza volerlo si confessa); dall’altra la spada di Dàmocle, sospesa sulla testa di qualsiasi costituzione formale vigente … e meglio la spada del Volksgeist, per così ribattezzarla, ovvero dello spirito del popolo e del mito siffatto. Nel migliore dei casi di quella dimensione del giuridico che muove mettiamo dal Savigny e dallo storicismo e cioè dal primato del diritto consuetudinario su quello scritto e meglio codificato, o - per dirla - giacobino-napoleonico. Ed è a quel punto che il normativismo solo si sarebbe identificato con le democrazie giuridiche: il bivio e il senso delle scelte era segnato, incisivamente. Che cosa avrebbe potuto significare infatti correggere la teoria schmittiana?

Il tema della costituzione materiale se per i normativisti (per i quali la costituzione è solo formale) non aveva e non può avere alcun interesse, per gli istituzionalisti ha un “interesse giuridico limitato”. Ed è nel giusto chi ritiene che nonostante la rinnovata attualità “sul piano non solo giuridico ma anche politico”, dettata dal bisogno di una “costante valutazione di attualità del modello costituzionale in vigore”, si tratta di una “locuzione priva di un significato proprio, almeno sul piano giuridico” (R. Dieckman, Costituzione materiale o materia costituzionale?). Dunque un contenitore buono per tutti i contenuti, uno scarso tecnicismo: su questo non v’è dubbio.
E sono meritevoli di considerazione proposte come quelle del Barbera, per il quale si tratta di rivalutare le norme positive, in chiave di ordinamento costituzionale, e di guardare nei termini della materia costituzionale alla “combinazione tra norme formalmente costituzionali e ulteriori norme specialmente qualificate nella funzione, quali le disposizioni preliminari al codice civile […], i regolamenti parlamentari, alcune norme internazionali fondamentali importate con il filtro indicato dalla Corte nelle sentenze 348 e 349 del 2007 […] e diverse norme legislative caratterizzanti il sistema, in particolare le leggi elettorali” (Ordinamento costituzionale e carte costituzionali, cit. in Dieckman). O le proposte dei neocostituzionalisti, volte a identificare la materialità costituzionale, in un superamento - giustificato dall’esistenza di norme cosiddette “supercostituzionali” - sia della visione del Mortati, sia delle costituzioni nazionali, con i principi universali e i diritti fondamentali dell’uomo e meglio della persona, fisica e morale.
Il tema della costituzione materiale è stato così ribaltato in quello della materia costituzionale, non ignorato per la verità dallo stesso Mortati all’inizio del suo saggio. Ma tutto questo rischia di modificare troppo i termini della questione; ché non si vuole qui rianimare alcun cadavere e piuttosto s’intendono esaminare le cose storicamente e culturalmente.
Se la dottrina mortatiana può apparire oggi come una forzatura teorica - e qui si può convenire con i normativisti -, ciò si lega al fatto che essa era ancora avvolta nella crisi dello Stato moderno, per quei termini della questione che, rotti gli argini del liberalismo, avrebbero trovato come soluzione “pratica” il fascismo e se non il fascismo la partitocrazia. Un po’ innocentemente, se vogliamo; ma anche un po’ in modo fallimentare.
Forse paradossalmente - aggiungo - non è nemmeno il caso di intraprendere una difesa d’ufficio di Mortati, come ha fatto Zagrebelsky nella prefazione alla edizione del 1988 del libro sulla Costituzione materiale (il cui concetto sarebbe stato elaborato per giustificare non il fascismo ma qualsiasi regime - e qui avviene l’accostamento con la teoria gramsciana della egemonia -; e la quale si allineerebbe ma non corrispondendovi veramente con il realismo giuridico), proprio potendosi parlare di “concezione fascista dello Stato”. È che culturalmente la costruzione del Mortati non riusciva a superare quella di Schmitt, di un diritto scritto, e di un diritto, in questo, che non riesce a liberarsi della sua negazione.
Sì, si sono tracciate le differenze tra i due, mettendo a punto i concetti; ma la cultura è oggettiva, in  modo penetrante, in considerazione del suo corrispondere col movimento reale della storia; e spesso i destini di un autore dipendono dal tema che egli si è dato, prima ancora che dalle soluzioni che ne ha fornito.
Vi sono così ancora domande che attendono risposta, per fare buona chiarezza sulla questione. Ad esempio: perché il fascismo non si diede mai una costituzione formale? E perché questo difetto riguardava un’epoca successiva ma congiunta alle intuizioni romaniane d’inizio novecento e in costanza di un dibattito dottrinale già avviato, teso alla identificazione del primo fondamento costituzionale dello Stato?, cui diedero il loro contributo, per fare qualche nome, i Kelsen, gli Esposito, i Duguit?
Sorge il sospetto, in accordo con quanti ritengano esistente una costituzione materiale, che se il fascismo mai ebbe una sua costituzione formale - e lo statuto albertino con le sue debolezze tecniche se fu come sospeso allora era come non vi fosse -, pure esso, se tanto mi dà tanto, dovette averne in qualche modo una materiale, identificandosi quella formale con le esperienze repubblicane del primo dopoguerra, rispetto alle quali si chiedevano forti correttivi, o una reazione (ed ecco l’immagine della “costituzione in attesa” - nelle locuzioni del Dieckman -, che realiter è “anticostituzione”).
Ma qui la cosa se ammissibile incuriosirebbe molto: come si sarebbe potuto parlare di costituzione materiale in assenza di quella formale? Pure qualcosa di vero c’è, nella singolarità della domanda che ci si è posta, poiché il partito politico era in certo senso una forza costituzionale “a prescindere”, come può indurre a ritenere il Pinna.
E allora si comprende in che senso il tentativo di Mortati avesse in sé un limite costitutivo e si portasse dentro una serie di difficoltà: bisognava poter sganciare la teoria della costituzione materiale dal partito unico (già: ma non ve ne erano già stati più di uno?); non bisognava fondarla sul mero fatto; bisognava distogliere dalla facile tentazione di includere la costituzione materiale tra le fonti del diritto.
La prima però, credo di capire, non la si sarebbe potuta superare neanche assumendo una situazione di pluripartitismo, nel qual caso sarebbe bastata in alternativa la vecchia teoria del patto sociale; la seconda non avrebbe potuto trovare la sua soluzione convincente né nell’affermazione di una giuridicità connaturata col partito e cioè con la politica (il che avrebbe indotto ad ammettere un partito “giuridico”) né nella postulata giuridicità immediata dello Stato. La terza si sarebbe rivelata una tentazione troppo forte, per lo stesso autore.
Difficile dunque uscirne, come suol dirsi, anche per un talentuoso osservatore del diritto; arduo evitare riflessioni poco coerenti, quasi di travestimento e poco persuasive - e sarebbe stato preferibile affermare che doveva ammettersi costituzione materiale semplicemente perché vi era una costituzione formale e nemmeno dire, con Häberle, dopo avere identificato la costituzione materiale con la cultura di un popolo, che “Qualsiasi questione identitaria deve evitare di cadere nella trappola totalizzante” (Costituzione e identità culturale, p. 13) -, essendo in tutto ciò che bisognava combattere e ridimensionare ogni normativismo, o formalismo giuridico. 
La traccia del realismo e del decisionismo, o di certo realismo e decisionismo, dunque sarebbe sempre rimasta; ma questa volta dando luogo a una qualche ipocrisia per così dire o fallacia dell’argomentazione. Nella quale troppo avrebbe preso a ruotare attorno all’elemento comando, già: insito così nel fatto come nella norma giuridica, e attorno alla effettività, ovvero: ciò che vige è, se funziona.
Troppo alla fine sarebbe stato concesso, nell’intento di rifuggire il puro fatto, proprio ai fatti. Troppo, per scavare in una supposta materialità giuridica che non fosse il fatto, sarebbe equivalso logicamente a una Norma Suprema, da ipostatizzare, ovvero postulata prima ancora che chiaramente individuata. In altre parole: qualunque essa fosse (la kelseniana Grundnorm o la mortatiana norma di scopo; ma nel caso di Mortati la norma era imprigionata nella politicità del fatto) e qualunque fosse la via per giungervi, sempre di norma postulata si sarebbe trattato. 
Dunque la questione della “costituzione in senso materiale”, non so quanto per essere stata mal digerita o quanto per sua natura, può essere vista come il tributo dottrinale pagato a suo tempo - ma che continua e potrà continuare ad esserlo, come provato dal fenomeno cosiddetto del berlusconismo - al quid storico al quale si deve certo realismo giuridico, clima nuovo e insofferente del pensiero, sorto nella prima metà del novecento; che tanto fu scandinavo e americano quanto altro se ne sarebbe imposto in altri paesi, in primis nella Germania; o laddove la psicologia elementare riuscisse se non a travolgerla, a insinuarsi nel corpo della scienza giuridica.
Il realismo del pensiero continentale, nel suo essere profondamente populista quando non romantico, s’inseriva come detto nella crisi dello Stato moderno: squilibri e inadeguatezze sofferti da una struttura formale, “destatualizzazione” del diritto con le sue fonti e della politica; o se si preferisce: crisi del modello liberale del Rechtsstaat, legata - per non avere il diritto pubblico riconosciuto “gli aggruppamenti degli individui” ed essersi estraniato dallo sviluppo autonomo del sociale (Santi Romano) - all’ingresso del popolo, assai in forme associative e rivendicative ma non solo, nella vita pubblica, e dunque al bisogno conseguente, politico prima di tutto, di reagire in qualche modo, di governare le masse. Crisi tale da destare il concetto problematico di forma di Stato, ovvero della nascita dello Stato, o dello Stato-ordinamento; ma come se esso fosse sempre lo stesso, senza indagini storiche approfondite.
Tutti fatti nuovi, legati a una certa fase del capitalismo (che già evidentemente nel primo novecento era ben altro rispetto a quello del 1848) ma non riducibili sic et simpliciter ai suoi due protagonisti più nominati e cioè lavoratori e imprenditori.
Crisi - o se si preferisce debolezza di un dover-essere - della quale Santi Romano dava atto scrivendo della instaurazione di un ordinamento giuridico; rispetto alla quale può addirittura apparire consolatoria la nozione di Stato-amministrazione, o Stato amministrativo, se in ballo vi è il concetto di forma di Stato, laddove ciò che sembra andare perduto è la connotazione esagerata ma credo rispondente di Stato-Spirito, che Hegel da par suo aveva voluto fissare nell’ordinamento giuridico moderno. Che non era necessariamente lo Stato “etico”, come è stato dimostrato, e che invece in qualche modo lo stesso Romano richiamava nella sua diagnosi, parlando di un carattere astratto dello Stato che lo pone al di sopra delle parti tanto quanto dell’empiria.
Crisi dunque che sembrava attanagliare lo Stato-Spirito, a fronte delle condizioni materiali di vita e meglio di una società che cresceva come suole dirsi oggi in complessità, con l’exploit di ogni tipo di materialismo; che se non so quanto esattamente si sia riproposta da noi a distanza di un secolo, probabilmente ne ha ripresentati certi termini rimettendo in ballo la stessa questione costituzionale: perché quel genere di fatti d’inizio novecento da una parte avrebbe indotto sviluppi normativi in senso social-democratico (prima che liberale), parlamentaristico e costituzionale, dall’altra avrebbe fatto emergere come nuove formazioni necessarie i moderni partiti politici e i sindacati, dall’altra ancora - e qui sarebbero risultati importanti altri due protagonisti del capitalismo occidentale, raramente apprezzati - avrebbe indotto la reazione in generale delle oligarchie economiche (formate e/o in formazione) e degli assetti neocorporativi e lobbies. I quali un secolo fa trovarono in uno Stato ferito, affetto da crisi antropologica interna, il loro humus e la loro copertura d’ombra; lo avrebbero diviso (era appunto la realtà dei due stati in uno, cui si accennava) insinuandosi nel suo indebolimento e facendo del “pubblico” dell’ingenuo diritto pubblico terra di conquista.
Ma se da una parte si ravvisa l’attitudine del potere e privilegio economici a formarsi e riformarsi lottando contro il diritto oggettivo progressivo e statualizzandosi, sottraendo spiritualità allo Stato sino alla instaurazione di regimi cosiddetti “forti”, dall’altra non ci si può nascondere che vi è una debolezza intrinseca a qualsiasi forma tecnico-giuridica che pretenda una sua efficacia universale o quanto meno s’identifichi con lo Stato. E il postmodernismo filosofico e giuridico questo aspetto della questione lo hanno fatto pesare, coniando fra le altre la parola “indecidibilità”, che riassume bene, ma soprattutto nel porne il problema, il senso delle cose.
La sensazione generale è che il diritto sia stato anche un po’ tutto questo; che ne abbia sofferto; il che insegna che esso non è mai quella certezza di cui si parla. La costituzione materiale, con il suo appello alla concretezza, alla essenzialità e al sociale, sembra peraltro essere rimasta lì, come una fonte-minaccia - per quanto alcuni interpreti a noi prossimi abbiano tentato di rimetterla per così dire giuridicamente in carreggiata, sino a identificarla nei principi e diritti fondamentali -, a insidiare ogni progresso di giustizia, facendo leva così sulla non soluzione della sua stessa questione come sulla regressione, di cui Freud parlava nella famosa lettera ad Einstein, sul “perché la guerra”.  

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