domenica 17 febbraio 2013

Gli eredi di Pietro (quaestiones circa Romanos Pontifices)




Che cosa è più "rivoluzionario"? La morte inattesa, prematura - e cioè non convincente - di un papa o, in alternativa inquietante, le sue altrettanto inattese dimissioni (un rimettere gli effetti alle cause) dalla carica? E anche: si tratta di gesti di forza, o di debolezza? 
Certo il ministerium Petri è assai impegnativo; ma - mi domando - non lo è troppo, a rigor di logica, e il peso non si fa insostenibile (e nemmeno quel Dio che ti costringe amorevolmente ad accettare ti può dare la forza), allorquando ci si debba inchinare ai compromessi, non volendolo più fare? Oppure quando il bene e il sentimento religioso si senta che sono altrove, rispetto alla loro sede istituzionale, o che sono fuggiti via? O quando ci si senta vanificati in ogni volontà di miglioramento? 
In generale, il carattere rivoluzionario di un gesto è direttamente proporzionale alla importanza della carica che si ricopre. Ma è veramente quello del papa tedesco, amico di Habermas, un gesto rivoluzionario? O non piuttosto la pubblica opinione dice “rivoluzione” per dire “sensazionalità”? Ché si tratta di un atto che suscita clamore e toglie qualche ragnatela dai muri, distraendo se non altro da uno stato d’ipnosi e da tanta pigrizia mentale, nella interpretazione della cattolicità
Papa Benedetto XVI
Certo che il sacrificio dell’uomo più importante e rappresentativo di un ordinamento “sacro” quale la Chiesa è può valere la indizione di un Concilio ecumenico e cioè una riscrittura generale delle regole, una Riforma, nella concordia universale. Ma al confronto, una rivoluzione per così dire dall’alto, quali quella di Cromwell o di Napoleone, è altra cosa: qui ci si limita a far valere l’esempio, a meno che non si voglia indagare e trar fuori documenti segreti dalle stanze del Vaticano. 
Tanto papa Luciani nel settembre del 1978 si sarebbe offerto quale agnello sacrificale per il bene della Chiesa, quanto lo avrebbe fatto Benedetto XIV qualche giorno fa. Pro bono ecclesiae, dunque: una motivazione che vale ma che non v’è bisogno che si ripeta per apparire quale essa è, e cioè semplicemente una formula elegante. 
Comunque sia, se la morte di un papa, sospettandosi il suicidio, si può anche psicanalizzare, come fece a suo tempo Musatti riguardo a papa Luciani, perché non farlo quando si tratti di dimissioni? Perché l’evento non è parimenti traumatico, perché il sacrificio non è totale e non v’è stata una vera completa imitatio Christi? 
Ma dove non giunge la psicoanalisi giunge forse lo scavo storico, in un passato che per la Chiesa Romana è rigorosamente medievale; poiché medievale, credo - e in questo carica di mistero e di suggestione -, è un po’ la sua stessa anima. Il che significa che quando non si parla di san Giovanni della Croce si parlerà di Celestino V. 
Solo una minima parte e non la migliore delle azioni umane confluisce nella storia, a meno che non si documenti la vita quotidiana e allora si ha il racconto, la cronaca, certo con qualche guadagno per la conoscenza. Presumibilmente così Benedetto XVI resterà nella memoria storica prima come il papa dimissionario, poi come l’autore di questa o quella enciclica, poi come uomo colto quale egli è. 
Ovviamente, che il papa si dimetta è un segnale - o almeno come tale è percepibile - più allarmante che non, almeno a causa dei tempi, che sono intessuti di catastrofismo, d'inquietudini, delitti, crolli del principio di realtà. O quanto meno, è sempre nei tempi che si cerca. 
Che poi il vicario di Cristo si dimetta in un contesto in cui la sua terra di elezione - l’amata Italia, di cui egli è monarca e padre (il neoguelfismo ottocentesco a qualcosa di vero pure alludeva) - si scopra ogni giorno più corrotta, criminale e irresponsabile, e non solo nelle persone che “contano”, è una concomitanza su cui non è propriamente difficile esprimere un giudizio. 
Forse allora è l’Italia a condizionare la Chiesa e non già il contrario. Il che non si direbbe, giudicando il papa un monarca spirituale; ma ciò non sarebbe per la prima volta, poiché la Chiesa di Pio IX quando perse il potere temporale e prese corpo la Questione Romana, dové seguire le sorti del regno d’Italia. Già: e quanto le ragioni temporali peseranno sempre nella politica della Chiesa? Quale la sua spiritualità, in assenza di beni immobili e di movimenti finanziari? E anche in presenza di una immoralità dilagante?  
Papa Celestino V
Fu poi così “vile” il dantesco Celestino V, quando fece capire chiaramente che era preferibile l’eremitaggio o il ritiro a vita privata a una carica istituzionale sì di grande prestigio ma che dovesse essere mantenuta in modo machiavellico e cioè ad ogni costo? E per quale motivo un papa farebbe il “gran rifiuto”, certo  consigliato dall’età, se non perché il grado d’immoralità ha battuto il principio della carica istituzionale come male necessario e cioè strumento del bene? Quanto è intelligente personalizzare un atto clamoroso che non so quanto nel 1294 lo fosse più di oggi? E che dire - ora che ci penso meglio - dell'uomo di Quo vadis? Ovvero del famoso "prima che il gallo canti"?, ché in quel caso, almeno stando alla tradizione - pure nessun papa deve chiamarsi Pietro, in segno di rispetto -, si trattò di paura e di tradimento? 
Ed è vero parimenti che l’immagine di un popolo corrotto, che scopre ogni giorno l’indole criminale della sua economia, che tanto ne legge la denuncia quotidiana e ne fa motivo di scandalo quanto non rinuncia al suo particulare, si sposa bene con quella di una Chiesa Romana che non può fare mistero del fatto che in essa dilaghi la immoralità, finanziaria e sessuale. E questo non da oggi - se pensiamo allo Ior, alla pedofilia, ai legami inquietanti con la “banda della Magliana”, o al riciclaggio -, ché si tratta piuttosto di una caduta di veli, di una nudità sopravvenuta (per me in un certo quale buio) e di una guerra di tutti contro tutti, che uno stanco linguaggio di circostanza sublima con la parola “divisione”. 
Lacerazione di veli, allora? Erano stati gl’illuministi (i Voltaire e i Diderot), prima della grande rivoluzione francese, a raccontare smascherandola la politica dei vescovi e ciò che accadeva all’interno dei monasteri, rappresentando peraltro forme di giornalismo d’inchiesta. Ma queste cose sono aliene a un popolo come il nostro che mediamente si batte il petto in Chiesa, che vuole essere inintelligente, che spesso non sa ragionare o che mette la testa sotto la sabbia. 
Il riassunto - se vogliamo - è un po’ nella psicologia ancor prima che nel sacramento della confessione, laddove questa in realtà non valga a cancellare la macchia e piuttosto possa nasconderla, e quel ch’è peggio a giustificare nei fatti ciò che si dovrebbe bandire dal comportamento. 
Che dunque si profili - lo scrivevo tre anni or sono - la necessità di un nuovo Concilio; risultando la possibilità di una Riforma cattolica esercizio ideale per pochi? E che a indirlo sia il futuro erede di Pietro? O tutto questo alla fine non accadrà, poiché il papa si è dimesso? O sarà il nuovo pontefice a dover valere quanto un Concilio? 

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