domenica 10 marzo 2013

Il discorso “democratico”



Dopo i totalitarismi del secolo passato è come se l’umanità occidentale si fosse calata in una nuova condizione, tale per cui la democrazia sarebbe divenuta la necessaria naturale estensione di sé stessa: forse la premessa per un rilancio della dottrina della libertà, neoliberale e non; o forse anche qualcosa di più ampio e strutturale. Essa da allora sarebbe entrata insomma, secondo certa scuola di pensiero (cfr. da ultimo Vuoti e scarti di democrazia, Napoli 2012), nel cosiddetto discorso democratico - per un forte senso politico del pudore, a quanto mi è dato comprendere; ma anche immergendosi ipocritamente in una illusione, sostanzialmente costrittiva (è «in qualche modo proibito non essere democratici»: Gentile, ivi, p. 255) -. E il procedimento (un po' di acquisizione ... religiosa) si sarebbe perfezionato con la caduta del muro di Berlino. Tutto ciò forse a dimostrazione del fatto che ciò che è in atto nega il suo valore di contrario? Insomma io direi anche: perché non possiamo non dirci democratici... 
La nuova condizione di cui si parla - che è direi meno della «sfera pubblica borghese» di Habermas - è retta in primo luogo, secondo gl’interpreti, da un “enunciato base” - e meglio forse un assioma - secondo cui «politica e democrazia si equivalgono» (Calzolari: ivi, p. 69); ovvero per una inautentica filosofia del minimo assicurato: «l'unica vera politica è quella attuale, una volta garantiti parlamentarismo e mercati» (ibidem). Ma direi anche: democratizzare la democrazia, ovvero «il costo da pagare [per l'unica alternativa alla "barbarie liberticida", alla "tirannide" e all'"anarchia"] non è mai troppo alto» (Simonetti, ivi, p. 243); dove si può leggere una grande fonte di legittimazione, dove essere e dover-essere sono tenuti insieme dalle promesse, dalle intenzioni ma sottilmente dalle stesse azioni concrete se comunque giustificabili; e molto dalla psicoanalisi. E i governi sembrano dire al mondo: io che debbo cercare di esserlo, democratico, posso farlo solo se tu mi accordi la buona fede, o mi dici che è tutto vero.
Ogni discorso politico è/dev’essere democratico - io mi dico, provandomi a capire - dal momento che si è liberi di farlo non essendo la libertà un valore assoluto; dal momento che vi sono idee e giudizi troppo condivisi per pensare che vi sia stato bisogno del forte dubbio, della critica e di conflitti per farli accettare; dal momento che certe idee, che una volta non lo sarebbero state, oggi si possono spacciare per democratiche; dal momento che il “comunista” o “postcomunista” accetta qualsiasi revisionismo pur di umanizzare o ringiovanire la sua immagine.
Laddove sul piano del linguaggio il termine “democrazia” sembra aver preso il posto del termine “capitalismo”, che è stato rimosso (Calzolari, ivi, p. 69); che per molti non è il suo contrario; laddove il “discorso” si offre come un contenitore e viene a sostituire un (o il) “mondo mancante” (ivi, p. 74). Dandosi appunto per presupposto qualcosa che si dovrebbe invece dimostrare.
Inoltre il discorso democratico deve produrre il suo contrario e così secerne il mito del nemico. Ciò di cui si è detto può avere luogo perché si è ritagliato uno spazio di esclusione per gli “antidemocratici” (anarchici, razzisti, nazisti, comunisti, terroristi, violenti; in una parola il Male), che debbono essere condannati, tenuti fuori, lasciati liberi sì ma di aggirarsi fuori delle mura come fantasmi. Insomma i dati sono quelli di un avvicendamento storico, ed è tutto qui forse il reale progresso; laddove lotte cruente e sacrifici si sono tradotte in presupposto tacito, qualcosa di già bell’e fatto; un brand, rassicurante: io so la marca e questo mi basta (cfr. Simonetti, cit.).
Slavoj Žižek 
Che dire, a questo punto? Innanzi tutto che vivere una intera vita senza idee “chiare e distinte” è più che possibile ed è parte dei meccanismi umani dell’adesione, o delle mode, o delle fiabe, ché il padrone in fondo è buono; in secondo luogo che il passaggio storico di cui si parla qualcosa di reale deve pure averlo in sé: è in atto da tempo qualcosa cui il discorso democratico si presta come velo, o anche con cui detto discorso è in carattere.
Se poi pensiamo che tutto è stato possibile nella fluidità di una fase storica postindustriale o tardo- o addirittura post-capitalistica, nel «libero scorrere delle dinamiche degli interessi» (Arienzo, ivi, pp. 98  e s.) e nell’epoca della forma di Stato mutante (Calzolari, ivi, p. 77), allora è comprensibile che la parola “democrazia” tanto poggi su pregiudizi colossali che sono inibizioni, immagini, rappresentazioni, stili di vita - per lo più estetizzanti e dunque incontrollati -, consuetudini e mode, quanto sia un significante vuoto (Sl. Žižek), essendosi essa «slacciata dai suoi processi reali» (Simonetti, ivi, p. 248). Laddove all’atto pratico e cioè nella storia dei governi, “significante vuoto” significa che una vecchia democrazia che ceda terreno e margini di libertà e diritti quesiti e/o umani in cambio di misure autoritarie per la necessaria governabilità e sicurezza (questione della gouvernementalité: Foucault; o questione del conflitto perenne fra governo e costituzione; o della governance, direzione economica della politica che si traduce in politica, non più amica dello Stato sovrano e di diritto, ridotto a guardiano dei conflitti), o dovendosi essa genericamente parlando adeguare a tempi e necessità, la si dovrà pur sempre dire "democrazia". E intuitivamente questo gioco potrebbe durare in eterno se non affiorasse chiara la coscienza che «nos régimes abusent du label démocratie» (R. Magni Berton, ivi, p. 190), se non fosse che le incrinature sono evidenti o quanto meno si assommano, che i demitizzatori sembrano tutt'altro che in via di estinzione e che le promesse non mantenute stancano. Trapela infatti, dandosi per presupposto qualcosa che si dovrebbe invece dimostrare, quanto il discorso democratico sia un discorso dei governi e della politica, identificato per lo più nel neo-liberalismo. E anche qualcosa di più di una promessa non mantenuta, se si baratta - sentendosi difficilmente perseguibili - il diritto al lavoro con quello alla salute. Ed è chiaro qui come l’ideologia vacilli paurosamente, proprio rispetto al suo stesso tenore assiomatico. 
Vi è una nozione famosa, che fa anche qui all’uopo e che aiuta un po' a capire ed è quella di egemonia, espressa da Gramsci nei Quaderni dal carcere; ovvero: dominio culturale, intellettuale e morale ottenuto da una classe o da un gruppo che «sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo». 
Definizione che va ricollegata al pensiero marxiano sulla ideologia e che appare dotata di un forte senso di attualità; che certo necessita d’integrazioni ma che serve a chiarire qualcosa che resterebbe oscuro se si continuasse a spiegare la nozione di discorso democratico in un modo positivistico, sociologico, spacciando per leggi e verità qualcosa che è un risultato culturale storico e politico. Le parole insomma non bastano, l’osservazione va sempre approfondita e si chiedono concetti. 
Che dire allora, considerando società, economie e tecnologie? 
Antonio Gramsci
Antonio Gramsci
Con riferimento al nostro tema, per quanto è dato leggere sull’argomento, una certezza minima sembra emergere; ed è che nel discorso democratico il discorso è il contenuto stesso della democrazia: esso non solo indica un’area e una sua mobilità ma anche e soprattutto una prassi. Ed è un dato che tanto ha solidità quanto di essa solidità ha un disperato bisogno. 
Ciò che una prassi richiede per affermarsi è di essere ritualizzata, alimentata, rinnovata. Dunque bisogna vitalizzare sempre il discorso democratico, come discorso di dominio e governo, o governance; propagarlo, ricorrendo a ogni strumento; bisogna anche che si abbia continuamente un discorso che non vada dentro le cose ma sia distratto, per tenere in piedi pregiudizi morali di grandi dimensioni. E nell’èra della info-comunicazione i conti si fanno presto. L’informazione è potere ma lo è di più anche nella sua potenzialità ingannevole se è rete, Web, se è scambio e transito, se è circolazione, pubblicità; e dove il positivismo della parola, della proposizione e della scrittura -: quello anche à la Derrida (sì abbiamo una democrazia di cui non ci può essere che traccia; ma che cosa significa questo, sino in fondo?) per intenderci ma non solo - sembra essersi realizzato nel modo migliore, dove cioè la rete è divenuta istituzione potente e persuasiva, è internet e sono i social network. E sono naturalmente io come cittadino utilizzatore, o come unità produttiva di riferimento. 
Una opportunità tendente all’infinito, per un mondo che non può essere chiuso - e lo dimostra la parabola critica del miglior idealismo - in un libro che si sfogli e si richiuda, o in un giornale in cui la realtà è ferma, o nella stessa tele-visione; opportunità ligia a una tendenza istintiva a globalizzare; che ha potuto congelare una propensione che è quella di chiudersi nel discorso democratico, o ammantarvisi.
Una nuova costitutività, tale per cui la democrazia praticata che si risolve nel fatto stesso di esserlo, può aprire spazi nuovi di possibilità; ma per lo più uguali a sé stessi.
Internet è uno strumento superinformativo e descrive spazi di libertà, senza dubbio; ma è un medium che consente di fare come se tutti fossero uguali o che il potente che abbia privilegi semplicemente tuteli la propria privacy. Cose che non sono tali veramente, per cui è il “come se” il fondamento.
Qualcuno giustamente obietta: non è che tutti siamo uguali ma siamo equivalenti, altrimenti non si avrebbe dominio. Ma l’equivalenza ha i suoi risvolti, e la prassi e l’uso sono tutto o quasi e con il loro successo possono ridicolizzare il pensiero critico, o non organico.
Internet se non te lo dice allora te lo fa capire “democraticamente”: chi è dentro è e chi è fuori non esiste. Rifkin notava a proposito di questo nuovo vitalismo di rete: «non essere connessi è la morte» (L'era dell'accesso) e la cosa si avvicina sul piano dei valori al “discorso democratico”, anzi sembra farsene carico. Come dire?: stare dentro è la forma attuale del Bene; fuori vi è il regno del Male.
Di internet si parla appunto come di democrazia digitale. Forse perché in internet il discorso è democratico per sé, dal momento che esso è possibile (e si dovrebbe dire meglio: fruibile, godibile, ecc.), laddove la democrazia come discorso è potenziale tecnico effettivamente esercitato prima che altro, che abbia altra consistenza. Laddove la possibilità come forza e segreto della tecnica comunicativa sembra una linea retta, volta in una sola direzione, mentre invece si sa che la possibilità include in sé anche il suo contrario. 
Internet è sfogo, è navigazione ed è democrazia, perché praticata. I risultati futuri certo sfuggono; ma quello che si agisce oggi basta. E l’adesione morale, non pensata, a qualcosa che è mondo parallelo, compensativo, funzionale è assai grande. La cosa ricorda un po’ il proletariato di Sartre che si riunisce condividendola moralmente attorno a un’idea che però non sa.
L’importante dunque per il pregiudizio morale è l’attualismo del discorso politico ma anche non; alimentarsi della informazione è già democrazia: è come premiato un istinto fallace… dalle forti venature social-popolari. Sono tutti segni di una ingovernabilità del reale: la politica non ce la fa, lo Stato non si sa che cosa sia e allora ci ricordiamo degli antichi padri, con le loro filosofie politiche disilluse, essenziali, che la modernità aveva messi da parte, ritenendoli antiquati, quasi con irritazione. E lo facciamo con senso di colpa; o forse un po’ come pentiti.


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