domenica 19 maggio 2013

La morte del libro


(riferimenti tratti dall'e-book Crepuscolo dell'uomo di Gutenberg) 


Ne La galassia Gutenberg, riallacciandosi al pensiero del matematico Whittaker, McLuhan sottolineava il legame fra uno spazio “contenitore neutro”, gassendiano quanto euclideo, o uno spazio anche newtoniano, che in sé stesso continuava ad essere “niente più di una non entità, senza alcuna proprietà eccetto la capacità di essere occupato”, e la scrittura fonetica, legata soprattutto alla stampa ed alla tipografia, con la sua “finzione di omogeneità e di uniforme continuità”. 
Marshall McLuhan
Quello spazio “vuoto” perché puramente fisico, secondo McLuhan, non avrebbe turbato la cultura della stampa, laddove questa aveva separato “la sua consapevolezza visiva dagli altri sensi”. Ed anzi vi avrebbe trovato una garanzia di perpetuazione, una complicità, con la sua “divisione in settori della conoscenza”, laddove la scienza fosse priva d’influenze “sull’occhio e sul pensiero”. 
Le cose in séguito sarebbero cambiate, secondo il padre della mediologia, allorquando con Einstein quello spazio contenitore neutro e perfettamente uniforme, da “teatro del dramma della fisica” si sarebbe tradotto in attore di quel dramma. Ovvero allorquando, col riconoscimento dello spazio curvo, nel 1905, per la crisi di un certo mondo gravitazionale sancita dalle teorie della relatività, la “galassia Gutenberg” sarebbe stata “ufficialmente dissolta”. 
In anni successivi, dopo quell’annuncio ma seguendo percorsi di pensiero diversi, il poststrutturalismo  francese avrebbe proclamato la “morte del libro” definendola fra l’altro come la fine del primato degli alfabeti fonetici, della parola “se-dicente”. 

“Morte del libro” significa che si sono installate le condizioni e dunque la possibilità che non si stampino più libri, come prodotto in carta, come corpo e come corpi. Nel senso - anche - che ora essi possono essere - e ciò continua ad avvenire - stampati, venduti e letti. Ma allo stesso tempo che qualcosa è accaduto alla scrittura, come libertà, oltre certo però che anche come gravitas, per cui alla stampa non sarà più concessa la condizione di idea univoca. E la scrittura sarà se non più libera più immediata, laddove fra i due concetti dovrà esservi sempre una distanza. 


Volendo toccare le radici del problema, si possono individuare due-tre proposizioni, nella Grammatologie di Derrida, che personalmente considero assai incisive e fra di esse complementari, ovvero il cui legame è tale per cui se è valida l’una allora sarà valida anche l’altra, e cioè: (1) la scrittura non nasce perché lineare ma immerge le sue radici in un passato “non-lineare” (perché la linearità non è pensabile se non rispetto ad una non-linearità ed anche perché la scrittura non è, ma è sempre qualcosa, è cioè sempre in relazione ad altro che non sia scrittura); (2) la “fine della scrittura lineare è esattamente la fine del libro”; e anche: (3) tutto ha un effetto finale di lettura.
Dunque l’attenzione cade in primo luogo sulla scrittura, secondo i suggerimenti del filosofo francese. E bisogna domandarsi credo che cosa significhino e quanto valgano la materialità, il tipo di traccia, la continuità della scrittura e del logos in quanto scrittura; il logos che si materializza in oggetti che si possono toccare, spostare, bruciare; che hanno un volume, che occupano uno spazio e che sono in questo oggetti del piacere.
La scrittura è tecnologia, lo è la stampa e lo è la scrittura elettronica; la terza subentra alla seconda allorquando mostra di essere tecnologia superiore, sussumente in sé l’altra. Tecnologia superiore (e sussumente in sé) significa che si possono ripetere gli stessi gesti ed azioni finalizzate allo scopo usando strumenti diversi, più facili, o piacevoli, o pratici.
La superiorità nel nostro caso è data così dalla possibile liberazione dalla carta e dalla continuità della scrittura che ad essa è connaturata, ovvero dal fatto che la frammentazione rispetto al linguaggio divenga condizione naturale cessando di essere eccezione o incidente. Laddove continuità e materialità corrispondendo alla sensibilità sono la stessa cosa.
Che la tecnologia sia cambiata significa che è cambiato il mondo che la circonda, che con essa si integra o che è ad essa omogeneo. Che insomma sono cambiati gli strumenti, in generale e in ciò la verità; che se il libro rappresentava un mondo, la scrittura elettronica ne rappresenta un altro. Nel quale non so dire quanto la scrittura sia essenziale, ammesso che essa lo sia stata nel passato.
Ma gli strumenti sono tutto e maggiore è il loro numero più le vecchie tecnologie diventano parziali, eventuali, anche irrilevanti.
Che cosa è un mondo, mettiamo, nel quale un brano di poesia è un nastro magnetico che noi cercavamo, o che troviamo senza averlo cercato, o comunque potrebbe essere che quel nastro che abbiamo trovato non sia il brano di poesia che cercavamo; ma per noi va egualmente bene, in un clima di “libertà”?

Autori come James Tarling insistono sulla scrittura, che agognava una sua liberazione; ma tale è la trasformazione per cui la scrittura per liberarsi avrebbe dovuto perdere la sua vecchia materialità i suoi legami che sembravano naturali e la sua vecchia continuità; e anche essa avrebbe dovuto saper individuare nuove fonti del piacere, riposizionare il gioco della mano, degli occhi, dell’olfatto.
La scrittura per liberarsi avrebbe insomma dovuto essere e non eguale a sé stessa: divenendo scrittura elettronica, digital writing. Pure ci si ostina a parlare di scrittura, nonostante la discontinuità, quasi a indicare un atto indipendente dal suo oggetto; e lo stesso si può dire della lettura. Come lo scrivibile è tutto, così tutto è leggibile.
E tutto quanto è potuto accadere in questo modo e in questi termini è accaduto perché tutto, sull’esempio di McLuhan, ha rivelato la sua natura tecnica. Tutto è tecnica, in altre parole, ad iniziare da quanto si teneva lontano o estraneo alla tecnica. In certo senso la scienza degli strumenti ha preso il sopravvento sulla scienza dei fini.
Se così si può ammettere che l’elettronica quale nuova Galassia ha liberato la scrittura non è perché la scrittura, più vicina all’anima, è un che di interiore ma perché essa è tecnica, ovvero esternazione e in qualche modo deriva. “All Writing is Technology, sosteneva Tarling alcuni anni fa. 
Ovvero, per tradurre: tutta la scrittura, ogni scrittura, è tecnologia. Il che significa, sostanzialmente: la scrittura si confonde con la sua stessa tecnologia, tecnica di; ovvero la tecnologia supera la stampa, che è pur sempre una tecnica non particolarmente evoluta, nel rapporto con la scrittura; la tecnologia prende il posto del libro non perché essa lo ripete ma perché entra nella scrittura come tecnica più di quanto non avesse fatto la stampa a caratteri mobili. Risorge la scrittura forzando le cose anche se vi è in queste spiegazioni qualcosa d'irrisolto. 

Era da tempo però che “letteratura”, per far parte di modi di comunicare se non nuovi ammissibili, fosse un foglietto, un volantino, un frammento, una insegna luminosa, un messaggio postale, a causa di una frammentazione generalizzata del linguaggio come continuum (il “frammento” teorizzato da Derrida, o la “lessia” di cui parla Barthes) laddove il frammento veniva acquisendo un’autonomia di senso. Esso infatti, negli asserti del decostruzionismo, “non è uno stile o uno scacco determinato, è la forma dello scritto” (DerridaEdmond Jabès e la interrogazione del libro)
Jacques Derrida
Morte del libro è frammentazione ma è anche ad esempio che una scrittura viene mandata in onda, come immagine di una scrittura ancora prima che come scrittura, o che viene confezionata e spedita, per essere istantaneamente vista a centinaia di chilometri di distanza; o che se la si ha di fronte si ha a che fare con una spettacolarità o una immagine diversa da una pagina stampata, spettacolarità anche qui da una parte decostruttiva dall’altra liberatoria. E anche: che le immagini digitali completino il senso di un brano di electronic writing significa che esse sono un po’ la stessa cosa.
E ancora: si ha morte del libro laddove è la macchina - non l’uomo, non la scimmia ma pur sempre la macchina delle forti efficaci similitudini - alla fine che poiché sa calcolare sa anche scrivere e leggere, sapendo in certo senso ciò che deve fare; e laddove si tenta di esteriorizzare tutto, di spettacolarizzare tutto: un fatto al pari di un stato d’animo, o di un concetto, di una idea; per cui la cultura è spettacolo e lo spettacolo è cultura.
Morte del libro significa ancora che leggere è acquisire uno sguardo, un colpo d’occhio, una immagine, ovverosia è un vedere, compravendibile, che può cadere su una scena televisiva come su una proposizione o un brano. E che in generale vi è una “letteratura” che non è più tale per essere più vasta della stampa, che non può essere più “quella” letteratura, come ha insegnato Nelson ma molto un mondo di memorie elettronicamente possibile. Una rete universale, riconfigurazione universale, “universale griglia di testo” (efficace locuzione nelsoniana), in cui ogni cosa in ogni momento viene tradotta come “il mondo”. Ciò che è eterno e istantaneo allo stesso tempo.
Laddove la memoria è tale, lungi dall’essere libro, ovvero la memoria, anima catturata e meccanizzata, conta moltissimo. Un po’, mutatis mutandis, quanto contava presso gli antichi pitagorici e le dottrine della metempsicosi.
In un siffatto nuovo mondo sensibile si accentua certa quale oggettività, per cui accade che l’Inferno dantesco, reso su compact-disc, può non entrare nella interiorità di chi legge e resta piuttosto lì dov’è, imprigionato in una sensibilità distante; come si trattasse di un’apparizione, o di un’astratta curiosità, o di un flash. Oppure di una porta che si apre, a comando.
E tutto questo non sarebbe possibile, se il cambiamento non lo fosse di una tecnologia della sensibilità e della intelligenza, che può essere valutata in termini di efficacia, per cui l’effetto più forte scaccia il più debole, e lo trascende. Se non fosse che l’uomo tecnico è la sua stessa tecnica.

Il poststrutturalismo proclama la morte del libro perché vuole liberare l’uomo dal testo stampato, con la sua autorità o con la sua efficacia ipnotica, a favore della scrittura. E lo fa concordemente con i progressi della “testualità digitale”, per cui (come avviene nella teoria della “derelictio” della parola scritta) ciò che questa storicamente oggi riesce a provare vale non solo per il presente e il futuro della scrittura ma anche per il suo passato.
Il testo, il text, della “testualità digitale” è scrittura immateriale, smaterializzata nella traccia (la traccia “inerziale” dell’inchiostro); è un testo a sé stante, estremamente lieve, manipolabile, fortemente nutrito di tecnologia spettacolare; è l’occhio dell’industria, per il quale la scrittura nasce già in qualche modo trasposta, remota e meglio ancora: avvolta in una eco di sé.
Chi scrive, in siffatta cultura, fa un’azione equivalente, ovvero scrive e non; la sua sembra scrittura “libera”, “naturale”; ma nel senso che chiunque è posto nella condizione di scrivere, qualsiasi cosa perché qualsiasi messaggio, qualsiasi post; laddove il gesto è materiale, meccanico, anche servile; e anche al selvaggio, poiché la tecnologia vuole ospitare la natura, è dato scrivere, il selvaggio che non necessariamente è “il selvaggio”, predeterminato, che noi ci immaginavamo; ma si può annidare - e così avviene - nell’uomo civile.
Chi scrive, così, è lo “scrivente”, avvolto nell’attuale, colto nella sua stessa azione e nel suo tempo di scrittura, ed è comunque, perché scrivente, utente, destinatario; è chiunque possa in qualsiasi momento rivestire questo ruolo; vedendosi mentre scrive per ciò che ora egli sta scrivendo, allo stesso modo in cui può udirsi mentre parla al telefono.

La morte del libro è la fine del senso “autentico”, del significato (o verità) “trascendentale”, ovvero che era già lì, era già deciso; e meglio era il frutto, da cogliere, di una forma di pensiero lineare.
Ma - ci si può domandare a questo punto - morte di che cosa del libro, potendo ammettere che con l’èra elettrica-ed-elettronica si ha non semplicemente la crisi di un’epoca ma la crisi di più epoche in una? Ovvero dopo aver cercato di cogliere nel fatto storico una caratteristica forte e singolare? Ovvero ancora: che cosa con la morte di più epoche tecniche di scrittura e di modi corrispondenti di lettura, entra in uno stato critico?
Ciò che emerge in tal senso è che la morte investe innanzi tutto l’alfabeto fonetico: suono, significazione, vista, per ciò che è causato sottilmente da quel loro determinato legame, secondo la diagnosi del decostruzionismo; ma questo nella scrittura, nel por mano alle cose tanto quanto nella lettura. Ovvero la crisi investe ciò che - alla fine con la stampa, in ogni sua possibilità - è stato per così dire “ri-mediatizzato”, modificato strumentalmente, con riguardo alla sensibilità; quel grado di radicalità e segreta efficacia che solo l’alfabeto fonetico può dare, nel suo installare quel determinato rapporto - unico - con la “realtà”. Nel suo poter abbracciare, perché nuovamente mediatizzato, ogni discorso.

1 commento:

  1. Derrida somiglia tanto al mio amico Pino e per questo gli voglio bene...

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