domenica 26 maggio 2013

Lo Stato dei partiti (Schmitt: una rilettura, oltre le soluzioni autoritarie)



Il guscio d’uovo dello Stato si è rotto e la società, messa la parola fine al dualismo della differenza  Stato-società - ma alludo alla società pluralista e disomogenea - è potuta entrare nello Stato. È da tempo - se vogliamo - che avviene quella «invasione della costruzione statale da parte delle lotte sociali tra interessi» segnalata da Gneist nel suo Die nationale Rechtsidee. Ma forse il problema è di sempre. 
Siamo, per le citazioni, alla prima metà del novecento e lo Stato di cui si viene a parlare è il moderno Stato legislativo, succeduto a quello liberale ottocentesco; ma non solo e ancor prima a quello medievale, basato sul primato della giurisdizione e a quello burocratico e militare, ovvero dell’esecutivo, identificabile con le monarchie cosiddette "assolute". 
A quanto mi è dato comprendere dalla mia personale lettura de Il custode della costituzione, lo Stato legislativo, per un giurista come Schmitt - che aborre lo Stato giurisdizionale e la «prassi americana del controllo giudiziario della legge»[1] - è uno Stato comunque sociale e dunque coinvolto, ché esso non può essere nei fatti ancor prima che nelle intenzioni indifferente a ciò che accade.
Carl Schmitt
Addirittura tale Stato può essere considerato come l’autorganizzazione della società; di modo che sarà difficile alla fine distinguere fra gli interessi statuali e istituzionali e quelli dei gruppi sociali organizzati e/o associati, preferibilmente in forme partitiche; ciascuno avente una sua idea di legalità («pluralismo dei concetti di legalità, che distrugge il rispetto per la costituzione, e trasforma il campo della costituzione in un terreno insicuro e conteso da più lati»)[2]; ciascuno che vorrà entrare nello Stato.
Va subito detto che la diagnosi del giurista tedesco non può non essere accostata nella sostanza a quella espressa da Santi Romano sulla crisi dello Stato moderno e che l’attualità del giurista palermitano viene anche scandita in qualche modo dalla drammaticità che sottende il pensiero politico di Schmitt, la cui problematicità riterrei tuttora viva e aperta, al di là delle soluzioni proposte.
Oggetto dell’indagine schmittiana è dunque lo Stato legislativo, che è divenuto nei fatti Stato economico (dell’intervento nella economia e nel lavoro, della previdenza, ecc.) e appunto Stato dei partiti. Da quel libro si trae l’indicazione che certi aspetti del Parteienstaat siano strutturali o quanto meno ricorsivi, dunque né aggiunti né eventuali; e la questione: se lo Stato di giurisdizione sia votato alla impossibilità assoluta di un suo ripristino risulta sacrificata all’altra: se lo Stato legislativo sia inscindibile da quello dei partiti.
Come è più che intuibile, per l’illustre autore tedesco lo Stato legislativo dei partiti - pluralista e meglio policratico - emette una cattiva luce, perché esso è lo Stato dei governi delle deboli alleanze, dei pacta sunt servanda, il «labile Stato di partiti di coalizione»[3].
Dal canto loro i partiti politici (per dire con essi ogni forma associativa che vada a pesare sulle decisioni e indirizzi di politica economica) non sono quelli liberi, poco consolidati e burocratizzati dell’ottocento liberale ma ben altro: essi debbono avere - secondo la definizione fornita da una sentenza del 7 luglio 1928 della Corte costituzionale del Reich, ricordata da Schmitt - una consistenza organizzativa e di clienti, ovverosia debbono vantare, per essere considerati partiti a tutti gli effetti, un riscontro elettorale rilevante[4]. Essi in altre parole debbono poter racchiudere «interamente i loro uomini fin dalla giovinezza» e aspirare «alla totalità»[5]. Siamo insomma non già ai clubs ma ai partiti di massa.
Che Schmitt abbia colto aspetti essenziali della questione «Stato dei partiti» è provato dal fatto che è verità palpabile oggigiorno che quelli sono indice di uno Stato astrattamente, banalmente sociale e non più tanto onestamente economico-finanziario; e che la prova ne sia fornita dal fatto che seggano in Parlamento o rivestano il ruolo di ministri, esponenti di gruppi finanziari o portatori di forti interessi. Ovvero: i partiti tuttora, pur messi in discussione e scesi di popolarità a causa delle molte rivelazioni su delitti contro la pubblica amministrazione, sono ritenuti i migliori veicoli degli interessi e forze sociali, essenzialmente economici. Ed essi in tal senso ricevono i finanziamenti privati, che risultato molto influenti e che una formula democratica vuole che siano apertamente documentati e resi manifesti.
Tale è il potere dei partiti - osserva acutamente a un certo punto Schmitt - che essi decidono più di quanto non possa o non faccia la differenza fra monarchia e repubblica. Essi vincono cioè la distinzione tra forme di Stato[6] (un postulato pur forte del nostro diritto costituzionale), come prova fra l’altro la cosiddetta solidarité parlementaire, aspetto anche questo estremamente attuale, se si pensa a certe fondazioni, che fungono da bacini di raccolta delle somme “liberamente” erogate da parte di gruppi e imprese a sostegno di singoli politici: «gli interessi privati egoistici comuni dei deputati parlamentari […] passano al di sopra dei confini di partito»[7].
Dunque il Parteienstaat in quanto Stato è debole, instabile, compromissorio (profilo della formazione dei governi) ma nello stesso tempo vi è in esso qualcosa (i partiti, appunto) dotato di forti radici, sociali ed economiche, in grado d’influire sulla politica. L’immagine è quella di uno squilibrio, o di qualcosa d’innaturale. Sembra quasi una morsa; ma come liberarsene? Ritagliando forse (progressivamente) all’interno della burocrazia dello Stato figure di autorità indipendenti?
È difficilissimo - osserva Schmitt - configurare uno «Stato politicamente neutrale nei confronti dei partiti»[8], o uno «Stato neutrale degli esperti e degli specialisti»[9]; laddove creare figure di burocrati indipendenti riconduce all’autorità cui vada riconosciuto il potere di nomina. E si dovrà convenire comunque alla fine su una impossibile depolitizzazione[10].
Pure, ma proprio anche per ciò allo stesso tempo, a livello costituzionale - essendo dichiarati dall’autore tedesco i partiti avversari dell’ordine costituzionale - si chiede un’autorità indipendente da essi, che tanto derivi la sua autorità dal popolo in modo diretto quanto abbia poteri di nomina e di decretazione.
Il bisogno di arginare l’influsso negativo d’indebolimento prodotto dai partiti sulla costituzione dello Stato induce a cercare - ma oramai su una strada aliena al principio di rappresentanza - un’autorità che salvi la costituzione (un custode), e questa autorità nella mente di Schmitt non può essere né una corte costituzionale né altro organo di giurisdizione; ma il presidente del Reich, eletto direttamente dal popolo.
Dunque l’idea è quella di uno Stato legislativo basato non sic et simpliciter sulle leggi ordinarie formali e invece molto sui decreti presidenziali, sul popolo che acclama (percussio scutorum) e sul suo acclamato presidente, o capo.
Ma per fare ciò si passa necessariamente - e Schmitt lo insegna non so con quanta profondità e limpidezza di coscienza - attraverso la relegazione del giudice nell’angolo reso un po’ buio dell’applicazione della legge. Ammesso però che il potere del Giudizio appartenga al passato, non per questo credo che applicazione della legge equivalga a subordinazione alla stessa per dire al legislatore e invece alla salvaguardia della legalità e giustizia. Vi sono interpretazione e garanzia per il diritto che non sono riducibili a politica, che sono meno arbitrarie della politica, e vi è la legge del caso concreto ovvero la definizione della regola del caso singolo, che ha una sua natura e singolarità. E qui vi è una venatura inquietante: come e facendo che cosa il decreto presidenziale può sostituirsi non semplicemente alla legge del parlamento (il che significa trasformazione della funzione legislativa) ma al giudice (perché questo, al di là della retorica, è il chiaro indirizzo)? 
E al fondo di questi interrogativi ve n’è uno, preponderante: di quale costituzione il presidente è chiamato a essere il custode? Forse che quella di Weimar è anche un po’ un pretesto?

Schmitt, ma essenzialmente perché ponendosi il problema ne dimostra da par suo la consistenza, risponde in un modo parziale e insoddisfacente a una mia recente curiosità, nata dalla osservazione: come è possibile che un’associazione non riconosciuta quale il partito o il sindacato, giunga ad avere tanto peso costituzionale in una realtà politica nazionale? In fondo è solo un’associazione non riconosciuta e più forte di essa dovrebbe essere quell’ordine giuridico che la prevede.
Evidentemente, anche guardando le questioni secondo un principio di purezza, sono la natura e lo scopo del soggetto giuridico ciò che conta ed è quella realtà, irriducibile proprio perché regolata giuridicamente, che alla fine rischia d’imporsi. Se le associazioni sono importanti è perché la società è importante.
Dunque non perché il diritto sia privato esso è necessariamente subordinato a quello pubblico; e così, prima ancora che da noi si considerasse definitivamente risolto il problema della posizione delle disposizioni preliminari del codice civile nella gerarchia delle fonti, si è imposta l’idea di evoluzione in senso pluralistico delle fonti del diritto e di crisi del principio gerarchico.
Ma il problema delle fonti non sarebbe forse stato destinato all’astrattezza, se non fosse stato per il ruolo e l’attività del giudice, laddove l’applicazione della legge è la risposta costante alla questione su quale legge o disposizione applicare al caso concreto?
Evidentemente così, se il giudice «deve fare il giudice», come si sente recitare ancora oggi dai fautori del presidenzialismo, la questione non può essere ridotta a questione giuridica. Di più: qualsiasi corrente di pensiero sostenga ciò, in un modo o nell’altro, essa ha dalla sua quale extrema ratio che il diritto segue il fatto come un’ombra; o che il giuridicamente rilevante non può mai togliere il fatto in sé.
Ma certo che il giudice faccia il giudice non significa che il potere politico-partitico attraverso la legislazione e meglio la decretazione lo debba soggiogare.
Resta dunque in piedi e sembra riproporsi, al di là delle fantasie autoritarie ovvero delle brutte fiabe, la domanda: può uno Stato legislativo ma questa volta democratico fare a meno dei partiti? Già, perché Schmitt non ha chiuso il cerchio e non si è interrogato su come i partiti tradiscano le aspettative sociali, soprattutto in termini di economia social-nazionale. 




[1] Schmitt, Il custode della costituzione, trad. it. a cura di A. Caracciolo, Milano 1981, p. 121. Per la citazione di Gneist vedi Schmitt, Democrazia e liberalismo, trad. it., a cura di M. Alessio, Milano 2001, p. 104.
[2] SchmittIl custode della costituzionep. 140.
[3] Ivi, p. 137.
[4] Ivi, p. 132.
[5] Ivi, p. 131.
[6] Ivi, p. 138.
[7] Ivi, p. 139.
[8] Ivi, p. 155.
[9] Ivi, p. 167.
[10] Ivi, p. 169.

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