venerdì 24 maggio 2013

Rex Judex (giochi etimologici e personalità del potere)



Nel medioevo, secondo la ricostruzione fattane dallo storico Antonio Marongiu in un saggio del lontano 1954, il re ben presto dové dimostrare di essere degno per così dire del suo titolo. Ovvero, per essere re, egli dové difendere e coltivare un suo “onore” (l’onore che, secondo quanto asserisce Montesquieu nel suo Esprit de lois, è principio del governo monarchico, come ciò che lo fa agire). Dové farlo, intuitivamente, perché era la più alta autorità politica esistente sulla Terra, perché quella carica racchiudeva in sé il dono della universalità e perché a essere tirato in ballo era il principio stesso di autorità. E da certe cose non ci si allontana mai: Deus-Zeus, pater, auctoritas
Il motto di Isidoro da Siviglia (Ethimologiarum libri) è abbastanza eloquente al riguardo, anche se il gioco verbale appare sin troppo agevole: Rex eris si recte egeris: “sarai re se avrai agito rettamente”; laddove nel gioco dell’apparenza etimologica (congeniale all’età di mezzo, soprattutto al rinascimento bolognese) si può cogliere il senso di un messaggio e cioè l’assonanza e l’identità di radice fra rex, recte e regere. Come dire: l’attribuzione “morale” era già scolpita nella parola, anzi nel monosillabo; si trattava solo portarla alla luce e di darne testimonianza. 
Fu nel suo essere cristiano - meglio nella sua consacrazione religiosa - che il re - come l’imperatore, come il papa - ben presto trovò quella prima legittimazione che era, obiettivamente, una forte confessione culturale. 
Pure il diritto divino andava tradotto nello spirito dell’epoca. Così l’autorevolezza e la credibilità morale, la “onorabilità”, per cui il re doveva distinguersi dagli altri, si concretizzarono nella figura del “re-giudice”: rex judex. Al riguardo Bracton nel suo De legibus scriveva: Ad hoc creatus est rex et electus ut iusticiam faciat universis, e papa Innocenzo III nella decretale Per Venerabilem riassumeva i suoi poteri nella parola juris dictio. E questo conferma l’interpretazione classica, che vede nel medioevo un’epoca di giurisdizione - il potere che nel suo elemento umano essenzialmente giudica - piuttosto che di legislazione - il potere che essenzialmente legifica e cioè trascrive una volontà. 
Ma non fu così solamente sul piano dei principi: proprio nella prassi il re fu necessariamente giudice, perché istituzionalmente dové garantire la giustizia, rendere cioè giustizia entro ma soprattutto oltre l’amministrazione della stessa, e cioè, ove ciò si rendesse necessario, in via straordinaria, come dimostra l’episodio di Carlo Magno e del suddito che a lui si rivolse direttamente per ottenere quella giustizia negatagli da un giudice amministrativo - e immancabilmente la ottenne.
Carlo Magno
Questo per dire che la fonte di legittimazione del potere nell’età di mezzo non fu sic et simpliciter divina ma anche popolare e cioè fu (moralmente, religiosamente) pattizia. Chi ha potere è giudice; ma non perché egli è l’unto del Signore gli uomini si fideranno ciecamente di lui. Ovvero: il re dà ordini; ma se il precetto è ingiusto o si nutre il sospetto che lo sia - asseriva il giurista Luca da Penne -, è lecito non obbedire: ubi certum est, vel esse potest, quod iudicis praeceptum iustitiam non contineat, licitum est non sibi obbedire. Ed anche: il re giura solennemente e con lui i suoi funzionari.
Il re per la verità fu anche legislatore, ma lo fu in certo senso non prima di essere-giudice. Se vi fu anche re “legislatore”, questo non cambia la sostanza delle cose; le authenticae, ovvero le costituzioni dettate dell’imperatore, sarebbero state inserite nel corpus juris civilis e cioè in una fonte di autorità preesistente: non vi fu insomma nel medioevo un Legislativo, forte di una identità sua propria, e cioè la legge sovrana, in grado di trasformare le cose.
Perché dunque - mi domando - il re culturalmente fu giudice piuttosto che legislatore? Quale il fondamento psicologico della cosa? Questione di antropologia arcaica mai estinta, quella ad esempio descritta ne Il crollo della mente bicamerale: il re è vicino agli dèi, si frappone fra dio e uomo, perché ha allucinazioni uditive e cioè perché ha il privilegio di udire le voci degli spiriti.
Ma qui né di magia si tratta né di sciamanismo, se non in un modo velato ed interpretativamente riduttivo, e piuttosto emerge, dallo svolgimento dei fatti dell’epoca (si accennava già alle authenticae), qualcosa come un principio d’inviolabilità o sacralità della Legge.
Il problema, soprattutto nel clima di frammentazione istituzionale e politica dell’alto medioevo, era l’ordine giuridico e il re-giudice doveva garantire un ordine nel quale a ben poche leggi sarebbe stato consentito assurgere al rango di Legge, come da sempre scritta o scolpita: l’antichità valeva per autorità, sia che leggi fossero le consuetudini, sia che si trattasse di ius positum e cioè facente capo ad atti di volontà del potere costituito.
Si era ancora in certo senso nell’antico: la monarchia costituiva custodendolo qualcosa come un ordine naturale delle cose, sostanzialmente immutabile. Questo senso a ben riflettere sembra addensarsi sia nella locuzione condere leges laddove il dictum non è scriptura, sia nello stesso jus dicere, che non è il legiferare. Si era ancora nella sacralità del verbum, lontani da Gutenberg e dall’idea-principio di progresso.
Ma a questo punto vi è una osservazione interessante fatta da Marongiu, che coglie un’altra sfumatura del concetto. Dal canto loro - scrive lo storico - “I popoli non avevano o non credevano di avere bisogno di leggi. Avevano sete e bisogno di giustizia, cioè di una buona amministrazione della legge in vigore”. Già, ma ciò quasi prescindendo dalla natura della legge.
Questo può lasciar pensare che il primato della giurisdizione rispondesse a un bisogno forte e prevalente di giustizia proveniente dal popolo; che una certa quale non valorizzazione del potere di fare le leggi fosse dovuta a ciò. E qui ci si può fermare, con alcuni dubbi fra cui uno singolare: se quel grande bisogno di giustizia sia un dato storico e basta (che non vuole ragioni politiche, giuridiche, sociologiche); che insomma sia solo osservabile a distanza, naturalisticamente fondato, come la forza gravitazionale.
Si dice meno dunque, parlando del re legislatore, della liberazione del potere legislativo di quanto narrando del re-giudice non si dica della laicizzazione della giurisdizione.
La storia moderna ne avrebbe tratto beneficio, sino alla esasperazione di un ruolo, e cioè spingendo - con l’assolutismo - quel ruolo, quella identificazione, sino all’estremo della non ragionevolezza e della impopolarità. Il re-giudice avrebbe cessato di esserlo, in altre parole, come può accadere a un padre di famiglia fattosi despota: fu l’illuminismo, soprattutto con riferimento alla giustizia penale e propugnando l’idea razionale di un’amministrazione pubblica, a percepire questa verità. Mentre solo con la Rivoluzione francese - irruzione della legislazione in un mondo ammantato di giurisdizione - la legge sarebbe divenuta un prodotto tipico degli uomini.
Come dire: il bisogno di giustizia non necessariamente vuole un re-giudice così come dell’origine divina della legge mai si potranno avere prove sufficienti.

(Rielaborazione da D&G, a. 2002; già pubblicato in Europa Giovani del 24 febbraio 2009)

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