domenica 2 giugno 2013

L’immunità parlamentare: garanzia o privilegio?



L’immunità parlamentare nasce, secondo certa ricostruzione storica, con il Bill of Rights del 1689 (art. 9), allo scopo di garantire il legislativo dai possibili soprusi del re; soprusi, meglio, dell’esecutivo nel suo complesso, che al re faceva capo. 
File:English Bill of Rights of 1689.jpg
Il "Bill of Rights" del 1689
Ma nella storia ogni cosa può sempre divenire l’opposto di ciò che essa è stata, almeno nel suo primo manifestarsi. Così, in séguito, a re ed esecutivo si sarebbe sostituita la legge penale in quanto legge. E prima la legge penale (: la legge è uguale per tutti) quale prodotto specifico del parlamento (dunque il legislatore messo al riparo dalla legge), che non la magistratura, che a quel prodotto avrebbe dovuto dare applicazione.
Inizialmente dovette prevalere, nella definizione dell’istituto, la sacralità e inviolabilità del luogo, per cui - e l’interpretazione in tal senso si è protratta sino al nostro ottocento - il parlamentare non poteva essere sindacato per i voti o per le opinioni qualora le esprimesse all’interno (intra moenia) delle camere: avrebbe potuto esserlo se li avesse espressi all’esterno (extra moenia); in séguito, sostanzialmente a causa della Rivoluzione francese ma - anche - di quanto di essa gli antirivoluzionari avrebbero conservato, la insindacabilità venne a legarsi alla funzione, quella di rappresentare l’intera nazione; e di qui il criterio, assai dibattuto nella giurisprudenza, del cosiddetto “nesso funzionale”. 
Lo spectrum è il conflitto tra i poteri dello Stato; ma qualcuno recentemente ha suggerito che la questione è più profonda e attinge all’eguaglianza stessa dinanzi alla legge, ai diritti fondamentali dell’uomo e/o del cittadino, ecc. Che non sono sic et simpliciter problemi di coscienza o in qualche modo di equità o religiosi ma questione di rapporti di forza, economici e politici, ovvero di regolamentazione per legge di tali rapporti. Il problema, il quid iuris, è insomma la legge e ciò che ruota attorno ad essa. Ovvero: quanto della politica, che fa le leggi, viola lo Stato costituzionale?
Ne è emerso così un problema non di rapporto fra legislativo e giudiziario ma fra politica - e che se non privilegio, oltre certo garantismo irresponsabile? - e diritti civili e fondamentali.
L’immunità parlamentare - sostiene oggi certa dottrina - è una prerogativa, non un privilegio; laddove “prerogativa” è indice di auspicati equilibri nello Stato democratico-liberale, mentre “privilegio” è qualcosa che evoca condizioni di stampo medievale, da considerarsi almeno nominalmente in modo negativo. Ma perché il bisogno di una siffatta distinzione? Se ve ne è, è lecito pensare, allora la communis opinio suggerisce che le conclusioni e i sospetti possono muovere in altro senso, che insomma le camere parlamentari - ciò che si è posto all’origine della riforma dell’art. 68 della nostra Costituzione - tenderanno a difendersi sempre nel loro elemento “personale” tutelando la “libertà” e “autonomia” dei loro membri, al di là di ogni pretestuoso fumus persecutionis. Che cioè esse, come da noi è puntualmente accaduto, tenderanno a tradurre la insindacabilità parlamentare in intoccabilità politico-partitica, la immunità in sottrazione al diritto comune e alla legge penale.
Dunque siamo in presenza, se si sottolinea la differenza fra garanzia e privilegio, di un dover-essere - tanto quanto di un essere - a rilevanza giuridica costituzionale, ovvero: se vi è bisogno di una dottrina che enunci, dicendo che si è in presenza dell’una e non dell’altro, allora ciò significa che i giochi sono sempre “aperti”.
Questi ed altri spunti traggo, non senza una qualche inquietudine, dalla prima lettura di un testo recente sull’argomento (E. Furno, L’insindacabilità parlamentare), dal quale si può evincere fra gli altri il dato che la storia dell’art. 68 della nostra Carta costituzionale è stata caratterizzata in un primo tempo dalla elaborazione, da parte della Corte costituzionale, di una giurisprudenza favorevole piuttosto ai verdetti d’insindacabilità emessi dalla Camera di appartenenza che non a quelli del magistrato, alla politica di partito piuttosto che alla Giustizia; che a questo è subentrato da parte della suddetta Corte un indirizzo strategico in qualche modo di non-decisione e dal 2000 in poi un indirizzo propenso al sindacato nel merito dei decisa camerali; che presumibilmente la cosiddetta “Bicamerale” - ridimensionatasi la parentesi di “tangentopoli” - tentasse di chiudere definitivamente la partita a vantaggio dei politici. Libertà ed autonomia dunque dei politici contro diritti costituzionalmente garantiti?
La storia ha di queste profondità, al di là delle parole spese formalmente; e si tratta, ammesso che tutto ciò che si legge sia vero, dell’esatto contrario di ciò che oggi più di uno schieramento partitico, al grido di “avanti con le riforme!”, “riformiamo la giustizia!” (ma perché mai?, mi dico, perché tutta questa fretta?), ritiene di doverci far credere.
Guarentigia dunque per la funzione parlamentare, o privilegio delle autorità istituzionali e della politica? E questo sia detto interrogandoci ancora sui proverbiali “lodi”: lezioni forse di patologia costituzionale, forse d'insofferenze di ordine autoritario; tentativi di ritagliare, piuttosto in contrasto col principio di eguaglianza, formale tanto quanto sostanziale, che non al fine di equilibrare i poteri, certi possibili risultati vantaggiosi della nota partita. Ma … patologia forse perché punta dell’iceberg? Ovvero: quante violazioni e attentati alla Costituzione sono avvenuti ed avvengono,  nell’ordinario, senza che una sola voce, segnatamente istituzionale, non so se per insipienza giuridica e cioè per ignoranza, si sia levata e si levi a farne denuncia? Quanta non-applicazione della norma costituzionale è stata fatta in nome di un astratto principio di legittimità costituzionale, che ne era invece un distacco? Quanta non-applicazione della Costituzione si è tradotta in leggi e decreti, o in giudizio?

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