E questo non per quanto essa potesse derivare - mettiamo - dal contratto sociale di Rousseau (il controverso philosophe del quale Robespierre al cospetto della neonata Assemblea costituente della Rivoluzione francese ebbe subito a dire che con il suo genio aveva “illuminato l’umanità” e “preparato i vostri lavori”) ma perché parlava di diritti “universali”, il che significa: il diritto posto su di un livello diverso, approdato a un grado più elevato di elaborazione, rispetto ai diritti “della terra” e alle antiche “libertà” o ai patti costitutivi di questa o quella nazione, di cui questo o quel popolo potesse chiedere nei momenti “rivoluzionari” il ripristino. La giuridicità, posta in certo modo al di sopra delle teste degli uomini, e cioè il diritto, quasi come un che di trascendentale.
George Jellinek |
Secondo
George Jellinek, filosofo e giurista austriaco, quell’astrattezza e universalità
traevano invece alimento dalle declarations of rights dei primi stati
nordamericani, presso i quali la nuova categoria di diritti aveva la forza vincolante
del fondamento; ma si trattava di
singoli stati, non dell’Unione, come provato dai Mémoires di Lafayette
(che quella Dichiarazione dell’‘89 promosse) e dalle traduzioni
circolanti già da tempo in Europa. Meglio: astrattezza e universalità, secondo
Jellinek, erano il portato di quella dimensione della Riforma che faceva
capo al principio della “libertà di coscienza”, un diritto “della coscienza
indipendente dallo Stato” (l’individuo “dotato di soggettività giuridica” “non
grazie allo Stato, ma per propria natura”), qualcosa che attinge a Dio e alla
natura delle cose ancor prima che all’umana attitudine al contratto. In altre
parole: il livello cui attinsero le dichiarazioni dei diritti sarebbe quello,
più alto, che morale e religione possono assicurare - sino a quel senso religioso-punitivo tipico degli Stati Uniti, che ancora fa scuola nella espansione del giure penale - rispetto alla politica.
Un
modo questo forse poco 'francese' di argomentare: la famosa Déclaration
dell’ ‘89 pure sorgeva dai cahiers, né si sarebbe dovuto sottacere il
processo di maturazione di certe istanze proprio in Francia e poi, comunque,
poteva essere l’esperienza americana, come ha potuto osservare D. Nocilla, a
dare compimento al nuovo spirito?
Ma
il taglio argomentativo tanto era poco 'francese' quanto paradossalmente 'voltairiano': non era stato forse Voltaire a sottolineare, nel primo settecento,
il contrasto fra i progressi scientifici e culturali degli inglesi e
l’ignoranza dei francesi (e per tutti di ... Cartesio)? E comunque: tanto è vero
che Voltaire parlava in pieno ancien régime quanto che il modello
costituzionalistico anglosassone, a cui Jellinek si richiama, è tale perché
sganciato dall’Inghilterra. La tesi del filosofo-giurista, sostanzialmente, è
quella di un iato, trasposizione in altro territorio continentale e
riassunzione in Europa, di una dimensione giuridica così divenuta diversa
rispetto al miglior diritto europeo, sino quello, per intenderci, della Magna
Charta Libertatum del 1215 e dello Habeas Corpus ad subjiciendum.
Così
astrattezza e universalità erano assicurate da un meccanismo se vogliamo
irripetibile: io fondo una colonia su una terra inesplorata basandomi su
principi che la vecchia terra (perché occupata, ideologizzata, giuridicamente
consolidatasi) in qualche modo mi negherebbe per tenerli troppo legati a sé. Io
dunque fondo una colonia perché voglio riformare la mia e altrui (e cioè
pubblica) esistenza sulla base di diritti di libertà che solo con altra
geografia potranno fruttificare nel modo migliore: non consacrazione e perfezionamento
di un passato ma fondamento di un futuro giuridicamente (perché moralmente)
diverso. Fonderò una colonia e cioè lavorerò anche duramente e vivrò del mio,
avrò per il mio lavoro il sostegno di un Dio non-politico, magari anche
ancestrale ma che è in me, ecc.: ecco esposta in breve una sottilissima e non
falsa, infondata, teoria della libertà costituzionale come lacerazione
rispetto al passato.
Così
certo si entra nella sottigliezza di aspetti storici; ovvero non è solo la
storia quale distillato storico che conta ma il fatto e il perché le cose siano
andate così, sino in fondo. Sin qui sostanzialmente la tesi (semplice, lineare,
e anche discutibile) di Jellinek, quale la si può apprendere da un bel
volumetto pubblicato nella collana Civiltà del diritto.
Ma
vi è qualcosa in tutto ciò che non tanto lascia perplessi quanto fa riflettere:
quello stesso spirito della Riforma che per nostra comune cognizione ha dato
forte impulso, già prima della Rivoluzione francese, alle culture nazionali,
sarebbe alla base dell’astratto individualismo universalistico della Déclaration
del 1789. Quasi la Riforma
fosse scindibile in due aspetti coesistenti: uno della universalità dei
diritti, l’altro della opposizione politica nazionale ad una egemonia
straniera, prima ancora che sovranazionale. Ma se è vero che il diritto delle
Dichiarazioni non doveva essere confuso con quello delle costituzioni scritte,
venendo esso ad assicurare proprio la libertà dell’individuo nei suoi diritti
preesistenti, inalienabili e intangibili rispetto allo Stato, è altrettanto
vero che attraverso la Déclaration
dell’ ‘89 bisognava “fissare lo spirito della legislazione, affinché non la si
cambi[asse] in avvenire” (Barnave) e cioè era necessario che quella
Dichiarazione, nel suo legame con il nuovo diritto pubblico, divenisse catechismo
nazionale.
Quei
due aspetti dunque si può ben sospettare si siano come saldati, perché il vero
problema era quello di sganciare il diritto, quanto meno nella sua forza
ideale, dalla terra (laddove la nazionalità per sé stessa non sarebbe bastata).
Ovvero l’origine non smentisce, anzi rafforza il risultato: quei due aspetti si
sono fusi, e negli Stati Uniti d’America e in Europa, con diversa efficacia, lì
dando corpo alla struttura federale, qui agli stati nazionali. Ovvero
l’astrattezza e universalità dei principi non solo non erano chiamate a
confutare gli stati nazionali ma, trascendendone la territorialità, a
promuoverli, storicamente ed eticamente,
anche nel loro elemento territoriale. Esse hanno mostrato che quella ideologia
che inaugurava gli ordinamenti nazionali era la stessa che andava, ma perché
così nasceva, oltre i loro confini. Nell’immediato - muovendo cioè dal punto di
vista della rivoluzione nazionale - il concetto sarebbe stato quello (ben adatto
interpretativamente all’età napoleonica) di “esportare la rivoluzione”; ma ciò
appunto perché a fronte di un vecchio ordine vi era bisogno in Europa di
concentrare in una nazione sorgente i diritti universali, che ad essa avrebbero
dato - come dimostrarono le armi napoleoniche - forza espansiva e di
trasformazione. Nasceva così una cultura politica e giuridica sì nazionale ma
anche oltre-nazionale: la nazione sorgeva munita di una ideologia
universalistica che ne era non un’aggiunta o uno strumento in più ma la
poderosa leva. Essa in questo faceva seguito al movimento culturale europeo
(legato alla masonerie) nel quale si era venuto formando l’illuminismo,
fatto di scambi fra le culture anglosassone e continentale, laddove era insita
una forza specifica di rottura tanto delle angustie della lex terrae e
dello ius commune, quanto della natio medievale. Ma proprio in
questo essa mostrava il valore di una nuova ideologia giuridica che non sarebbe
stata nemmeno solo europea, proprio a causa della sua formazione.
(Rielaborazione da D&G, a. 2002)
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