sabato 1 giugno 2013

Diritti universali, catechismo nazionale

 

La Dichiarazione dei diritti del 1789 era troppo astratta rispetto al diritto continentale e meglio europeo - detto ciò lato sensu, a volervi ricomprendere anche la cultura giuridica inglese - per potersi ritenere che ne costituisse la normale evoluzione. 
E questo non per quanto essa potesse derivare - mettiamo - dal contratto sociale di Rousseau (il controverso philosophe del quale Robespierre al cospetto della neonata Assemblea costituente della Rivoluzione francese ebbe subito a dire che con il suo genio aveva “illuminato l’umanità” e “preparato i vostri lavori”) ma perché parlava di diritti “universali”, il che significa: il diritto posto su di un livello diverso, approdato a un grado più elevato di elaborazione, rispetto ai diritti “della terra” e alle antiche “libertà” o ai patti costitutivi di questa o quella nazione, di cui questo o quel popolo potesse chiedere nei momenti “rivoluzionari” il ripristino. La giuridicità, posta in certo modo al di sopra delle teste degli uomini, e cioè il diritto, quasi come un che di trascendentale. 
George Jellinek
Secondo George Jellinek, filosofo e giurista austriaco, quell’astrattezza e universalità traevano invece alimento dalle declarations of rights dei primi stati nordamericani, presso i quali la nuova categoria di diritti aveva la forza vincolante del fondamento; ma si trattava di singoli stati, non dell’Unione, come provato dai Mémoires di Lafayette (che quella Dichiarazione dell’‘89 promosse) e dalle traduzioni circolanti già da tempo in Europa. Meglio: astrattezza e universalità, secondo Jellinek, erano il portato di quella dimensione della Riforma che faceva capo al principio della “libertà di coscienza”, un diritto “della coscienza indipendente dallo Stato” (l’individuo “dotato di soggettività giuridica” “non grazie allo Stato, ma per propria natura”), qualcosa che attinge a Dio e alla natura delle cose ancor prima che all’umana attitudine al contratto. In altre parole: il livello cui attinsero le dichiarazioni dei diritti sarebbe quello, più alto, che morale e religione possono assicurare - sino a quel senso religioso-punitivo tipico degli Stati Uniti, che ancora fa scuola nella espansione del giure penale - rispetto alla politica. 
Un modo questo forse poco 'francese' di argomentare: la famosa Déclaration dell’ ‘89 pure sorgeva dai cahiers, né si sarebbe dovuto sottacere il processo di maturazione di certe istanze proprio in Francia e poi, comunque, poteva essere l’esperienza americana, come ha potuto osservare D. Nocilla, a dare compimento al nuovo spirito?
Ma il taglio argomentativo tanto era poco 'francese' quanto paradossalmente 'voltairiano': non era stato forse Voltaire a sottolineare, nel primo settecento, il contrasto fra i progressi scientifici e culturali degli inglesi e l’ignoranza dei francesi (e per tutti di ... Cartesio)? E comunque: tanto è vero che Voltaire parlava in pieno ancien régime quanto che il modello costituzionalistico anglosassone, a cui Jellinek si richiama, è tale perché sganciato dall’Inghilterra. La tesi del filosofo-giurista, sostanzialmente, è quella di un iato, trasposizione in altro territorio continentale e riassunzione in Europa, di una dimensione giuridica così divenuta diversa rispetto al miglior diritto europeo, sino quello, per intenderci, della Magna Charta Libertatum del 1215 e dello Habeas Corpus ad subjiciendum.
Così astrattezza e universalità erano assicurate da un meccanismo se vogliamo irripetibile: io fondo una colonia su una terra inesplorata basandomi su principi che la vecchia terra (perché occupata, ideologizzata, giuridicamente consolidatasi) in qualche modo mi negherebbe per tenerli troppo legati a sé. Io dunque fondo una colonia perché voglio riformare la mia e altrui (e cioè pubblica) esistenza sulla base di diritti di libertà che solo con altra geografia potranno fruttificare nel modo migliore: non consacrazione e perfezionamento di un passato ma fondamento di un futuro giuridicamente (perché moralmente) diverso. Fonderò una colonia e cioè lavorerò anche duramente e vivrò del mio, avrò per il mio lavoro il sostegno di un Dio non-politico, magari anche ancestrale ma che è in me, ecc.: ecco esposta in breve una sottilissima e non falsa, infondata, teoria della libertà costituzionale come lacerazione rispetto al passato.
Così certo si entra nella sottigliezza di aspetti storici; ovvero non è solo la storia quale distillato storico che conta ma il fatto e il perché le cose siano andate così, sino in fondo. Sin qui sostanzialmente la tesi (semplice, lineare, e anche discutibile) di Jellinek, quale la si può apprendere da un bel volumetto pubblicato nella collana Civiltà del diritto.
Ma vi è qualcosa in tutto ciò che non tanto lascia perplessi quanto fa riflettere: quello stesso spirito della Riforma che per nostra comune cognizione ha dato forte impulso, già prima della Rivoluzione francese, alle culture nazionali, sarebbe alla base dell’astratto individualismo universalistico della Déclaration del 1789. Quasi la Riforma fosse scindibile in due aspetti coesistenti: uno della universalità dei diritti, l’altro della opposizione politica nazionale ad una egemonia straniera, prima ancora che sovranazionale. Ma se è vero che il diritto delle Dichiarazioni non doveva essere confuso con quello delle costituzioni scritte, venendo esso ad assicurare proprio la libertà dell’individuo nei suoi diritti preesistenti, inalienabili e intangibili rispetto allo Stato, è altrettanto vero che attraverso la Déclaration dell’ ‘89 bisognava “fissare lo spirito della legislazione, affinché non la si cambi[asse] in avvenire” (Barnave) e cioè era necessario che quella Dichiarazione, nel suo legame con il nuovo diritto pubblico, divenisse catechismo nazionale.
Quei due aspetti dunque si può ben sospettare si siano come saldati, perché il vero problema era quello di sganciare il diritto, quanto meno nella sua forza ideale, dalla terra (laddove la nazionalità per sé stessa non sarebbe bastata). Ovvero l’origine non smentisce, anzi rafforza il risultato: quei due aspetti si sono fusi, e negli Stati Uniti d’America e in Europa, con diversa efficacia, lì dando corpo alla struttura federale, qui agli stati nazionali. Ovvero l’astrattezza e universalità dei principi non solo non erano chiamate a confutare gli stati nazionali ma, trascendendone la territorialità, a promuoverli,  storicamente ed eticamente, anche nel loro elemento territoriale. Esse hanno mostrato che quella ideologia che inaugurava gli ordinamenti nazionali era la stessa che andava, ma perché così nasceva, oltre i loro confini. Nell’immediato - muovendo cioè dal punto di vista della rivoluzione nazionale - il concetto sarebbe stato quello (ben adatto interpretativamente all’età napoleonica) di “esportare la rivoluzione”; ma ciò appunto perché a fronte di un vecchio ordine vi era bisogno in Europa di concentrare in una nazione sorgente i diritti universali, che ad essa avrebbero dato - come dimostrarono le armi napoleoniche - forza espansiva e di trasformazione. Nasceva così una cultura politica e giuridica sì nazionale ma anche oltre-nazionale: la nazione sorgeva munita di una ideologia universalistica che ne era non un’aggiunta o uno strumento in più ma la poderosa leva. Essa in questo faceva seguito al movimento culturale europeo (legato alla masonerie) nel quale si era venuto formando l’illuminismo, fatto di scambi fra le culture anglosassone e continentale, laddove era insita una forza specifica di rottura tanto delle angustie della lex terrae e dello ius commune, quanto della natio medievale. Ma proprio in questo essa mostrava il valore di una nuova ideologia giuridica che non sarebbe stata nemmeno solo europea, proprio a causa della sua formazione.

(Rielaborazione da D&G, a. 2002)

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