L’immunità
parlamentare nasce, secondo certa ricostruzione storica, con il Bill of Rights del 1689 (art. 9), allo
scopo di garantire il legislativo dai possibili soprusi del re; soprusi, meglio,
dell’esecutivo nel suo complesso, che al re faceva capo.
Ma nella storia ogni
cosa può sempre divenire l’opposto di ciò che essa è stata, almeno nel suo
primo manifestarsi. Così, in séguito, a re ed esecutivo si sarebbe sostituita
la legge penale in quanto legge. E
prima la legge penale (: la legge è uguale per tutti) quale prodotto specifico del
parlamento (dunque il legislatore messo al riparo dalla legge), che non la
magistratura, che a quel prodotto avrebbe dovuto dare applicazione.
Il "Bill of Rights" del 1689 |
Inizialmente
dovette prevalere, nella definizione dell’istituto, la sacralità e inviolabilità del luogo, per cui - e l’interpretazione in tal senso si è
protratta sino al nostro ottocento - il parlamentare non poteva essere
sindacato per i voti o per le opinioni qualora le esprimesse all’interno (intra moenia) delle camere: avrebbe potuto esserlo se li avesse espressi
all’esterno (extra moenia); in séguito, sostanzialmente a causa della Rivoluzione
francese ma - anche - di quanto di essa gli antirivoluzionari avrebbero conservato,
la insindacabilità venne a legarsi alla funzione, quella di rappresentare l’intera
nazione; e di qui il criterio, assai dibattuto nella giurisprudenza, del cosiddetto “nesso funzionale”.
Lo spectrum è il conflitto tra i poteri
dello Stato; ma qualcuno recentemente ha suggerito che la questione è più
profonda e attinge all’eguaglianza stessa dinanzi alla legge, ai diritti
fondamentali dell’uomo e/o del cittadino, ecc. Che non sono sic et simpliciter problemi di coscienza
o in qualche modo di equità o religiosi ma questione di rapporti di forza,
economici e politici, ovvero di regolamentazione per legge di tali rapporti. Il
problema, il quid iuris, è insomma la
legge e ciò che ruota attorno ad essa. Ovvero: quanto della politica, che fa le
leggi, viola lo Stato costituzionale?
Ne è
emerso così un problema non di rapporto fra legislativo e giudiziario ma fra
politica - e che se non privilegio, oltre certo garantismo irresponsabile? - e
diritti civili e fondamentali.
L’immunità
parlamentare - sostiene oggi certa dottrina - è una prerogativa, non un
privilegio; laddove “prerogativa” è indice di auspicati equilibri nello Stato
democratico-liberale, mentre “privilegio” è qualcosa che evoca condizioni di
stampo medievale, da considerarsi almeno nominalmente in modo negativo. Ma
perché il bisogno di una siffatta distinzione? Se ve ne è, è lecito pensare, allora
la communis opinio suggerisce che le
conclusioni e i sospetti possono muovere in altro senso, che insomma le camere
parlamentari - ciò che si è posto all’origine della riforma dell’art. 68 della
nostra Costituzione - tenderanno a difendersi sempre nel loro elemento “personale” tutelando la “libertà” e “autonomia” dei loro membri, al di là di ogni pretestuoso
fumus persecutionis. Che cioè esse,
come da noi è puntualmente accaduto, tenderanno a tradurre la insindacabilità
parlamentare in intoccabilità politico-partitica, la immunità in sottrazione al
diritto comune e alla legge penale.
Dunque
siamo in presenza, se si sottolinea la differenza fra garanzia e privilegio, di
un dover-essere - tanto quanto di un essere - a rilevanza giuridica
costituzionale, ovvero: se vi è bisogno di una dottrina che enunci, dicendo che
si è in presenza dell’una e non dell’altro, allora ciò significa che i giochi
sono sempre “aperti”.
Questi
ed altri spunti traggo, non senza una qualche inquietudine, dalla prima lettura
di un testo recente sull’argomento (E. Furno, L’insindacabilità parlamentare), dal quale si può evincere fra gli
altri il dato che la storia dell’art. 68 della nostra Carta costituzionale è
stata caratterizzata in un primo tempo dalla elaborazione, da parte della Corte
costituzionale, di una giurisprudenza favorevole piuttosto ai verdetti
d’insindacabilità emessi dalla Camera di appartenenza che non a quelli del
magistrato, alla politica di partito piuttosto che alla Giustizia; che a questo
è subentrato da parte della suddetta Corte un indirizzo strategico in qualche
modo di non-decisione e dal 2000
in poi un indirizzo propenso al sindacato nel merito dei
decisa camerali; che presumibilmente la
cosiddetta “Bicamerale” - ridimensionatasi la parentesi di “tangentopoli” - tentasse
di chiudere definitivamente la partita a vantaggio dei politici. Libertà ed
autonomia dunque dei politici contro diritti costituzionalmente garantiti?
La
storia ha di queste profondità, al di là delle parole spese formalmente; e si
tratta, ammesso che tutto ciò che si legge sia vero, dell’esatto contrario di
ciò che oggi più di uno schieramento partitico, al grido di “avanti con le riforme!”,
“riformiamo la giustizia!” (ma perché mai?, mi dico, perché tutta questa fretta?),
ritiene di doverci far credere.
Guarentigia
dunque per la funzione parlamentare, o privilegio delle autorità istituzionali
e della politica? E questo sia detto interrogandoci ancora sui proverbiali “lodi”:
lezioni forse di patologia costituzionale, forse d'insofferenze di ordine autoritario; tentativi
di ritagliare, piuttosto in contrasto col principio di eguaglianza, formale
tanto quanto sostanziale, che non al fine di equilibrare i poteri, certi possibili
risultati vantaggiosi della nota partita. Ma … patologia forse perché punta
dell’iceberg? Ovvero: quante
violazioni e attentati alla Costituzione sono avvenuti ed avvengono, nell’ordinario, senza che una sola voce, segnatamente istituzionale, non so se per
insipienza giuridica e cioè per ignoranza, si sia levata e si levi a farne denuncia? Quanta
non-applicazione della norma costituzionale è stata fatta in nome di un astratto
principio di legittimità costituzionale, che ne era invece un distacco? Quanta
non-applicazione della Costituzione si è tradotta in leggi e decreti, o in
giudizio?
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